[A cura di: Prof. avv. Rodolfo Cusano e avv. Luisa Del Giudice] Il caso che vogliamo esaminare è quello in cui in un’unica assemblea si approvi il rendiconto generale del supercondominio/condominio composto da più fabbricati nel quale rendiconto affluiscono anche le spese relative a beni afferenti ai singoli fabbricati (nel caso in esame cinque) che lo compongono.
La delibera assunta dall’assemblea del supercondominio in materia di beni afferenti il singolo fabbricato è completamente nulla. Infatti, è ineludibile l’affermazione che “essendosi in presenza di più fabbricati, ogni singola assemblea è competente a deliberare in ordine alle entrate ed alle uscite riferite ai beni comuni del singolo fabbricato”.
Quando invece accade che l’unica assemblea del supercondominio, composta da tutti i condomini di tutti i fabbricati, ha approvato un unico rendiconto in cui erano affluite le entrate e le uscite di tutti e quattro i fabbricati, essa è da considerarsi completamente nulla perché l’assemblea era incompetente a decidere. Tale vizio può essere definito quale “carenza di potere. Nel senso che l’assemblea si è arrogata un potere che invece non aveva.
Non vi è chi non veda che non solo nel caso de quo si è verificata un’erronea convocazione di un’unica assemblea invece che cinque (una per ogni singolo fabbricato ed una quella generale per le spese in comune a tutti) ma anche un’illegittima costituzione e conseguente deliberazione. Insomma, si è verificato un vizio di eccesso/carenza di potere che in quanto tale rende completamente nulla l’intera delibera assembleare impugnata.
Quanto accaduto ricorda ed è simile a quanto accade in un fabbricato quando occorre deliberare per un bene (si immagini il tetto, la fecale, in presenza di più tetti e più fecali). Quindi il ricorso all’analogia potrebbe essere utile, proviamo a farlo.
Si ha «condominio parziario» quando i beni comuni sono destinati all’utilizzazione di solo una parte dei condòmini. In questo caso, è necessario stabilire se i beni siano comuni anche ai condòmini che, di fatto, non li utilizzano oppure siano comuni soltanto ai condòmini che li utilizzano. Da qui la definizione di «condominio parziale»; la parzialità risiede, in altri termini, nel fatto che solo ad una parte dei condòmini spetterebbe la comproprietà di tali beni.
Il tema è stato molte volte analizzato più con riguardo a specifici casi che in relazione a principi generali come conferma il seguente rilievo giurisprudenziale (Cass. n. 7885/1994.) secondo cui «Il condominio parziale raffigura una categoria radicata nell’esperienza e riconosciuta dalla giurisprudenza la quale, piuttosto che della definizione del principio, si occupa della definizione dei casi di specie» (Cass. n. 9644/1987 e 9084/1991).
Tale fattispecie di condominio parziale viene ammessa sulla base della constatazione che: «Indipendentemente dal titolo, nell’ambito della più vasta contitolarità si ammette la costituzione per legge dei cosiddetti condomini parziali sul fondamento del collegamento strumentale tra i beni: vale a dire, sulla base della necessità per l’esistenza o per l’uso, ovvero della destinazione all’uso o al servizio di determinate cose, servizi ed impianti limitatamente a vantaggio di talune unità immobiliari», ed esplicitamente: «Per la verità, l’asserto che la proprietà comune appartenga necessariamente a tutti i partecipanti e non si frazioni, neppure in casi eccezionali, se non in virtù del titolo, non è più condiviso e, in effetti, non regge alla critica, fondata sulla ricognizione non aprioristica dei dati positivi» Cass. n. 7885/1994).
Infatti, diversi sono i casi di proprietà parziaria che possiamo ritrovare in condominio, laddove nel fabbricato vi sono più scale, più tetti, ecc. ogni scala servirà solo una parte degli immobili in fabbricato. Per tale motivo, della scala saranno comproprietari solo i proprietari di quegli immobili cui la scala serve.
Così, per il caso esaminato, delle fondamenta, della facciata, delle scale sono comproprietari solo i condòmini di quel singolo fabbricato.
In primo luogo si deve constatare che la legge si riferisce esplicitamente a beni comuni a tutti i condòmini «se il contrario non risulta dal titolo» ex articolo 1117 c.c. Ciò vuol dire che esiste una sola eccezione per la quale i beni non sono comuni a tutti i condòmini: la volontà contraria contenuta nel titolo di acquisto.
Questa osservazione potrebbe sembrare sterile se il suo carattere formalistico non fosse convalidato da un ulteriore rilievo pratico e sostanziale: il motivo per cui i beni sono comuni anche a quei condòmini che non li utilizzano risiede nel fatto che quei beni partecipano di un edificio unico che è, appunto, il condominio.
