[A cura di: avv. Ermenegildo Mario Appiano – Segretario ALAC Torino]
Come noto, i contratti di locazione relativi ad immobili urbani ad uso diverso dall’abitazione hanno una durata minima fissata dalla legge, che è di sei anni (nove se i locali sono adibiti ad attività alberghiera).
Ciò ai sensi dell’art.27 della legge 392/1978.
Il locatore non ha possibilità alcuna di recedere anticipatamente da tale contratto, mentre il conduttore può farlo in due diverse situazioni. In primo luogo, qualora tale facoltà gli sia stata riconosciuta mediante un’apposita clausola contrattuale. In secondo luogo, anche in assenza di qualunque pattuizione sul recesso anticipato del conduttore, se sussistono “gravi motivi”, tali cioè da non rendere più ragionevole che il conduttore stesso continui ad essere vincolato dal rapporto di locazione (ultimo comma della norma citata).
I GRAVI MOTIVI
Con riferimento allora a questa seconda ipotesi, ci si è posti il problema di capire in cosa consistano i “gravi motivi” in questione. In effetti, se si consentisse al conduttore di addurre in qualsiasi circostanza la presenza di un “grave motivo”, ciò gli consentirebbe – di fatto – di recedere a piacimento dal contratto di locazione, cosa invece non consentitagli in mancanza di un’apposita previsione contrattuale, come poc’anzi spiegato.
Allo stesso vietato risultato si addiverrebbe se si consentisse comunque al conduttore di determinare egli stesso il venire in essere delle circostanze che verrebbero poi addotte a fondamento degli stessi “gravi motivi”.
LA CASSAZIONE
Questo principio è ormai pacifico nella giurisprudenza della Cassazione. Al riguardo, basti richiamare una delle decisioni più recenti in materia (Sez. VI, ordinanza 11/03/2011, n. 5911), dove si ribadisce che “i gravi motivi in presenza dei quali l’art. 27, ultimo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392, indipendentemente dalle previsioni contrattuali, consente in qualsiasi momento il recesso del conduttore dal contratto di locazione devono collegarsi a fatti estranei alla volontà del conduttore, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto”.
Andando però più nello specifico, ci si può domandare come tale principio funziona in situazioni complesse, e cioè quando i locali locati non rappresentino l’unico immobile nel quale il conduttore esercita la propria attività.
GRANDE DISTRIBUZIONE
Caso emblematico è quello della grande distribuzione, dove la stessa società può gestire diversi ipermercati, locando da soggetti diversi più immobili in differenti località.
A dirimere la situazione, soccorre una decisione della Cassazione (sezione III, sentenza 3/12/2011, n.26711), avente per oggetto il caso in cui un simile conduttore – cambiata la propria compagine sociale e modificata di conseguenza la propria politica aziendale – invocava la presenza dei “gravi motivi” di recesso per liberarsi dal rapporto di locazione relativo ad un immobile che più non gli interessava, mentre continuava a svolgere la propria attività commerciale in tutti gli altri punti vendita. In pratica, “a fronte di un piano di riqualificazione aziendale promosso dal nuovo gruppo proprietario (della società conduttrice: n.d.r.), che aveva consentito, su scala nazionale, un considerevole aumento del guadagno, soltanto l’esercizio per cui è causa non aveva invece risposto alle attese” e, conseguentemente, si cercava di dismettere.
Nella fattispecie la Cassazione ha negato la sussistenza dei “gravi motivi” di recesso.
Per stabilirlo, la Suprema Corte è partita dalla premessa “che, secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, le ragioni che consentono al locatario di liberarsi del vincolo contrattuale devono essere determinate da avvenimenti estranei alla sua volontà, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore la sua prosecuzione”. Inoltre, con riferimento all’andamento dell’attività aziendale, è altresì principio consolidato che “può integrare grave motivo, legittimante il recesso del conduttore, un andamento della congiuntura economica (sia favorevole che sfavorevole all’attività di impresa), sopravvenuto e oggettivamente imprevedibile (quando fu stipulato il contratto), che lo obblighi ad ampliare o ridurre la struttura aziendale in misura tale da rendergli particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo” (cfr. Cass. n.10980/1996, n.3418/04, n.9443/2010).
Ma è utile precisare a riguardo – e tale rilievo non è di poco conto – che i fatti, per essere tali da rendere oltremodo gravosa la prosecuzione del contratto, devono presentare una connotazione oggettiva, non potendo risolversi nella unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine all’opportunità o meno di continuare a occupare l’immobile locato, poiché, in tal caso, si ipotizzerebbe la sussistenza di un recesso ad nutum, contrario all’interpretazione letterale, oltre che allo spirito della suddetta norma (cfr. Cass. n.5293/08, n.5328/07) e che la gravosità della prosecuzione del rapporto locativo deve essere valutata in rapporto alla dimensione globale dell’azienda, specialmente se sia di rilievo nazionale o multinazionale, verificandosi a tal fine se il sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie sia tale da incidere significativamente sull’andamento dell’azienda del conduttore, considerata nel complesso delle sue varie articolazioni territoriali”.
