[A cura di: Romina Morrone – FiscoOggi, Agenzia delle Entrate] Commette il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte l’imprenditore che, dopo aver ricevuto due avvisi di accertamento da parte dall’Agenzia delle entrate, vende il proprio complesso immobiliare alla dipendente, ma vi resta ad abitare. A precisarlo è la Corte di cassazione, con la sentenza 38834 del 23 agosto 2018.
Un’imprenditrice riceveva due avvisi di accertamento per l’importo complessivo di circa 313.077 euro, a seguito dei quali l’Agenzia delle entrate, temendo pericolo per la riscossione, chiedeva al presidente della Commissione tributaria provinciale di potere iscrivere ipoteca su un complesso immobiliare di proprietà della donna, situato in Prato.
Pochi giorni prima che i giudici tributari si pronunciassero sulla richiesta di iscrizione del vincolo, gli immobili erano venduti a una dipendente dell’imprenditrice. Il relativo decreto era stato emesso, ex articolo 22, Dlgs 472/1997, il 7 luglio 2011. Al momento dell’iscrizione dell’ipoteca era emerso che i tre immobili erano stati alienati con atto notarile datato 1° luglio e trascritto dopo tre giorni.
Gli immobili erano stati venduti a una lavoratrice dipendente dell’imprenditrice, che si era accollata il relativo mutuo ipotecario per un importo annuo corrispondente al suo stipendio annuo. Inoltre, risultava in atti che l’imprenditrice risiedeva ancora in uno dei tre immobili ceduti.
Il Tribunale di Prato, quindi, condannava la donna per il reato ex articolo 11, Dlgs 74/2000, e la sentenza di condanna veniva confermata dalla Corte d’appello di Firenze. In particolare, la Corte ha osservato che:
L’imprenditrice ha proposto ricorso per cassazione, lamentando (anche) erronea applicazione dell’articolo 11, Dlgs 74/2000, nonché omessa motivazione in ordine a tutte le circostanze circa la sussistenza degli elementi tipici del reato contestato. Al riguardo, la donna sosteneva che:
La Cassazione ha dichiarato “manifestamente infondato” il motivo di ricorso e ha affermato che “L’imputata risponde del reato di cui all’art. 11, d.lgs. n. 74 del 2000, perché, in qualità di titolare della ditta … (…), al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi e sul valore aggiunto nonché di interessi e sanzioni amministrative relativi a dette imposte per gli anni 2007 e 2008…., compiva atti fraudolenti sui propri beni idonei a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva, ovvero vendeva e trasferiva gli immobili di sua proprietà …” a terzi “… successivamente alla notifica degli avvisi di accertamento per i suddetti anni di imposta e sui quali la Commissione Tributaria Provinciale di Prato emetteva … il decreto presidenziale … per iscrizione di ipoteca giudiziale”.
I giudici di piazza Cavour hanno dato atto che “l’alienazione degli immobili ha determinato oggettivamente la diminuzione del patrimonio della ricorrente e ha frustrato la sua funzione di garanzia del debito erariale”.
Il reato previsto dall’articolo 11 del Dlgs 74/2000, infatti, è finalizzato a preservare la riscossione del credito erariale, non consentendo al contribuente di sottrarsi al suo dovere di concorrere alle spese pubbliche mediante attività volte a depauperare in modo fraudolento la garanzia costituita dal suo patrimonio e tali da consentirgli di rimanere nel possesso dei propri beni, sottratti alle ragioni dell’Erario.
L’oggetto giuridico del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, quindi, non è il diritto di credito del fisco, bensì la garanzia generica data dai beni dell’obbligato, potendo quindi il reato configurarsi anche qualora, dopo il compimento degli atti fraudolenti, avvenga comunque il pagamento dell’imposta e dei relativi accessori (Cassazione, 36290/2011), ovvero anche a prescindere dalla fondatezza stessa della pretesa erariale e dagli esiti, eventualmente favorevoli per il contribuente, del relativo contenzioso (Cassazione, 32504/2018).
Al riguardo, la Corte ha precisato che si tratta di un reato di pericolo concreto, integrato dall’uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri beni, idonei a pregiudicare, secondo un giudizio ex ante l’attività recuperatoria dell’amministrazione finanziaria (Cassazione, 13233 e 35853 del 2016).
Nella fattispecie all’esame della Corte, l’imprenditrice ben era a conoscenza della propria posizione debitoria nei confronti dell’Agenzia delle entrate e, quindi, anche della possibilità, per l’ufficio procedente, di non perdere la garanzia del credito e di iscrivere ipoteca nei termini e modi previsti dall’articolo 22 del Dlgs 472/1997.
Poi, i giudici di legittimità hanno chiarito che per la sussistenza del delitto è sufficiente la semplice idoneità della condotta a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva (risultato dannoso che è solo ipotetico ed eventuale), da valutare secondo i canoni del “giudizio di prognosi postuma”, facendo riferimento cioè al momento in cui il comportamento incriminato è stato posto in essere e tenendo conto di tutte le circostanze che in quel momento erano conosciute, o tendenzialmente conoscibili, dal contribuente riguardo la propria posizione debitoria con l’Erario. Di conseguenza, integra la condotta rilevante ex articolo 11 del citato Dlgs 74 ogni atto di disposizione del patrimonio, oneroso o gratuito, che abbia la sua causa nel pregiudizio alle ragioni creditorie dell’Erario e che, quale stratagemma artificioso del contribuente, tenda a sottrarre, in tutto o in parte, le garanzie patrimoniali alla riscossione coattiva del debito tributario.
Nessun dubbio, quindi, che la vendita immobiliare tra imprenditrice e sua lavoratrice dipendente potesse essere ascritta tra “gli atti fraudolenti” previsti dall’articolo 11, Dlgs 74/2000.
La Cassazione, infatti, ha precisato che la natura fraudolenta dell’operazione non poteva essere esclusa dalle numerose circostanze, valutate nella sentenza impugnata, in parte relative alla posizione dell’acquirente (e cioè il possibile aiuto economico fornito dai suoi familiari per il pagamento delle rate di mutuo, le garanzie necessarie all’accollo del mutuo, la sua mancata iscrizione nel registro delle notizie di reato come concorrente) e, in parte, riconducibili all’imprenditrice (l’aver mantenuto la residenza nell’immobile e la necessità di far fronte alla crisi di impresa quale movente della vendita).
I giudici di merito, infatti, avevano legittimamente valutato gli indizi, ritenuti idonei a configurare la condotta incriminata dal citato articolo 11, in base alla loro “concordanza”, secondo la regola di giudizio ex articolo 192, comma 2, cpp.
Infine, la Cassazione ha concluso che il mancato esperimento dell’azione revocatoria non incideva sul reato, la cui sussistenza dipende dalla condotta del debitore e non, invece, non dalle iniziative dell’Amministrazione finanziaria.
La previsione, da parte dell’ordinamento, di strumenti civilistici che consentano al creditore fiscale di non subire pregiudizi economici in conseguenza di una condotta eventualmente fraudolenta non esclude, quindi, la punibilità ex articolo 11, primo comma, Dlgs 74/2000.