[A cura di: Mauro Simone, consigliere nazionale APPC]
La vigente normativa sul condominio, introdotta con L.220/2012, contempla all’art.1117 bis c.c. una schematica “nozione” di condominio, statuendo che le disposizioni del capo dedicato al condominio si applicano a tutti i casi in cui più unità immobiliari (condominio tradizionale) o più edifici (villette a schiera, residence, ecc.) ovvero più condomini di unità immobiliari o di edifici (condominio complesso) abbiano parti comuni ai sensi dell’articolo 1117.
Affinché possa ritenersi esistente un condominio, oltre alle parti di proprietà esclusiva – per le quali potrà esserci anche il solo diritto a godimento periodico (multiproprietà) – è, dunque, necessario che vi siano parti comuni, legate alle prime da rapporto di funzionalità necessaria e, pertanto, pertinenze o accessori delle stesse. Tra l’altro, la proprietà comune potrà essere esercitata non soltanto su cose ma anche su servizi e su attività.
Il condominio, tuttavia, non può essere considerato solo da un punto di vista “strutturale”, quale la somma di proprietà esclusive e comuni. Bisogna avere coscienza del fatto che il condominio è di per sé istituto complesso e non una sottospecie di comunione; è aggregazione sociale di individui, sì titolari di situazioni proprietarie, ma portatori, a un tempo, di esigenze personali intimamente legate alla vivenza in uno stabile “condiviso”. Quale comunità di conviventi, il condominio richiede il rispetto delle regole tipiche di ogni comunità che, mentre deve salvaguardare i “diritti individuali” di ogni suo membro, a un tempo, deve realizzare una gestione dei rapporti patrimoniali coerente alle finalità del rapporto, verosimilmente secondo criteri di corrispondenza fra capacità economiche e utilità essenziali alla migliore convivenza possibile.
La comunità dei condòmini ha, pertanto, l’imprescindibile necessità di una disciplina che, al fine di anticipare o almeno mitigare la naturale conflittualità, garantisca al condomino sia il pieno godimento del diritto di proprietà sui beni di proprietà esclusiva sia la tutela del suo diritto sulle parti comuni. Sottoporre a limitazioni l’esercizio dei poteri e delle facoltà che normalmente caratterizzano il contenuto del diritto di proprietà, ha il preciso scopo di tutelare le altre proprietà esclusive nonché le proprietà comuni. È così che, al concetto del diritto del singolo sulla sua quota e quindi del diritto spettante al singolo condomino, si affiancano le numerose disposizioni volte a regolare tale diritto affinché non possa essere di nocumento agli altri partecipanti al condominio.
L’ARTICOLO 1122 C.C.
A tal fine l’art.1122 c.c. dispone che: “Nell’unità immobiliare di sua proprietà ovvero nelle parti normalmente destinate all’uso comune, che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all’uso individuale, il condomino non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio. In ogni caso è data preventiva notizia all’amministratore che ne riferisce all’assemblea”.
Parte della dottrina ha commentato questo articolo considerandolo “privo di utilità”. In particolare, si è ritenuto che il precetto in esso contenuto sia già presente nell’ordinamento ed in primo luogo proprio nella Costituzione della Repubblica Italiana che, all’art. 42, stabilisce: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Lo stesso Codice Civile, inoltre, all’art.832 dispone: “Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”.
Che la proprietà esclusiva sia soggetta a limitazioni non è quindi una novità nell’ordinamento sì come non è una novità che tali limiti coincidano con l’altrui proprietà; è, questo, il principio del neminem laedere, presente da sempre nel nostro procedimento. Tali considerazioni si inseriscono in un più ampio quadro di critiche alla nuova disciplina sul condominio posto che il legislatore non sembra essere stato completo e chiaro nel disciplinare una materia che attendeva un intervento dal 1942. Va detto, tuttavia, che la norma in parola ha un contenuto più ampio rispetto al principio del neminem laedere.