Applicando tali principi al caso di specie, la Cassazione ha quindi avvallato quanto deciso dalla Corte d’Appello di Brescia, la quale aveva negato la sussistenza dei “gravi motivi” di recesso per la ragione che “se anche si volesse circoscrivere il discorso al singolo punto di vendita di Brescia, non risulterebbe dimostrato l’elemento della prosecuzione gravosa non avendolo il conduttore provato – attraverso una comparazione con gli altri punti vendita che il negozio di (omissis) raggiungesse un fatturato cosi basso rispetto agli altri negozi da renderne necessaria la chiusura, per non ostacolare l’espansione del gruppo, anche perché i minori (in resi) ricavi potrebbero essere stati determinati da contingenze non necessariamente legate all’ubicazione dei locali (ad esempio, dall’incapacità del personale o dai prezzi praticati). Ed allora è evidente che il solo confronto fra i due negozi di (omissis) (quello chiuso e quello successivamente aperto in corso (omissis)) non può dare un’oggettiva contezza – per aver operato in periodi certamente diversi, con personale forse diverso ed in una condizione probabilmente diversa – del fatto che mantenere aperto il negozio appartenente agli odierni appellanti, piuttosto che trasferirlo ad un centinaio di metri, costituisce un grave handicap per la società. E questo a voler sottacere che, neppure del progetto di riqualificazione della via (omissis) e dell’affidamento di esso concretamente avuto, il conduttore ha fornito un’adeguata prova, non essendo all’uopo rilevante un documento che si limita ad uno studio unilaterale e parziale sullo stesso fabbricato”.
In conclusione, per dette ragioni nella fattispecie la Cassazione ha escluso la sussistenza dei “gravi motivi” di recesso alla luce del principio di diritto secondo cui “in tema di recesso del conduttore in base al disposto di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 27, u.c. le ragioni che consentono al locatario di liberarsi del vincolo contrattuale, devono essere determinate da avvenimenti sopravvenuti alla costituzione del rapporto, estranei alla sua volontà ed imprevedibili, tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore la sua prosecuzione. La gravosità della prosecuzione, che deve avere una connotazione oggettiva non potendo risolversi nella unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine alla convenienza o meno di continuare il rapporto locativo, deve essere, non solo tale da eccedere l’ambito della normale alea contrattuale, ma deve altresì consistere in un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie tale da incidere significativamente sull’andamento dell’azienda del conduttore globalmente considerata”.
UN CASO DIFFERENTE
Merita però osservare che in una successiva pronuncia (sezione III, sentenza 27/03/2014, n.7217), la Cassazione ha invece ravvisato la presenza dei “gravi motivi” di recesso qualora i locali locati siano dedicati all’esercizio di un ramo dell’azienda del conduttore che viene chiuso, sebbene gli altri rami d’azienda del conduttore continuino la loro attività in altri locali.
La Corte d’Appello di Trieste – la cui decisione è stata annullata dalla Cassazione – aveva negato la sussistenza dei “gravi motivi” addotti dalla conduttrice a fondamento del recesso anticipato osservando “che la chiusura del ramo di azienda per cui veniva utilizzato il capannone non era “stata una scelta necessitata dell’imprenditore, bensì una scelta di opportunità”, determinata “da motivi strategici e non gravi” (visto che, pur a fronte di un’indubbia riduzione del fatturato relativo allo specifico ramo d’azienda della produzione di sedute in legno, la società aveva registrato – nel complesso – un aumento del volume di affari)”.
Per contro, la Cassazione ha ritenuto “che l’accertamento della ricorrenza dei suddetti requisiti non possa che essere condotto in riferimento allo specifico contratto di locazione per cui viene esercitato il recesso e che, ove venga addotta la non remuneratività dell’attività o addirittura la chiusura del ramo di azienda che utilizzava l’immobile interessato dal recesso, non possa tenersi conto dell’aumentata redditività di altre attività, tale da assorbire le perdite o anche da determinare un miglioramento complessivo delle condizioni economiche del conduttore.
Nell’ottica di un bilanciamento fra l’interesse del locatore alla prosecuzione del rapporto fino alla sua naturale scadenza e quello del conduttore a non essere vincolato dal contratto ove l’attività per cui l’immobile è stato locato divenga antieconomica, la valutazione imposta dall’art. 27 ult. co. non può che concernere la specifica attività per cui l’immobile è stato locato, al fine di accertare se persista – oggettivamente – quell’interesse che aveva determinato l’assunzione degli obblighi contrattuali.
Considerato, infatti, che i richiamati requisiti della involontarietà, sopravvenienza ed imprevedibilità forniscono adeguata tutela agli interessi del locatore, impedendo che lo scioglimento del rapporto sia rimesso alla mera volontà del conduttore, l’opzione interpretativa che – a fronte di una situazione di complessiva floridità aziendale – richiedesse al conduttore di restare vincolato ad un contratto rivelatosi antieconomico ne comprimerebbe le ragioni oltre la misura necessaria a garantire la posizione del locatore, finendo col penalizzare il conduttore sino al punto di veder ridotti – o addirittura azzerati – i risultati positivi conseguiti in altri rami dell’attività aziendale”.
Sembrerebbe allora che la diversa tipologia dell’attività esercitata nei diversi rami d’azienda (fabbricazione sedie in legno in quello che veniva cessato e fabbricazione sedie in metallo in quello che continuava) rappresenti l’elemento a suffragio della decisione assunta in questa più recente sentenza dalla Cassazione.
Ma forse questo non è il punto dirimente.
Nella prima decisione, infatti la Cassazione ha esaminato un caso in cui il conduttore svolgeva la medesima attività mediante diversi punti vendita, che verosimilmente facevano tutti parte della stessa azienda. In altre parole, sembrerebbe che l’organizzazione aziendale in questione fosse unitaria, e cioè che i singoli punti vendita non costituissero ciascuno uno specifico ramo d’azienda del conduttore. Se invece così fosse stato, ci si domanda allora a quale soluzione sarebbero pervenuti i giudici.
In definitiva, la questione non può dirsi chiusa.
Visto il crescere esponenziale che la grande distribuzione ha avuto negli ultimo anni ed essendo sempre più forte la concorrenza al suo stesso interno, considerata altresì l’attuale difficile congiuntura economica nel nostro Paese, molto verosimilmente la materia tornerà presto all’attenzione della Cassazione.