[A cura di: avv. Lorenzo Cottignoli – presidente LAIC, Lega Amministratori Immobiliari Condominiali]Costituisce tema dibattuto il diritto del condomino a veder rimborsate le spese anticipate per la gestione delle parti comuni, e dunque nell’interesse del condominio. Se da un lato esse possono comportare un beneficio patrimoniale a favore della collettività condominiale, dall’altro il legislatore ha ravvisato la necessità, sin dalla prima redazione codicistica, di dettare un principio negativo, che escludesse, sino a prova contraria, il diritto al loro rimborso, salve le condizioni di necessità ed urgenza che dovessero essere comprovate da chi ha sostenuto la spesa.
Va osservato come già la norma ante-riforma si riferisse, sia nella rubrica sia nel dettato normativo, alle “spese fatte dal condomino”, portando lo stesso contenuto dispositivo della norma novellata dalla Riforma del Condominio, la quale, tuttavia, ha ampliato la propria portata, riferendosi alla “gestione di iniziativa individuale” del singolo condomino, indicando così non solo un’attività di spesa ma un insieme di attività gestorie, svolte dal singolo condomino in sostituzione dell’amministratore, quasi a voler maggiormente tutelare l’amministratore stesso da interferenze nella gestione dello stabile condominiale.
A differenza di ciò che accade nella comunione, laddove ai sensi dell’art. 1110 c.c. il singolo comunista ha diritto al rimborso delle spese “necessarie” sostenute nell’interesse comune, nella “trascuranza degli altri partecipanti o dell’amministratore”, nel condominio tale diritto al rimborso è negato, allorquando non si tratti di spese urgenti. Ciò, naturalmente, non impedisce al singolo condomino di effettuare spese che ritiene necessarie all’interesse comune, ma nella consapevolezza che tali spese, ove non autorizzate o ratificate dagli organi di gestione del condominio, non saranno rimborsate, se non se ne dimostrerà l’urgenza.
A nulla varrebbe, peraltro, al condomino che avesse anticipato una spesa non urgente nell’interesse comune, lamentare un indebito arricchimento del condominio, negando la Corte di Cassazione l’ammissibilità dell’azione generale di arricchimento senza causa, proprio in virtù della tutela alternativa fornita dall’art. 1134 c.c., in caso di spesa urgente, o mediante ricorso all’Autorità giudiziaria, al fine di far ordinare al condominio inerte di dare corso ad una spesa necessaria, ma non urgente, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1133, 1137 e 1105 c.c. (cfr. Cass. Civ. 9629/1994).
La ratio legis di tale disposizione va individuata, secondo la Suprema Corte, nel motivo per il quale, mentre nell’istituto della comunione i beni comuni costituiscono l’utilità finale del diritto dei partecipanti – i quali dunque, legittimamente, nell’inerzia degli altri comunisti o dell’amministratore, possono chiedere il ristoro delle spese necessarie sostenute a vantaggio del bene comunionale – nella disciplina del condominio i beni comuni devono intendersi quali beni strumentali al godimento dei singoli beni individuali, e dunque è disincentivata dalla norma la possibilità per il singolo di interferire nella loro amministrazione (Cass. Civ. n. 20099/2013).
Come anticipato, il contenuto della norma va riferito ad un principio negativo, che dunque nega al condomino il rimborso delle spese anticipate, salvo che non si tratti di spese urgenti: l’onere della prova graverà pertanto sul singolo condomino, che dovrà dimostrare, nei confronti degli altri comproprietari o del condominio, quali legittimati passivi (Cass. Civ. n. 5256/1980) le caratteristiche non solo di necessità, che come abbiamo visto apparirebbero insufficienti, ma di urgenza delle spese anticipate.
Secondo il pacifico insegnamento della Corte di Cassazione, deve ritenersi urgente la spesa, sostenuta con la diligenza del bonus pater familias, “la cui erogazione non possa essere differita, senza danno o pericolo, fino a quando l’amministratore o l’assemblea dei condòmini possano utilmente provvedere”. Tale assunto è ribadito in una pronuncia recentissima resa mediante ordinanza n. 13293 del 28.5.2018.
Con tale provvedimento, peraltro, la Suprema Corte interviene sulla questione, in un caso relativo ad un condominio minimo, composto dunque di soli due partecipanti, ribadendo un proprio insegnamento costante anche in caso di condominio piccolo e dunque composto di meno di nove proprietari e privo di amministratore (v. Cass. Civ. 21015/2015), con il quale ritiene applicabile anche a tale realtà il disposto di cui all’art. 1134 c.c..
In particolare, nel caso in esame, uno dei due condòmini chiedeva all’altro il ristoro pro quota delle spese sostenute per il rifacimento della facciata e del tetto condominiale, andati distrutti in seguito ad un incendio. Tuttavia, la Corte di legittimità, ritenendo pacificamente acclarato in fatto come la responsabilità della causazione dell’incendio fosse da ascriversi allo stesso condomino, dalla cui proprietà esso si era sviluppato, ha stabilito che “non può comunque spettare al condomino alcun diritto al riborso della spesa affrontata per conservare la cosa comune, ai sensi dell’art. 1134 c.c., ove l’esigenza di manutenzione e riparazione della stessa abbia trovato la sua causa in una specifica condotta illecita a lui attribuibile e le opere fatte eseguire dal singolo abbiano perciò dato luogo ad una forma di risarcimento del danno in forma specifica”.
Diversamente, in caso di riconoscimento del diritto al rimborso della spesa, il credito del condomino deve intendersi quale credito di valuta, e non di valore, e come tale maggiorabile degli interessi nella misura legale ma non anche assoggettabile a rivalutazione monetaria (Cass. Civ. 7834/1996).