Quando il bene nasce di proprietà comune e questa non viene contrastata dal titolo costitutivo del condominio, la proprietà comune non può più venir meno, per effetto del negozio con il quale uno dei condòmini intenda attribuire la proprietà ad un terzo, salvo che una delibera assunta con il consenso scritto di ciascun condomino, attribuisca il bene comune in proprietà esclusiva ad uno di essi ovvero ad un terzo. È il principio di diritto richiamato dalla Corte d’Appello nel confermare una sentenza del Tribunale di Forlì, senza che la Cassazione potesse successivamente esprimersi sulla vicenda a causa di un vizio nel ricorso.
Di seguito un estratto della vicenda processuale.
————–
CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., sent. 9.8.2019,
n. 21241
—————-
G.C. ha convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Forlì, M.C. per ottenere lo scioglimento della comunione di un bene condominiale precedentemente destinato ad abitazione del portiere e poi locato a terzi.
La convenuta ha resistito alla domanda contestando il diritto di procedere alla divisione.
Il tribunale, con la sentenza impugnata, ha rigettato la domanda.
Il tribunale, in particolare, dopo aver premesso che:
Rimane, per contro, irrilevante, ha aggiunto il tribunale, la locazione dei locali condominiali deliberata dai condòmini nel 1977: tale delibera non ha integrato un’innovazione, ai sensi dell’art. 1120 c.c., non risolvendosi in una modificazione materiale di un bene comune né in un mutamento della sua destinazione economica. Con la locazione a terzi non si è, infatti, realizzata una diversa destinazione ma solo una diversa utilizzazione di un bene comune, che integra un atto di amministrazione ordinaria finalizzato al miglior godimento delle cose comuni ai sensi dell’art. 1066 c.c.. La delibera che ha concesso in locazione il bene, quindi, ha concluso il tribunale, non poteva, in contrasto con il titolo contrattuale, mutare la destinazione dell’appartamento, determinando la cessazione della sua qualità condominiale e la conseguente possibilità di chiedere lo scioglimento della comunione ordinaria in contrasto con la volontà della condomina convenuta. E neppure, infine, rileva la delibera del 2005, che non ha natura contrattuale, mancando il consenso della condomina appellata a cedere la propria quota di proprietà del suddetto bene al G.C..
L’attore, con citazione notificata il 10/1/2014, ha proposto appello.
La corte d’appello, con ordinanza del 24/6/2014, dichiaratamente comunicata il 25/6/2014, ha dichiarato, a norma dell’art. 348 bis c.p.c., l’inammissibilità dell’appello rilevando che l’impugnazione proposta non avesse una ragionevole probabilità di essere accolta.
La corte, in particolare, dopo aver evidenziato che non era controverso che l’appartamento destinato ad abitazione del custode rientrasse originariamente tra le parti comuni a norma dell’art. 1117 c.c., ha ritenuto di confermare il principio già affermato dal tribunale secondo cui, quando il bene nasce di proprietà comune e questa non viene contrastata dal titolo costitutivo del condominio, la proprietà comune non può più venir meno, per effetto del negozio con il quale uno dei condòmini intenda attribuire la proprietà ad un terzo, salvo che una delibera assunta con il consenso scritto di ciascun condomino, attribuisca il bene comune in proprietà esclusiva ad uno di essi ovvero ad un terzo. Né, ha aggiunto la corte, sono idonei gli elementi addotti dall’appellante per sostenere la cessata condominialità del bene: con delibere assembleari dell’11/6/1971 e del 30/12/1977 i condòmini si sono, rispettivamente, limitati a respingere (peraltro a maggioranza) la proposta di assumere un custode (e non a sopprimere il servizio di portierato) e ad approvare (all’unanimità) la proposta di concedere in affitto il suddetto appartamento di proprietà condominiale. Le delibere in questione, quindi, ha osservato la corte, avendo solo ad oggetto una diversa utilizzazione del bene comune, non sono idonee a determinare la cessazione della sua qualità condominiale.
G.C., con ricorso spedito per la notifica il 30/1/2015, ha chiesto, per due motivi, la cassazione della sentenza del tribunale.
Ha resistito, con controricorso notificato in data 11/3/2015, M.C..
Le parti hanno depositato memoria.
(omissis)
la Corte così provvede: dichiara l’inammissibilità del ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare al contro ricorrente le spese di lite, che liquida in euro 5.400, di cui euro 200 per esborsi, oltre accessori e spese generali nella misura del 15%; dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012.