Il destino comune dei beni viene supportato dall’unità dell’edificio cui partecipano tutti i proprietari in virtù della loro ulteriore qualifica di condòmini. In questa prospettiva il criterio di utilizzabilità non viene affatto preso in considerazione dalla legge per determinare la contitolarità dei beni di cui all’articolo 1117 c.c., per cui, se ci fermassimo nella nostra analisi, tali beni sarebbero comuni a tutti a prescindere dal loro utilizzo ed anche nel caso vi fosse un utilizzo solo da parte di alcuni.
In realtà è vero che il citato articolo 1117 c.c. non consente esplicitamente che la proprietà dei beni sia comune solo ad alcuni condòmini però, a ben guardare, nemmeno lo vieta espressamente; tale possibilità è ammessa sulla base di una convenzione ma non si può escludere che il criterio dell’utilizzabilità (e quello correlato dell’utilità) non sia richiamato dall’articolo 1117 c.c. (in quanto sottinteso da quella normativa).
Il legislatore, allora, non ha esplicitamente dichiarato che il condominio riguarda solo coloro ai quali i beni servono perché tale stato di fatto rappresenta una condizione necessariamente preesistente all’operatività della norma, cioè essa è presupposta sulla base della logica determinazione dei fatti e dei conseguenti effetti che si verificano in questi casi.
Questo sembra essere il ragionamento che sta alla base dell’opinione per cui: «I presupposti per l’attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l’esistenza o per l’uso, ovvero sono destinati all’uso o al servizio, non di tutto l’edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso. Pertanto, del diritto soggettivo di condominio formano oggetto soltanto i servizi e gli impianti effettivamente legati alle unità abitative dal collegamento strumentale; vale a dire le sole parti di uso comune che siano necessarie per l’esistenza, ovvero siano destinate all’uso o al servizio di determinati piani o porzioni di piano».
La Cassazione n. 7885/1994 determina anche il motivo specifico di tale conclusione: «La disposizione da cui risulta con certezza che le cose, i servizi e gli impianti di uso comune dell’edificio non appartengono necessariamente a tutti i partecipanti, si rinviene nell’art. 1123, comma terzo, c.c. Secondo questa norma, l’obbligazione di concorrere nelle spese per la conservazione grava soltanto sui condòmini, ai quali appartiene la proprietà comune».
In realtà se si legge il comma in questione (l’articolo 1123 III comma c.c. testualmente recita: «Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condòmini che ne trae utilità») non si evince affatto quanto affermato dalla Cassazione, poiché viene disciplinato il criterio di spesa in base al criterio di utilità, per cui ad un primo esame sembrerebbe che questa norma non disciplini affatto la parzialità della titolarità. Infatti, ben potrebbe intendersi nel senso che le spese sono sopportate dai condòmini che ne traggono utilità ma la proprietà resta comunque in capo a tutti i condòmini, anche a quelli che non usano i beni in oggetto, così come stabilito dal principio generale di sui all’articolo 1117 c.c.
È la stessa Cassazione che risponde al quesito sottolineando come il terzo comma dell’art. 1123 «non recepisce il criterio, che si assume valido in generale per la ripartizione delle spese per le parti comuni, secondo cui i contributi si suddividono tra i condòmini in ragione dell’utilità. Se così fosse, il precetto sarebbe del tutto superfluo, perché ripeterebbe quello dettato dal capoverso precedente» tanto è vero che: «Posto che l’art. 1123 comma terzo ripartisce il concorso nelle spese per le parti comuni, destinate a servire le unità immobiliari in misura diversa, in proporzione all’uso che ciascuno può farne, dal contributo implicitamente esonera coloro i quali, per ragioni obbiettive afferenti alla struttura o alla destinazione, non utilizzano le parti, che non sono necessarie per l’esistenza o per l’uso, ovvero non sono destinate all’uso o al servizio dei loro piani o porzioni di piano. Se i proprietari delle unità immobiliari, non collegate con determinate parti comuni, fossero esonerati dal concorso nelle spese in virtù del criterio dell’utilità statuito dall’art. 1123 comma secondo c.c., il disposto dell’art. 1123 comma terzo sarebbe del tutto identico a quello fissato nel comma precedente e configurerebbe un duplicato inutile».
È questa un’interpretazione che collega funzionalmente le diverse parti di una norma in maniera esemplare per arrivare ad identificare una eadem ratio che sottende l’intero dettato normativo ed il ragionamento viene spiegato in questo modo: «In realtà, l’art. 1123 c.c. nei distinti capoversi contempla ipotesi differenti. Mentre al comma due regola solo ed esclusivamente la ripartizione delle spese per l’uso, al comma tre disciplina la suddivisione delle spese per la conservazione. La ragione della previsione espressa è che le cose, i servizi e gli impianti, essendo collegati materialmente e per la destinazione soltanto con alcune unità immobiliari, appartengono in comune solamente ai proprietari di queste. La disposizione, cioè, contempla l’ipotesi di condominio parziale».
