[A cura di: Ance Foggia] La mancanza di un concreto pregiudizio dell’interesse pubblico urbanistico comporta che è da considerare illegittimo il provvedimento con il quale un Comune ordina il ripristino dello stato dei luoghi in relazione ad una difformità di “modesta entità”.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato con la sentenza dell’11 maggio 2018, n. 2837, relativa ad un provvedimento con cui l’amministrazione comunale aveva ordinato il ripristino dello stato dei luoghi per una difformità realizzata dal costruttore 54 anni prima dell’accertamento dell’abuso. La difformità contestata consisteva in una variazione della sagoma volumetrica di un intero edificio residenziale condominiale mediante una modesta sopraelevazione di 53 cm che aveva finito per interessare anche i singoli appartamenti con lievi incrementi di superficie e volumetria che erano stati regolarizzati a seguito della procedura di “sanatoria” posta in essere dai singoli proprietari.
Il Consiglio di Stato, confermando la sentenza di primo grado emessa dal Tar Emilia Romagna n. 691/2012, ha ribadito il principio di diritto affermato dall’Adunanza Plenaria (Consiglio di Stato n. 9/2017) secondo cui il decorso del tempo non può incidere sulla doverosità degli atti della pubblica amministrazione volti a perseguire un illecito.
Un ordine di demolizione anche se adottato dopo molto tempo dalla realizzazione dell’abuso non richiede una specifica motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) giustificate dal legittimo affidamento ingenerato dai soggetti destinatari del provvedimento; stabilito che l’applicazione di tale principio generale non può prescindere dall’analisi del caso concreto e dalla “sostanziale assenza di un pregiudizio effettivo per l’interesse pubblico”, come nel caso in esame consistente in una modesta difformità pari al 3% dell’altezza originariamente autorizzata i cui incrementi prodottisi nei singoli appartamenti sono stati anche sanati dai proprietari; evidenziato, sotto quest’ultimo aspetto, che la sanzione relativa alla riscontrata difformità con il pagamento della sanzione già avvenuta dai singoli condòmini per i singoli appartamenti, si tradurrebbe di fatto in una inammissibile duplicazione per un abuso che risulta essere sostanzialmente lo stesso.
Si ricorda che il Dpr 380/2001 (TU edilizia) contiene già una norma con la quale prevede delle ipotesi che, in considerazione della loro lieve entità, non sono ritenute parziali difformità dal titolo edilizio. In particolare l’articolo 34, comma 2 ter, dispone che “non si ha parziale difformità dal titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2% delle misure progettuali”.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, ha considerato di lieve entità una difformità di maggiore consistenza (3% dell’altezza originaria) basandosi sul presupposto che tale difformità ha perso il carattere di “offensività” dell’interesse pubblico tutelato tenuto conto anche del fatto che l’ampliamento dell’edificio si è riverberato sull’ampliamento della superficie delle singole unità immobiliari, sostanzialmente coincidendo con esso, il quale è stato oggetto di sanatoria da parte dei singoli proprietari mediante il pagamento della sanzione pecuniaria prevista dall’articolo 34 del T.U Edilizia.