RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
1. V.D., quale parte civile, ricorre per l’annullamento della sentenza indicata in epigrafe che ha confermato l’assoluzione di S.L. e R.O. dal reato di cui all’art. 392 cod. pen. (costoro si sarebbero fatti arbitrariamente ragione da soli, impedendo alla loro inquilina di rientrare nell’appartamento locato).
I giudici di merito avevano ritenuto da un lato il R.O. estraneo ai fatti, dall’altro la S.L. giustificata per la legittima difesa.
Era stato accertato che la V.D., che aveva preso in affitto parte dell’appartamento in cui continuava a vivere anche la S.L., si era barricata in casa, come già accaduto altre volte in precedenza, nella convinzione di poter escludere la presenza della locatrice, impedendole così di accedervi (che per tale motivo aveva patito una crisi epilettica): a questa situazione, pregiudizievole anche per la salute dell’imputata, quest’ultima aveva reagito a distanza di poche ore, chiudendo dall’interno la porta dell’abitazione, una volta uscita di casa l’inquilina.
Nell’atto di impugnazione, sono enunciati i motivi di seguito indicati nei limiti dell’art. 173, disp. att. cod. proc. pen.: violazione dell’art. 52 cod. pen. e vizio di motivazione, in ordine alla valutazione delle risultanze processuali che avevano dimostrato la partecipazione attiva del R.O. ai fatti e l’arbitrarietà della condotta contestata, posto che a seguito di dissapori, era stato intimato alla V.D. di lasciare l’immobile entro un termine non rispettato; difetterebbero i presupposti del reato di cui all’art. 392 cod. pen., che presuppone l’azionabilità in giudizio della pretesa dell’agente, nella specie non sussistente, e quindi non potrebbero essere ravvisati neppure i presupposti dell’art. 52 cod. pen.; in ogni caso, mancherebbe l’immediata reazione alla condotta illecita altrui, essendosi svolta diverse ore prima la supposta azione illecita della ricorrente.
2. Il ricorso è inammissibile.
2.1. Va ribadito che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si differenzia da quello di violenza privata – che ugualmente contiene l’elemento della violenza o della minaccia alla persona – non nella materialità del fatto che può essere identica in entrambe le fattispecie, bensì nell’elemento intenzionale, in quanto nel reato di cui all’art. 392 cod. pen. l’agente deve essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli competa giuridicamente, pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, ovvero di diritto realmente esistente (omissis).
Va anche rammentato che, ai fini della configurabilità della legittima difesa, uno dei requisiti indispensabili è l’attualità del pericolo da cui deriva la necessità della difesa, consistente cioè in una concreta minaccia già in corso di attuazione nel momento della reazione ovvero in una minaccia od offesa imminenti (omissis).
Orbene, la sentenza impugnata ha fatto buon governo dei principi ora affermati e le censure della ricorrente, oltre ad essere manifestamente infondate, finiscono per sottoporre alla Corte di legittimità questioni di precluso merito.
La sentenza impugnata ha infatti accertato che la condotta contestata fu commessa dall’imputata S.L. al fine di conseguire l’auto-reintegrazione nel possesso dell’appartamento, a seguito di uno spoglio arbitrario ad opera della V.D. (omissis); così come ha accertato che tale reazione fu attuata quando ancora era in corso lo spoglio subito dall’imputata (che approfittò della momentanea assenza della V. per riacquistare il possesso dell’appartamento).
Quanto alla posizione del R.O., la ricorrente introduce inammissibili censure in fatto, volte a dimostrare una diversa ricostruzione della vicenda, non emergente dalla motivazione della sentenza impugnata, che ha escluso una partecipazione dell’imputato ai fatti in contestazione.
3. Alla declaratoria di inammissibilità segue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma a titolo di sanzione pecuniaria, che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo quantificare nella misura di Euro 1.500.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500 in favore della cassa delle ammende.