[Inchiesta a cura di: Rebecca Genesio]
Da un po’ anni a questa parte, la cucina è diventata la protagonista indiscussa in televisione, sui giornali, in libreria. Ciò che è stato fatto negli ultimi tempi, è permettere anche a chi non è un cuoco professionista di poterlo “diventare” tra le mura domestiche, grazie ai grandi chef che mostrano come realizzare le loro ricette; ma un’altra tendenza è stata quella di mostrare come cuochi amatoriali possono migliorare fino a diventare chef rinomati.
Ebbene, se si unisce questa premessa alla ricerca di un modo nuovo di socializzare, non c’è da stupirsi di fronte alla nascita dell’ultimo trend, chiamato social eating, che permette di creare un home restaurant direttamente a casa propria, trovando clienti grazie a portali web.
Ma, trattandosi di un’attività che, in ultima analisi, si svolge in condominio, c’è da chiedersi: è lecita? E in che misura (e con quali limiti)?
Ecco la questione affrontata da tutti i punti di vista: quello legale, ma anche quello degli organizzatori di eventi culinari social e quello di chi, come la Fipet (Federazione Italiana Esercenti Pubblici e Turistici) rappresenta, invece, gli interessi di coloro i quali più di ogni altro potrebbero essere (o sentirsi) danneggiati dal fenomeno: i ristoratori professionisti.
IL PARERE LEGALE
(a cura di: avv. Enrico Morello e dott.ssa Valentina Napoli)
Da qualche anno, in Italia si sta diffondendo una nuova tendenza, quella del c.d. “social eating”, che mette insieme vita sociale e cibo, ovvero andare a colazione, pranzo o cena in case private, anche tra perfetti sconosciuti, dividendo le spese.
Si tratta, infatti, di una pratica che sta prendendo piede soprattutto grazie ai social network ed al passaparola: il proprietario di casa crea un vero e proprio “ristorante” direttamente nella propria abitazione, cucinando per un gruppo di persone sconosciute che partecipano alla spesa in base al menù proposto, al fine di condividere il cibo, per socializzare ed anche, in periodo di crisi, per guadagnare (c’è infatti chi del social eating ha fatto un secondo lavoro).
Il tutto nasce ondine: c’è chi cucina e chi si fa ospitare attraverso una semplice iscrizione su siti specifici, scegliendo l’appuntamento in base alle proprie preferenze di menù e presentandosi al posto ed all’ora concordati.
I vantaggi del social eating sono molteplici: per chi si trova in viaggio, ad esempio, può essere un’occasione per assaggiare la cucina e la cultura del luogo, oltre che per conoscere nuove persone.
Allo stesso modo, sempre in tema di nuovi intrattenimenti che si estendono grazie ad internet, si pensi a chi trasforma occasionalmente la propria casa in un bed and breakfast, consentendo quindi il pernottamento e la colazione a turisti di passaggio.
Considerata la tipologia di tale nuova tendenza, ci si è domandati se il regolamento condominiale in futuro potrebbe (se assunto dall’unanimità dei condòmini, avendo natura contrattuale) impedire, in qualche modo, lo svolgimento dell’attività del social eating.
Ad oggi, tuttavia, essendo quello in questione un fenomeno nuovo, non esistono, a quanto si sappia, clausole che lo vietino espressamente, quanto viceversa clausole che si riferiscono piuttosto al divieto di attività commerciali in generale e, eventualmente, nello specifico, di ristorazione.
Ci si può chiedere, in presenza di tali clausole, se l’attività di social eating sia consentita o meno. La risposta, a mio avviso, non potrà essere data che analizzando caso per caso.
In particolare, bisognerà analizzare la questione dal punto di vista quantitativo, e quindi considerare il reale flusso di persone che transitano all’interno dell’abitazione privata: solitamente, gli invitati a questi banchetti sono in numero ristretto (proprio a causa del carattere “privato” dell’attività), a meno che non assuma dimensioni tali da essere paragonato ad un ristorante vero e proprio.
In qualsiasi caso, il presupposto indispensabile di qualsiasi attività svolta in condominio è il rispetto, da parte dei proprietari e dei loro ospiti (o commensali e cuochi in questo caso), delle norme di civile convivenza e della tranquillità del vicinato, in modo da non creare rumori molesti e schiamazzi.
Si tratta di quei comportamenti che non hanno bisogno di una regolamentazione ad hoc, perché insiti nel rispetto del quieto vivere e della civiltà delle persone.
Resta inteso che, in caso di immissioni di rumore intollerabili, si ha la possibilità di richiedere una tutela dinanzi al giudice civile per l’accertamento e l’interruzione degli stessi, ai sensi degli articoli 844 e 2043 del codice civile.
LE RAGIONI DEL SÌ
(intervista a: Walter Dabbicco, responsabile marketing e comunicazione di Gnammo.com)
Può darci la definizione di questa nuova moda chiamata “social eating”?
