Secondo una recente pronuncia della corte di Cassazione, della quale proponiamo di seguito l’estratto, l’autorizzazione dell’assemblea è necessaria per “legittimare” l’amministratore a stare in giudizio, trattandosi di azione “reale” e non “meramente conservativa”.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., ord. 23.7.2018, n. 19489
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Con citazione ritualmente notificata il Condominio E. conveniva in giudizio i coniugi S.N. e L.M., esponendo che:
I convenuti resistevano, assumendo che la situazione dei luoghi indicata dal condominio risaliva ad oltre vent’anni ed era imputabile al costruttore-venditore, il quale aveva ridotto l’intercapedine posta lateralmente al box.
Il tribunale, espletata Ctu, accoglieva la domanda e dichiarava che i convenuti avevano arbitrariamente modificato il box, incorporando l’intercapedine che lo divideva dal muro di confine, e li condannava in solido alla restituzione della porzione di superficie relativa, con ripristino della originaria situazione dei luoghi.
La Corte d’Appello confermava la sentenza di primo grado.
Avverso detta sentenza S.N. e L.M. propongono ricorso per cassazione, con due motivi, illustrati da memorie ex art. 380 bis c.p.c..
Il Condominio E. resiste con controricorso.
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la nullità della sentenza impugnata per mancata declaratoria del difetto di legittimazione dell’amministratore del condominio, in relazione all’oggetto del giudizio, trattandosi di azione reale, concernente le parti comuni dell’edificio.
Il motivo è infondato.
In tema di condominio le azioni reali da esperirsi contro i singoli condomini (o contro terzi) e dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità, al contenuto o alla tutela dei diritti reali dei condomini su cose o parti dell’edificio comune che esulino dal novero degli atti meramente conservativi (al cui compimento l’amministratore è autonomamente legittimato ex art.1130 n. 4 c.c.) possono essere esperite dall’amministratore solo previa autorizzazione dell’assemblea ex art. 1131 comma 1, adottata con la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136 c.c. (Cass. 5147/2003; 40/2015).
Dall’applicazione di tale principio deriva la ritualità dell’azione intrapresa dal condominio, giacché, nel caso di specie, l’iniziativa giudiziaria è stata deliberata all’unanimità, presente la maggioranza dei condomini e dei millesimi: detta delibera è pertanto idonea ad attribuire all’amministratore condominiale il potere rappresentativo e la legittimazione processuale.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 2697 in relazione al’artt. 360 n. 3 e l’omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, per avere la Corte territoriale omesso di rilevare che l’attore non aveva assolto all’onere di fornire la prova rigorosa del proprio diritto e non aveva dato rilievo a diversi elementi quali in particolare il contenuto di un verbale della Polizia Municipale di Lecce.
Il motivo è inammissibile in quanto si risolve nella richiesta di una rivalutazione dei fatti già oggetto del sindacato del giudice di merito e nella sollecitazione ad un nuovo esame delle risultanze istruttorie, inammissibile in questa sede, spettando al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove e scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione e dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge, in cui un valore legale è assegnato alla prova (ex plurimis Cass. n. 6064/08).
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha preso specificamente in esame e disatteso le doglianze proposte già in sede di impugnazione dagli odierni ricorrenti, dandone conto in motivazione, ed ha ritenuto, con adeguato apprezzamento di merito, che il verbale redatto da un agente della polizia municipale e da un dipendente del Comune non fosse decisivo al fine di confermare l’assunto che l’accorpamento dell’intercapedine era stato realizzato già in fase di realizzazione dell’intero fabbricato, atteso che i verbalizzanti non erano stai sentiti come testi a conferma e non era possibile desumere dal contenuto del verbale su quale base avessero raggiunto la conclusione suddetta.
Il ricorso va dunque respinto e le spese regolate secondo soccombenza si liquidano come da dispositivo.
(omissis)
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti, in solido, alla refusione delle spese del presente giudizio, che liquida in complessive 2.700, di cui 200 euro, per rimborso spese vive, oltre a rimborso forfettario spese generali, in misura del 15% ed accessori di legge.