I LIMITI
In primis va precisato che la porzione oggetto delle opere è l’unità immobiliare di proprietà del condomino ovvero una parte – normalmente comune per sua destinazione – il cui uso o la cui proprietà siano stati attribuiti al condomino stesso. Sintomatico il fatto che il legislatore abbia soppresso con la riforma la locuzione “piano o porzione di piano” come avvenuto anche per l’art. 1117 c.c. e ciò si spiega con l’introduzione del nuovo art. 1117 bis c.c. con il quale il condominio cessa in maniera definitiva di essere individuato solo come l’edificio diviso in piani estesi verticalmente, essendo ricompresi i complessi di edifici che si sviluppano orizzontalmente.
Per la nuova norma è consentito al condomino eseguire opere non solo sulla sua unità immobiliare ma anche sulla parte comune quando a lui ne è stata assegnata la proprietà o l’uso. In quest’ultimo caso la disposizione si configura come eccezione all’art. 1102 c.c. intitolato “Uso della cosa comune”, a norma del quale “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danni degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”.
Nell’ambito di opere effettuate sulle porzioni comuni di uso individuale il limite non è rappresentato da quelli di cui all’art. 1102 c.c., che non viene richiamato, ma è costituito dal dovere di non provocare danni alle parti comuni o danni alla proprietà esclusiva che possano riflettersi in qualche modo sulle parti comuni. I danni cagionati, nell’esecuzione di opere nella propria unità immobiliare o sulle parti comuni di cui sia abbia la proprietà o l’uso, ad altre proprietà esclusive sono invece disciplinati dalle norme previste a livello generale per la tutela della proprietà (es. art. 844 c.c. per le immissioni rumorose, art. 979 c.c. per le azioni a difesa della proprietà, ecc.) nonché dall’art. 2043 c.c., a norma del quale “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Un secondo limite introdotto ex novo dalla norma consiste nel fatto che le opere effettuate non determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico all’edificio. È lo stesso limite previsto dall’art. 1120 c.c. ultimo comma per le innovazioni deliberate dalla assemblea e che, tra l’altro, era già stato applicato dalla giurisprudenza prima della riforma anche in riferimento alle opere di cui all’art. 1122.
Secondo Cassazione civile, sez. II, 11/02/2005, n. 2743, in tema di condominio, dovevano infatti considerarsi vietate, ai sensi dell’art. 1112 c.c., le opere realizzate dal condomino nella proprietà esclusiva che avessero comportato una lesione del decoro architettonico dell’edificio, non trovando al riguardo applicazione la norma dettata dall’art. 1120 c.c. in tema d’innovazione delle parti comuni. (Nella specie, sono state ritenute illegittime le tettoie, che – pur essendo state realizzate nella proprietà esclusiva del condomino – comportavano un danno estetico alla facciata dell’edificio condominiale).
Dunque il limite nuovo introdotto dall’art. 1122 pare aver trasfuso nella norma quanto già elaborato dalla giurisprudenza di legittimità.
Non v’è, tuttavia, nella norma il divieto di fare opere che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino, limite pure previsto nell’art. 1120 c.c., sia nella precedente che nella attuale formulazione. Il legislatore ha escluso tale limite anche in altre disposizioni della riforma che hanno un legame stretto con l’art. 1120 c.c. ed in particolare nell’art. 1117 ter laddove si dispone che sono consentite a maggioranza particolarmente qualificata le modifiche alle destinazioni d’uso delle parti comuni purché non rechino pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico e nell’art. 1122 bis ove si prevede che possano installarsi impianti non centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, purché sia preservato il decoro architettonico, la stabilità e la sicurezza dell’edificio.
L’USO ALTRUI
In nessuna di queste disposizioni è contenuto il divieto che le opere rendano talune parti comuni inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.
Il motivo non può che essere uno. Il limite non viene richiamato perché il legislatore ha rielaborato la materia delle opere nelle parti comuni e nelle parti di proprietà esclusiva stabilendo per alcune fattispecie speciali una deroga normativa a quanto contenuto nell’art. 1120 ultimo comma c.c. In particolare, per le opere su parti di proprietà individuale o comuni di uso individuale vige il limite di non procurare danni alle parti comuni e di non arrecare pregiudizio alla stabilità, sicurezza e decoro architettonico dell’edificio, ma non quello di non rendere inservibile la cosa all’uso anche di un solo condomino.