Come si vede la Cassazione fa discendere esplicitamente dall’articolo 1123 c.c. 3° comma, la previsione legislativa del condominio parziale il quale deve essere ammesso, non solo in base ai ragionamenti effettuati dalla Suprema Corte, ma anche in base al dato incontestabile che dalla legge non risulta alcun esplicito divieto di costituzione del condominio parziale e che il condominio parziale risulta essere una fattispecie che realizza interessi meritevoli di tutela alla stregua dei principi del nostro ordinamento giuridico.
Quanto detto conferma la possibilità di un condominio parziale che esiste solo per alcuni beni e soltanto tra i condòmini che tali beni utilizzano; tale condominio parziale non elimina affatto il condominio complessivo il quale continua a sussistere, tranne che per la gestione di quei determinati beni la cui titolarità resta a favore solo di alcuni condòmini i quali conseguentemente saranno gli unici titolari delle decisioni ed obbligati a sopportarne le spese.
Non solo, ma l’istituto del condominio parziario si riflette nella validità delle convocazioni assembleari che devono avere come destinatari i soli condòmini interessati, nella costituzione della stessa assemblea che deve riportare i millesimi di comproprietà dei singoli condòmini e conseguentemente per lo stesso motivo anche alla fase della deliberazione. Ma se tutti questi potrebbero sembrare vizi di mera annullabilità, ciò che è più importante di tutto è che l’erronea determinazione dei soggetti che debbono partecipare alla decisione comporta il vizio di incompetenza dell’assemblea stessa con conseguente nullità assoluta e non mera annullabilità della stessa decisione. Nullità che come tale può essere rilevata dal condomino in ogni tempo. Si immagini per esempio che al posto di convocare i condòmini interessati ai lavori straordinari di una scala o di una fecale si convocassero i condòmini di altra scala o di altra verticale della fecale. In questo caso l’esistenza del condominio parziale trova una delle sue più importanti affermazioni in sede di determinazione dei condòmini obbligati alla partecipazione alle spese ed alle relative deliberazioni. Infatti, il condomino che in sede di riparto delle spese fatte dall’amministratore ritenga che esse non lo riguardino in quanto egli non è proprietario del bene per cui si è proceduto alla manutenzione, potrà chiedere al giudice, con una azione di accertamento ex art. 1123 c.c., che venga dichiarata la mancanza dell’obbligo al pagamento delle stesse e ciò anche in sede di opposizione a D.I.
Orbene tutto l’excursus logico-giuridico posto dalla giurisprudenza a fondamento dell’istituto del condominio parziale porta a concludere che, nel caso vi siano più fabbricati sia pure formanti un unico condominio rimane ferma l’attribuzione dei beni in comune solo a quei proprietari che di fatto li utilizzano. Per tale motivo, qualora l’unico condominio si compone di più fabbricati ogni singola assemblea degli stessi rimane competente a decidere in ordine ai beni comuni solo al singolo fabbricato, mentre l’assemblea di tutti i condòmini che avesse ad approvare le spese di questi ultimi sarebbe incompetente a decidere con conseguente vizio di nullità della stessa delibera.
Si immagini, ad ammettere il contrario cosa può concretamente accadere: che le spese relative al singolo fabbricato, pur non essendo presente nessuno dei condòmini dello stesso, venga approvato dagli altri perché comunque raggiungono la maggioranza prevista per legge.
A questo punto possiamo definire il vizio in esame quale carenza di potere dell’assemblea in relazione all’oggetto e riferirlo alla originaria previsione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali, in una nota pronuncia (Cass. SS.UU. n. 4806/2005), hanno tracciato i confini tra le due forme di invalidità, annullabilità da una parte, e nullità dall’altra. La Suprema Corte, anche riportandosi alla categoria della nullità dettata in materia contrattuale (art. 1421 c.c.), e prendendo in considerazione molteplici ipotesi concrete, ha specificato i criteri identificativi dei vizi di nullità o annullabilità inficianti i deliberati condominiali.
Infatti, in tema di condominio negli edifici, debbono qualificarsi nulle le delibere dell’assemblea condominiale:
(a) prive degli elementi essenziali;
(b) aventi oggetto impossibile o illecito (contrario all’ordine pubblico, alla morale o al buon costume);
(c) con oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea o incidenti sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condòmini;
(d) comunque invalide in relazione all’oggetto.
