[A cura di: Fna – Confappi]
“Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa”. Sulla base di questo principio, contenuto nell’articolo 1102 del Codice Civile e che disciplina la cosa comune, la Corte di Cassazione ha intimato – con la sentenza n. 21538 del 25 ottobre 2016 – al proprietario di un appartamento sito all’ultimo piano di un palazzo di sostituire, a proprie spese, con una finestra, la porta che gli consentiva di accedere direttamente al terrazzo comune. Il pronunciamento conferma quanto già stabilito dalla Corte di Appello di Roma con la sentenza n. 1739/2011, secondo cui il proprietario dell’alloggio è tenuto a ripristinare, facendosi carico del costo, la situazione originaria del terrazzo, ossia procedere alla chiusura dell’apertura di collegamento fra l’appartamento e il lastrico solare condiviso.
La Cassazione precisa come la succitata porta consentiva – in concreto – un uso che non era un mero uso intensivo consentito. Di conseguenza, chi ha realizzato l’intervento è tenuto a ripristinare la situazione precedente. A proposito dell’uso intensivo della cosa comune, la Suprema Corte aveva già osservato come “ per stabilire se l’uso più intenso da parte di un condomino venga ad alterare il rapporto di equilibrio fra partecipanti al condominio – e perciò da ritenersi non consentito a norma dell’art. 1102 – non deve aversi riguardo all’uso fatto in concreto di detta cosa da altri condòmini in un determinato momento, ma di quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno”. (Cass. 23 marzo 1995, n. 3368). E ancora, l’intervento sarebbe da ritenersi illegittimo “(…) solo ove si accerti che l’incremento dell’uso del singolo partecipante pregiudichi la possibilità degli altri di continuare nell’esercizio del loro uso, e di ampliare eventualmente il medesimo in modo e misura analoghe”. (Cass. 11 luglio 1975, n. 2746).