In riferimento alle parti di proprietà individuale l’omissione è logica e pacifica spiegandosi con il fatto che il proprietario ha diritto di utilizzare la propria porzione individuale nel modo più conveniente giacché gli altri partecipanti non hanno alcun diritto su tale porzione, salvo che l’uso si rifletta sul decoro architettonico, la stabilità e la sicurezza dell’edificio. In riferimento alle porzioni comuni di uso individuale la novità è invece davvero significativa.
Infatti per il sistema previgente il condomino avente l’uso esclusivo di una porzione comune non poteva eseguirvi opere che ai sensi dell’art. 1102 c.c. impedissero il pari uso degli altri condòmini o, in caso di innovazione, la rendessero inservibile all’uso degli altri condòmini, poiché l’ordinamento non prevedeva un diverso trattamento rispetto al condomino non avente l’uso esclusivo.
La materia delle opere sulle porzioni comuni fatte dal condomino non avente l’uso esclusivo e non costituenti innovazioni era ed è regolata solo dall’art. 1102. La fattispecie relativa alle opere eseguite dal condomino sulla porzione comune di cui ha l’uso esclusivo o la proprietà è regolata invece dall’art.1122 con i diversi limiti stabiliti dalla disposizione speciale.
NOTIZIA ALL’AMMINISTRATORE
Altra rilevante novità dell’art.1122 è quella prevista al comma 2 laddove dispone che il condomino debba dare preventiva notizia all’amministratore delle opere che intenda fare; il quale amministratore ne deve riferire all’assemblea. Per il sistema previgente il condomino non aveva alcun obbligo di comunicare preventivamente all’amministratore la tipologia di opere che intendesse eseguire nella sua proprietà esclusiva. La locuzione “in ogni caso” sta a significare che qualunque opera anche quella non travalicante i limiti di cui all’art. 1122 c.c. debba essere comunicata all’amministratore.
A fronte del dovere del condomino di dare preventiva notizia all’amministratore, non è prevista alcuna autorizzazione o approvazione da parte dell’organo assembleare, trattandosi, d’altra parte, di opere eseguite su parti esclusive (per proprietà o per diritto d’uso): è sancito, quindi, solo un diritto/dovere di informazione, che, peraltro, non è assistito neppure dalla precisazione, a carico dell’amministratore, di rendere la comunicazione “senza indugio”.
Non è chiaro, pertanto, se dalla norma in esame derivi un preciso obbligo per l’amministratore di convocare l’assemblea – straordinaria – al solo fine di effettuare tale comunicazione o se la locuzione “ne riferisce all’assemblea” di cui all’ultimo comma dell’art. 1122 c.c. consenta di rinviare la comunicazione stessa alla prima assemblea utile. In tal caso, applicando la norma per quanto la stessa stabilisce, in occasione delle assemblee periodiche, il più delle volte a distanza di tempo e a lavori già avviati o addirittura ultimati, l’amministratore comunicherà all’assemblea se e quali condòmini hanno effettuato all’interno delle proprie unità immobiliari determinate opere, dando indicazioni circa la loro natura. Con quale concreta utilità è da verificare.
La comunicazione può essere conveniente per ridurre al minimo i disagi per gli altri condòmini nonché per facilitare il lavoro delle imprese che debbono effettuare gli interventi ma, l’inosservanza dell’obbligo della preventiva comunicazione, non dovrebbe comportare il diritto degli altri condòmini a chiedere la riduzione in pristino; ciò, perché la norma non richiede anche la preventiva autorizzazione o approvazione dell’assemblea.
Trattasi pertanto di disposizione volta ad instaurare un iter procedurale che possa permettere all’assemblea di valutare la situazione e di adottare gli opportuni provvedimenti e, dunque, di reagire qualora siano violati i limiti di cui all’art. 1122. All’uopo può tornare utile irrogare una sanzione sino a duecento euro, sempre che in precedenza sia stata approvata dall’assemblea a maggioranza una norma di regolamento che vieti ai condomini di effettuare opere nella propria unità immobiliare senza la comunicazione e la descrizione delle stesse all’amministratore di condominio. In aggiunta, nel caso in cui l’opera sia legittima, la violazione dell’iter procedurale potrebbe al più portare ad un eventuale risarcimento dei danni qualora ne sussistano i presupposti e non certo ad una riduzione in pristino.
