[A cura di: avv. Andrea Marostica – www.avvocatoandreamarostica.it] L’art. 1121 c.c., non interessato dalla riforma, si occupa delle innovazioni gravose e di quelle voluttuarie. Benché medesima sia la disciplina dettata per i due tipi di innovazione, è bene sottolineare che si tratta di fattispecie diverse.
In prima approssimazione e sotto il profilo letterale, sono gravose quelle innovazioni che comportano una spesa molto gravosa; sono voluttuarie quelle innovazioni che hanno carattere voluttuario. La gravosità della spesa ed il carattere voluttuario della modifica, come si vedrà meglio in seguito, devono essere valutate non in astratto, ma facendo riferimento alle particolari condizioni e all’importanza dell’edificio.
La specificità della disciplina dettata per le innovazioni gravose e per quelle voluttuarie sta nella possibilità di modulare i rapporti di utilità tra l’opus novum e le proprietà esclusive, in termini di soggetti coinvolti e di obblighi di contribuzione.
Al fine di stabilire quando ricorre una ipotesi di innovazione gravosa o di innovazione voluttuaria, correttamente è stato osservato in dottrina (1) che un criterio fisso in assoluto non c’è, perché bisogna tener conto delle condizioni dell’edificio, per cui un lavoro che, in uno stabile di tipo economico, può essere considerato gravoso e voluttuario, in un altro di tipo signorile può essere considerato normale; certo, bisogna tener conto del risultato economico per stabilire se l’opera si risolve in lusso, come avviene quando il lavoro abbia un semplice carattere ornamentale, o in un aumento di valore del fabbricato e quindi dei singoli appartamenti.
Parimenti in giurisprudenza (2) è stato affermato che le innovazioni di cui all’art. 1121 c.c. sono quelle che, oltre a riguardare impianti suscettibili di utilizzazione separata, hanno natura voluttuaria, cioè sono prive di utilità, ovvero risultino molto gravose, con riferimento oggettivo alle condizioni e all’importanza dell’edificio.
Ancora: l’innovazione deve considerarsi voluttuaria quando la spesa che comporta la sua esecuzione e manutenzione non è compensata da un corrispondente aumento di vantaggi che ai singoli proprietari di appartamenti derivano dal godimento della parte comune in cui essa è introdotta, o dall’impianto, manufatto in cui essa consiste; tale criterio va temperato tenendo conto del carattere dell’edificio, del sistema di costruzione, dei materiali impiegati, della destinazione data dai proprietari agli appartamenti che compongono l’edificio (3).
Venendo ora alla specificità della disciplina di questi due tipi di innovazione cui si accennava sopra, occorre anzitutto comprendere se l’opera, l’impianto od il manufatto è suscettibile di utilizzazione separata; in altre parole, se l’innovazione esprime un’utilità rinunciabile da parte di alcuni condòmini.
Stabilisce l’art. 1121 c.c. le seguenti regole. Se l’utilizzazione separata è possibile, i condòmini che non intendono trarne vantaggio sono esonerati da qualsiasi contributo nella spesa; i condòmini e i loro eredi o aventi causa possono tuttavia, in qualunque tempo, partecipare ai vantaggi dell’innovazione, contribuendo nelle spese di esecuzione e di manutenzione dell’opera.
Se l’utilizzazione separata è impossibile, l’innovazione non è consentita, salvo che la maggioranza dei condòmini che l’ha deliberata o accettata intenda sopportarne integralmente la spesa.
Dunque, se l’utilità offerta dall’opus novum è rinunciabile:
Se, invece, l’utilità della nuova opera non è rinunciabile:
L’art. 1120, co. 4, c.c., non interessato dalla riforma, stabilisce che sono vietate le innovazioni che:
“Stabilità” si riferisce al pericolo di crollo; “sicurezza” alla sicurezza – appunto – verso terzi, come ad es. ladri, o verso cose (rectius, eventi), come ad es. intemperie, alluvioni, incendi (5).
La stabilità e la sicurezza del fabbricato sono presidi a tutela della stessa incolumità fisica dei condòmini e dei terzi, ed è proprio tale incolumità che diviene, quindi, l’oggetto ed il fine della tutela affidata alla norma in questione dal legislatore (6).
Con l’espressione “aspetto architettonico” si intende la caratteristica principale immediatamente ravvisabile da chiunque osservi la cosa o il luogo, invece per “decoro architettonico” si intende un insieme di elementi, che di regola non risultano altrettanto marcatamente alla vista. In altri termini, l’aspetto architettonico si sostanzia in ciò che risulta da un’istantanea visione d’insieme del fabbricato, per cui ad esempio una sopraelevazione di quest’ultimo non può non essere rilevante e verificabile da un qualunque osservatore. Al contrario, il decoro architettonico è valutabile in base ad un’osservazione più attenta, capace di cogliere mutamenti anche molto meno evidenti, ma di stimarli con riferimento ad altri parametri (7).
Si è altresì affermato (8) che per decoro architettonico, ai fini della disciplina di cui all’art. 1120 c.c., va intesa l’estetica data dall’insieme delle linee e delle strutture ornamentali che costituiscono la nota dominante ed imprimono alle parti dell’edificio, nonché allo stesso nel suo insieme, una determinata, armonica fisionomia, senza che occorra che si tratti di edifici di particolare pregio artistico.
L’inservibilità del bene comune all’uso o al godimento anche di un solo condomino, che rende illegittima e quindi vietata l’innovazione deliberata dagli altri condòmini, è riscontrabile anche nel caso in cui l’innovazione produca una sensibile menomazione dell’utilità che il condomino precedentemente ricavava dal bene (in applicazione di tale principio, è stato ritenuta illegittima la delibera condominiale che, nel restringere il vialetto di accesso ai garage, rendeva disagevole il transito delle autovetture) (9).
È stato osservato in dottrina (10) che se l’innovazione introdotta nell’interesse comune arreca un pregiudizio anche ad un solo condomino nell’uso della parte comune dell’edificio, tale da superare i limiti della tollerabilità, non può essere consentita, perché, in sostanza, si ha un mutamento della destinazione economica della cosa.
(1) VISCO, Le case in condominio, Milano, 1964, 270. (2) Cass. civ., 21 maggio 2015, n. 10483. (3) Cass. civ., 23 aprile 1981, n. 2408. (4) Cass. civ., 18 agosto 1993, n. 8746. (5) Branca, Comunione. Condominio negli edifici, in Commentario al codice civile, diretto da Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1982, 431, come letto da Dogliotti, Comunione e condominio, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, I diritti reali vol. VII, Torino, 2006, 231. (6) Vincenti, Le innovazioni, in Il nuovo condominio, a cura di Triola, Torino, 2013, 302. (7) Cass. civ., 27 aprile 1989, n. 1947. (8) Cass. civ., 14 dicembre 2005, n. 27551. (9) Cass. civ., 25 ottobre 2005, n. 20639. (10) Triola, Il condominio, Milano, 2007, 209.