A me non piace definirla una moda ma è un nuovo modello di economia, socialità ed alimentazione che sta prendendo sempre più piede in Italia e nel mondo. L’incontrarsi attorno a una tavola non è nulla di nuovo, lo si fa dalla notte dei tempi, Gnammo lo ha semplicemente reso 2.0!
In cosa consiste l’attività di Gnammo.com?
Gnammo è il primo e più importante portale italiano per l’organizzazione di eventi di #socialEating.
Offre a tutti la possibilità di organizzare pranzi, cene ed eventi a casa propria o in qualsiasi location privata. Sarà così possibile mettere alla prova la propria bravura ai fornelli e conoscere nuovi amici attorno alla tavola di casa. Non serve essere cuochi provetti, basta tanta voglia di mettersi in gioco e di conoscere persone nuove, sia come Gnammer (l’ospite) che come Cook (il cuoco).
Com’è nata l’idea di aiutare a trasformare la propria casa in un ristorante?
Quando è nato Gnammo c’era una grande crescita dei servizi di sharing economy come AirBnb o bla-bla Car. Beh, ci è sempre sembrato strano che nella patria del cibo non si iniziasse a parlare di condivisione del food in ambito privato, e così è nato Grammo.
Quali sono le opinioni dei commensali che finora hanno usufruito di questa novità?
Dopo ogni evento sia cuochi che gnammers si scambiano dei feedback, sono poi questi ciò che danno origine alla reputazione di un utente su Gnammo. Fino ad ora delle quasi 5000 persone che hanno provato un evento su Gnammo nessuna ha lasciato feedback negativi; insomma si è sempre mangiato bene.
Che tipo di permessi bisogna richiedere per poter avviare il servizio?
Niente di particolare. L’evento che si realizza è un evento assolutamente privato, e soprattutto, letta dal punto di vista fiscale, è una prestazione di servizio tra privati che si inquadra come attività saltuaria d’impresa. Ciò prevede che il cuoco emetta una ricevuta fiscale allo gnammer, ma a questo pensa Gnammo in automatico.
Ci sono stati casi in cui sono sorti problemi di natura condominiale?
Ma no assolutamente.
L’home restaurant può definirsi come la nuova frontiera della ristorazione?
Più che della ristorazione, probabilmente è la nuova frontiera della socialità e dell’economia. Tornare ad incontrarsi a tavola, riscoprire il proprio vicino e incontrare nuovi amici, generando delle micro occasioni di reddito. Insomma, gli ingredienti di Grammo.
QUALI PERPLESSITÀ
(intervista a: Esmeralda Gianpaoli, presidente FIPET – Confcommercio)
Presidente Giampaoli, qual è la posizione della Fiepet, rispetto al “social eating”?
Non abbiamo nessuna preclusione ideologica, anzi: riteniamo che l’economia delle condivisione e l’utilizzo creativo delle possibilità messe a disposizione dalle nuove tecnologie siano cose meravigliose. Ma se il social eating perde la sua ispirazione originaria e diventa un settore di ristorazione parallela, con imprese irregolari travestite da cuochi amatoriali per evitare il fisco e gli obblighi di legge, la questione cambia completamente. Diventa concorrenza sleale.
Gli “home restaurant” hanno gli stessi obblighi di legge (ad esempio, norme igienico-sanitarie, sicurezza ecc…) degli esercizi tradizionali oppure ci sono delle differenze?
Assolutamente no. Pranzi e cene sociali sono considerati eventi privati; per questo gli home restaurant non sono obbligati a seguire le regole previste per i ristoratori, nemmeno quelle riguardanti l’igiene o la sicurezza dei cibi. E , mi creda, di norme ce ne sono moltissime, anche molto stringenti. Forse c’è anche una rigidità eccessiva, ma occorre ricordare che le regole ci sono per un motivo: la tutela della salute pubblica.
Qual è il motivo per il quale la ristorazione casalinga sta avendo questo successo secondo voi?
È una novità ed un fenomeno di moda, sostenuto dal dilagare del tema food su tutti i media. Tra gare di chef e programmi di cucina, la ristorazione è diventata un hobby estremamente popolare. Così, molti utenti usano il social eating per sentirsi chef professionisti, almeno per una sera.
Quali sono le preoccupazioni della categoria in merito a questa nuova tendenza? C’è il timore che l’amatorialità possa prevalere sulla professionalità dei ristoratori tradizionali?
Più che i cuochi amatoriali, temiamo chi usa le piattaforme di social eating per fare concorrenza sleale. È vero che negli ultimi anni la passione per il food ha portato molti ad improvvisarsi ristoratori, ma la passione non basta: nel settore 6 imprese su 10 chiudono entro i primi tre anni di attività. Diverso il discorso per gli imprenditori sleali, cui le accennavo prima, che si travestono da home restaurant e poi chiedono 30-40 euro per persona a pasto. Alla faccia della sharing economy!
Qual è l’auspicio della federazione che presiede, qualora questa moda diventare una realtà consolidata?
Quello che chiediamo già da ora è semplicemente una migliore regolamentazione, visto che c’è un buco nella normativa attuale. Stiamo lavorando ad un piano di proposte, che presenteremo al più presto nelle sedi opportune.