LA RIDUZIONE IN PRISTINO
Tra l’altro, già sotto il previgente sistema normativo, un consolidato orientamento giurisprudenziale (Cassazione civile, sez.II, 05/11/2010, n.22596) riteneva che il condomino che avesse eseguito opere di ristrutturazione della propria unità immobiliare, non vietate e comunque legittime, senza la preventiva autorizzazione dell’amministratore così come specificato dal regolamento condominiale, violava una norma di natura procedimentale, con la conseguenza di consentire al condominio o al singolo condomino di chiedere solamente il risarcimento del danno subito per la violazione del regolamento e non anche la remissione in pristino dello stato dei luoghi.
Verosimilmente potrebbe ritenersi applicabile tale principio anche con la nuova normativa.
Se, invece, si fosse in presenza di opere illegittime da parte del singolo condomino su cose di sua proprietà esclusiva, l’eventuale provvedimento di condono di cui all’articolo 31 della legge n.47 del 1985, essendo diretto alla sola regolamentazione dei rapporti tra l’autore dell’illecito e l’amministrazione pubblica, non potrà comprimere i diritti soggettivi dei privati, nella specie, i condomini, ai quali sarà, pertanto, consentito chiedere la riduzione in pristino (Cassazione, sentenza del 6 agosto 1999, n.8486).
La riduzione in pristino, nel caso di opere illegittime, scaturirebbe dalla loro potenzialità a recare pregiudizio alla stabilità e sicurezza del fabbricato o ad alterare il decoro architettonico. Si pensi al condomino che decida di soppalcare il proprio appartamento e che, per fare ciò, si appoggi ai muri perimetrali (che sono di proprietà comune) creando sovraccarico e quindi pericolo per la stabilità degli stessi. Con riferimento invece alla lesione del decoro architettonico, altro caso ricorrente è quello dei condizionatori per la parte d’impianto da collocare all’esterno (sul balcone o direttamente sulla facciata dello stabile).
È parere comune che è lecita l’installazione del condizionatore purché l’appoggio della così detta unità esterna sia fatta in modo tale da non ledere il decoro architettonico dello stabile.
Altro caso esemplare è quello su cui si è espressa la Suprema Corte, confermando la sentenza del giudice di merito che aveva statuito il divieto del mutamento di destinazione di porzione di proprietà esclusiva di un condomino da autorimessa ad abitazione; detta modifica, dalla Corte, è stata ritenuta un peggioramento dell’estetica del fabbricato e, dunque, un pregiudizio economicamente apprezzabile per il decoro abitativo generale dell’edificio, posto in zona residenziale.
In questi casi il condominio potrà chiedere bonariamente e poi, eventualmente, per via giudiziale, la remissione in pristino dei luoghi. Spetta a chi agisce in giudizio indicare il pregiudizio o quanto meno lasciar intendere quale sia il danno che l’opera potrebbe causare. Va da sé che, allorché si voglia contestare la legittimità degli interventi ai sensi dell’art.1122 c.c., prima di agire in giudizio e per evitare inutili contenziosi dagli esiti negativi, si abbiano fondati motivi per ritenere di avere ragione in corso di causa. Non basterà, invero, denunciare l’apertura su un muro portante se, detta apertura, magari per le sue dimensioni, possa essere ritenuta non rilevante ai fini della stabilità e sicurezza dell’edificio o del suo decoro architettonico.
È interessante osservare, da ultimo, come nella versione della riforma originariamente approvata dal Senato, l’art.1122 contemplava un terzo comma volto a prevedere la possibilità da parte dell’amministratore di rivolgersi, previa diffida, all’autorità giudiziaria, qualora mancassero dettagliate informazioni sul contenuto specifico e sulle modalità di esecuzione delle opere da intraprendersi. Rispetto al testo licenziato dal Senato, la Camera ha però espunto detta previsione, ritenuta eccessiva per il gravoso onere posto a carico dell’amministratore e per il grado di invasività nella sfera individuale dei singoli condòmini.