Condannata ex articolo 660 del codice penale per aver più volte disturbato il riposo dei vicini di casa in orario notturno, suonando i loro campanelli e coprendoli anche di contumelie alle richieste di spiegazione, una condomina ha visto confermare la misura a suo carico anche dalla Cassazione, con l’ordinanza 37272/2019 nel cui ambito gli Ermellini colgono l’occasione per definire i limiti dei ricorsi per Cassazione, che tanto utile sarebbe tener presenti per ridurre i tempi dei processi ed alleggerire il carico di lavoro della Suprema Corte.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. VII pen., ord. n. 37272/2019
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Con sentenza in data 27/02/2018 il Tribunale di Bari condannava C.A. alla pena di euro 300 di ammenda per il reato di cui all’art. 660 c.p..
Rilevava il giudice che dall’istruttoria dibattimentale era emerso che l’imputata più volte aveva suonato al campanello della porta delle persone offese suoi condòmini in orario notturno, disturbando il riposo e coprendoli di contumelie alle richieste di spiegazione; le persone offese venivano ritenute credibili, anche per assenza di precedenti motivi di astio.
Avverso tale sentenza propone ricorso l’interessata a mezzo del difensore, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione: lamenta che la lettura dei verbali di udienza e delle dichiarazioni testimoniali (che venivano citate) consentiva di appurare che la condanna era stata incongrua, anche per la valutazione negativa aprioristica attribuita alle affermazioni dell’imputata, senza che fosse stata effettuata una analitica disamina della credibilità dei denunzianti; di seguito si ripercorrevano alcune testimonianze e si sosteneva che il quadro probatorio era fumoso e non consentiva una condanna.
Il ricorso è inammissibile.
Deve rilevarsi che il controllo affidato al giudice di legittimità è esteso, oltre che all’inosservanza di disposizioni di legge sostanziale e processuale, ai vizi della motivazione, nel cui ambito devono ricondursi tutti i casi in cui la motivazione risulti priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità, al punto da risultare meramente apparente, ovvero assolutamente inidonea a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito.
Alla luce di tali parametri ermeneutici, questa Corte osserva che il ricorso non individua singoli aspetti del provvedimento impugnato da sottoporre a censura, ma tende in realtà a provocare una nuova e non consentita valutazione del merito dei presupposti della condanna.
Dunque manifestamente infondate devono ritenersi le doglianze prospettate, in quanto sostanzialmente orientate a riprodurre un quadro di argomentazioni già esposte nel giudizio di merito, ed ivi ampiamente vagliate e correttamente disattese dal giudice, ovvero a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali, poiché imperniata sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, in tal guisa richiedendo l’esercizio di uno scrutinio improponibile in questa Sede, a fronte della linearità e della logica consequenzialità che caratterizzano la scansione delle sequenze motivazionali dell’impugnata decisione. In relazione ai suindicati profili, dunque, il ricorso non è volto a rilevare mancanze argomentative, erronee applicazioni di norme o illogicità ictu oculi percepibili, bensì ad ottenere un non consentito sindacato sulla congruità di scelte valutative compiutamente giustificate dal giudice, che ha adeguatamente ricostruito il compendio storico-fattuale posto a fondamento del tema d’accusa.
Peraltro, la ricorrente cita sovente verbali del processo e dichiarazioni testimoniali, ma al ricorso non è stato allegato alcunché: va ribadito, riguardo al ricorso il quale, in applicazione dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), intenda far valere il vizio di manifesta illogicità della motivazione, che esso deve, a pena di inammissibilità, tra l’altro, fornire elementi concreti a sostegno della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato ed indicare le ragioni per cui il dato invocato asseritamente inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n.10951 del 15/03/2006).
In altri termini, il ricorrente, che intenda dedurre la sussistenza di tale incompatibilità, non può limitarsi ad addurre l’esistenza di atti del processo non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione o non correttamente interpretati dal giudicante, ma deve invece identificare, con l’atto processuale cui intende far riferimento, l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dal provvedimento impugnato, dare la prova della verità di tali elementi o dati invocati, nonché dell’esistenza effettiva dell’atto processuale in questione: nella fattispecie, l’impossibilità di conoscere gli atti cui fa riferimento la doglianza si risolve in un limite all’ammissibilità della doglianza medesima, che risulta conseguentemente conformata in termini di mera istanza di rivisitazione delle risultanze probatorie già congruamente valutate nelle fasi di merito.
In proposito può ritenersi ormai consolidato, nella giurisprudenza di legittimità, il principio della cosiddetta “autosufficienza del ricorso”, inizialmente elaborato dalle sezioni civili di questa Corte, secondo il quale è inammissibile il ricorso per cassazione che deduca il vizio di manifesta illogicità della motivazione ma che non sia autosufficiente con riferimento alle relative doglianze (Sez. 2, n. 26725 del 01/03/2013).
Quanto infine alle affermazioni sulla valutazione della credibilità delle persone offese, si tratta di deduzioni generiche ed aspecifiche, che non si confrontano con la motivazione censurata.
Per queste ragioni il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non ricorrendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma alla Cassa delle ammende, determinabile in 3.000 euro, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen..
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende.