Un sottotetto condominiale è trasformato a tutti gli effetti in alloggio, e locato in quanto tale. L’operato del proprietario risulta però illegale, in quanto modifica la destinazione d’uso dei locali. Di seguito un estratto della sentenza di cassazione.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. feriale pen.,
sent. n. 36563/2016
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RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 5/2/2016, la Corte di appello di Bologna confermava la pronuncia emessa il 3/10/2014 dal Tribunale di Ravenna, con la quale A.B. era stato riconosciuto colpevole della contravvenzione di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, e condannato alla pena di 10 giorni di arresto e 5.600 euro di ammenda; allo stesso era contestato di aver effettuato – in assenza di permesso di costruire – la modifica della destinazione d’uso di un locale qualificato come spazio di servizio, trasformandolo in appartamento.
2. Propone ricorso per cassazione il A.B., a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
– violazione degli artt. 192, 530, 533, 535 cod. proc. pen.; vizio motivazionale (motivi nn. 1-2). La Corte di merito – al pari del primo Giudice – avrebbe ritenuto compiuta la modifica della destinazione d’uso, pur difettandone ogni prova o mero indizio; in particolare, non vi sarebbe alcuna certezza circa l’utilizzo «certo, effettivo e concreto» dell’immobile, così come modificato, né della consapevolezza – in capo al ricorrente – dell’avvenuta esecuzione delle opere da parte dell’inquilina. Con riguardo, poi, alla dedotta irrisorietà del canone locatizio se riferito ad un sottotetto, non anche ad un appartamento, la sentenza avrebbe speso considerazioni apodittiche e prive di giustificazione, pervenendo quindi a confermare una condanna ingiusta e contraria all’interpretazione corrente dell’art. 192 cod. proc. pen..
(omissis)
CONSIDERATO IN DIRITTO
Preliminarmente si osserva che la presente motivazione è redatta in forma semplificata, ai sensi del decreto n. 68 del 28/4/2016 del Primo Presidente di questa Corte.
3. Il ricorso risulta manifestamente infondato.
Con riguardo alle prime due doglianze, da valutare congiuntamente attesane la sostanziale identità di ratio, occorre rilevare che l’art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, stabilisce (al comma 1) che “Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; e) commerciale; d) rurale”; al comma 2, poi, si precisa che la destinazione d’uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile. Come poi affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte, l’accertamento del mutamento di destinazione d’uso per difformità totale rispetto al titolo abilitativo deve essere effettuato, nel caso di lavori in corso d’opera, sulla base dell’individuazione di elementi univocamente significativi, propri del diverso uso cui l’opera è destinata e non coerenti con l’originaria destinazione della medesima (Sez. 3, n. 9282 del 26/1/2011); del pari, e con particolare rilievo nel caso in esame, si è costantemente sostenuto che la modifica di destinazione d’uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere interne (tra le altre, Sez. 3, n. 27713 del 20/5/2010), così come con la predisposizione di impianti tecnologici sottotraccia all’interno di un vano autorizzato come “vuoto tecnico”, in quanto tale tipologia di intervento costituisce circostanza idonea per ritenere la destinazione abitativa dell’immobile (Sez. 3, n. 42453 del 7/5/2015; Sez. 3, n. 17359 dell’8/3/2007).
4. Esattamente come nel caso di specie; ed invero, la sentenza di appello – facendo buon governo dei principi che precedono – ha riconosciuto la fattispecie contestata proprio nell’immobile di proprietà del A.B., che – sottotetto in un condominio – era risultato suddiviso in più ambienti (compreso il bagno), giusta una parete in cartongesso, arredato, munito di radiatori, di prese per corrente, televisive e punti luce, nonché di porta blindata e videocitofono.
Elementi oggettivi – non contestati neppure con il presente ricorso – in forza dei quali la sentenza ha riconosciuto l’avvenuto mutamento della destinazione d’uso e, pertanto, la violazione dell’art. 44, lett. b) contestato; e senza che, pertanto, possa accedersi alla generica doglianza secondo cui non vi sarebbe prova di un «utilizzo certo, effettivo e concreto dell’immobile», risultando invece questo – giusta la stessa pronuncia in esame – dagli esiti del sopralluogo della Polizia municipale a data 15/9/2011 (ai quali, peraltro, il ricorso non dedica alcuna considerazione).
5. Ancora, la Corte di appello – nuovamente con argomento congruo e privo di qualsivoglia illogicità, quindi non censurabile – ha ricavato l’elemento soggettivo del reato dall’interesse che il ricorrente aveva ad intervenire sull’immobile nei termini suddetti, sì da aumentarne il valore commerciale; come confermato, peraltro, dalla ulteriore considerazione per cui il canone locatizio (250 euro per 40 mq., come specificato nel gravame) sarebbe risultato eccessivo se riferito – come il contratto vorrebbe – ad un mero locale di servizio, non anche con riguardo ad un piccolo, ma completo appartamento.
Una motivazione del tutto adeguata, frutto di ragionato esame delle risultanze istruttorie e priva di contraddizioni, dunque, alla quale non possono certo essere opposte le generiche doglianze di cui al ricorso; con le quali, infatti, si contesta apoditticamente l’iter argomentativo espresso dalla Corte, senza però procedere ad un’effettiva censura dello stesso, come sviluppato nei termini che precedono.
(omissis)
8. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle ammende.