Vanno invece, qualificate annullabili le delibere:
(a) con vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea;
(b) adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale;
(c) affette da vizi formali;
(d) in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell’assemblea;
(e) genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione;
(f) che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all’oggetto, Cass. del 4 novembre 2016, n. 22452. Siamo in presenza, infatti, di delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea, Tribunale Genova Sezione 4 Civile Sentenza del 1° luglio 2011, n. 2697.
La domanda che vogliamo porci in questa disamina è se possiamo far rientrare questi casi di incompetenza in relazione all’oggetto nella più generale categoria dell’eccesso di potere. Così non è. Ma andiamo con ordine.
In generale, la figura dell’eccesso di potere nel diritto privato ha la funzione di superare i limiti di un controllo di mera legittimità sulle espressioni di volontà riferibili ad enti collettivi (società o condomini), che potrebbero lasciare prive di tutela situazioni di non consentito predominio della maggioranza nei confronti del singolo; essa presuppone, tuttavia, la sussistenza di un interesse dell’ente collettivo, che sarebbe leso insieme all’interesse del singolo, Cass. Ord. Del 21 febbraio 2014, n. 4216.
Infatti, il sindacato dell’autorità giurisdizionale sulle decisioni condominiali non può estendersi al controllo del potere discrezionale che l’assemblea esercita quale organo sovrano della volontà dei condòmini, ma deve limitarsi al riscontro della legittimità che, oltre ad avere riguardo alle norme di legge o del regolamento condominiale, deve comprendere anche l’eccesso di potere ravvisabile quando la decisione sia deviata dal suo modo di essere, perché in tal caso il giudice non è chiamato a controllare l’opportunità o la convenienza della soluzione adottata dalla delibera impugnata, ma deve stabilire solo che essa sia o meno il risultato del legittimo esercizio del potere discrezionale dell’organo deliberante.(Cass. 28734/2008).
Nella specie, quindi, come accade anche nel diritto amministrativo, trattasi di un vizio della delibera che si verifica ogni qual volta sussista un vizio-figura sintomatica (come per esempio la disparità di trattamento) di un eccesso di potere, che rende sindacabile nel merito e annullabile una deliberazione assembleare, pur se formalmente legittima, ove risulti arbitraria e preordinata al solo perseguimento, da parte della maggioranza, di interessi diversi da quelli della compagine condominiale, o volutamente lesiva dei singoli, senza una propria autonoma giustificazione causale basata sull’interesse comune, Cass. del 22 gennaio 2015, n. 1187.
Per cui possiamo concludere con il ritenere che il sindacato dell’Autorità giudiziaria sulle delibere delle assemblee condominiali non può estendersi alla valutazione del merito ed al controllo del potere discrezionale che l’assemblea esercita quale organo sovrano della volontà dei condòmini, ma deve limitarsi al riscontro della legittimità che, oltre ad avere riguardo alle norme di legge o del regolamento condominiale, deve comprendere anche l’eccesso di potere, ravvisabile quando la decisione sia deviata dal suo modo di essere, perché in tal caso il giudice non controlla l’opportunità o la convenienza della soluzione adottata dalla delibera impugnata, ma deve stabilire solo che essa sia o meno il risultato del legittimo esercizio del potere discrezionale dell’organo deliberante, Cass. del 20 aprile 2001, n. 5889.
In sostanza, non è sufficiente a concretare la fattispecie dell’eccesso di potere la mera opinabilità delle decisioni dell’assemblea, ma occorre la prova che, attraverso la delibera, l’organo gestorio abbia inteso realizzare finalità estranee agli interessi del condominio, o abbia posto in essere una situazione di pregiudizio per la collettività o di abuso ai danni della minoranza, Tribunale Roma, Sezione 5 civile Sentenza 19 giugno 2012, n. 12666.
Come ben si vede trattasi di casi e fattispecie del tutto diverse da quelle prese in esame allorché si è parlato di incompetenza assoluta dell’assemblea in relazione all’oggetto. Fattispecie che potremmo in generale definire di sviamento dagli interessi veri del condominio. Questa ultima di più difficile comprensione, mentre la prima sussiste per il solo fatto che l’oggetto su cui si è deliberato non rientra nella competenza dell’assemblea che vi ha provveduto.
Per cui possiamo concludere con il ritenere che, in tema di condominio negli edifici, la sanzione della nullità deve ritenersi riferita alle delibere dell’assemblea condominiale:
Debbono, invece, ritenersi soltanto annullabili le delibere:
1) affette da irregolarità nel procedimento di convocazione;
2) affette da vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea;
3) adottate con maggioranze inferiori a quelle prescritte dalla legge o dal regolamento condominiale;
4) affette da vizi formali in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari attinenti al procedimento di convocazione e/o informazione dell’assemblea.