[A cura di: avv. Amedeo Caracciolo] Con ordinanza interlocutoria n. 31420 del 2019, la II sez. civile della Corte di Cassazione ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per valutare l’eventuale rimessione alle Sezioni Unite della questione relativa all’ammissibilità, alla natura, ai caratteri ed ai limiti del diritto di uso esclusivo sulle parti comuni.
L’ordinanza in commento è resa a conclusione di un processo che trae origine dalla domanda di due proprietari di unità immobiliari in condominio che convenivano in giudizio altri due condòmini, onde accertare:
I convenuti, viceversa, deducevano la legittimità dei beni costruiti, atteso il titolo di proprietà nonché l’atto di venuta ad esistenza del Condominio, impropriamente qualificato come “atto costitutivo”, ma probabilmente riferibile alla prima “alienazione” (vendita, donazione, divisione) che portava ad almeno due il numero di proprietari-condòmini ed al riconoscimento ipso iure et facto del condominio, attesa l’esistenza di beni e servizi in comune ex art. 1117 c.c..
Deducevano, altresì, di aver in ogni caso usucapito il diritto d’uso esclusivo sull’area in questione. Trattavasi, infatti, di area immediatamente antistante i locali terranei di proprietà dei convenuti.
Le predette eccezioni venivano accolte dal Tribunale di Rimini che rigettava la domanda attorea in quanto non risultava accertata una violazione del principio del pari uso ex art. 1102 c.c..
Anche la sentenza di secondo grado accertava che il titolo di acquisto del locale terraneo nonché l’atto con cui veniva ad esistenza il condominio sancivano l’uso esclusivo della corte condominiale da parte dei convenuti.
Tale uso esclusivo, contrariamente a quanto sostenuto dagli attori, nulla avrebbe a che vedere con quello di cui all’art. 1021 c.c. (libro II, tit. V, capo II c.c. “dell’uso e dell’abitazione”), ma costituirebbe comunque un “uso delle parti condominiali” ex artt. 1102 e 1122 c.c., qualificato dai giudici di secondo grado come un particolare diritto di utilizzo esclusivo dei beni comuni.
In altri termini, l’utilizzo esclusivo del cortile condominiale è da ritenere legittimo, anche quando non viene consentita analoga facoltà di godimento per gli altri comproprietari, poiché originariamente così era stabilito da tutti i condòmini, con clausola negoziale.
Ed infatti, anche se l’art. 1117 c.c. contempla i cortili come beni in comune a tutti i condòmini, è la stessa norma che fa espressamente salvo il titolo contrario.
La Corte d’Appello di Bologna, dunque, aderisce all’orientamento (maggioritario ma non pacifico) che afferma la realità del predetto vincolo, allontanandosi dal paradigma del diritto d’uso di cui all’art. 1021 c.c..
La causa giunge così in Cassazione.
L’ordinanza in commento ripercorre le varie opinioni sorte in dottrina e in giurisprudenza circa la natura di tale diritto: da quelle che fanno riferimento al carattere “pertinenziale” delle aree in questione a quelle che parlano della nascita di una servitù.
L’uso esclusivo sarebbe, nella ricostruzione prevalente, “tendenzialmente perpetuo e trasferibile”, e per niente riconducibile al diritto reale di cui agli artt. 1021 e ss., sicché non condividerebbe con tale istituto “né i limiti di durata, né i limiti di trasferibilità, e nemmeno le modalità di estinzione”.
Tale configurazione ben si conforma, a dire della Cassazione, con le diffuse esigenze avvertite dalla pratica notarile di dare al cd. “uso esclusivo” di parti condominiali, il rango di un diritto perpetuo e trasmissibile a contenuto non personale.
Tuttavia, è da considerare che una parte della dottrina pure ha affermato che in tale fattispecie verrebbe ad esistenza un nuovo diritto reale, con possibile coinvolgimento di un problema di ben più ampia portata per i principi generali del nostro ordinamento e cioè l’ammissibilità della deroga al principio del cd. numerus clausus dei diritti reali.
Da un lato, dunque, occorre verificare se vi sia la necessità di un controllo circa l’eventuale meritevolezza di un accordo negoziale che conceda l’uso esclusivo di un bene comune in capo ad un condomino in base agli artt. 1322 c.c., comma 2 ed agli artt. 41 e 42 della Costituzione, riconducendo l’eventuale obbligazioni a quelle cd. reali o propter rem.
Dall’altro lato, l’intervento delle Sezioni Unite è auspicabile per chiarire definitivamente se sono ammissibili diritti reali a-tipici e se tale è quello di cui all’art. 1122 c.c..
Alla tesi che tradizionale che consente al solo legislatore la creazione di diritti reali, pena la violazione dei principi di certezza del diritto e della libera circolazione di beni, si contrappone, infatti, un altro e più recente orientamento (che trae origine da autorevole dottrina), per il quale l’art. 1322 c.c., nel consentire ai privati la stipulazione di contratti atipici, non limitando tale facoltà a una determinata tipologia di contratti, questi possono avere ad oggetto anche un diritto reale non espressamente disciplinato a livello legislativo.
Anche il problema della mancata menzione, fra gli atti trascrivibili ex art. 2643 c.c. degli atti costitutivi di un diritto reale atipico, può essere superato rilevando che la trascrizione nel nostro ordinamento non ha efficacia costitutiva, ma funzione dichiarativa.
La norma di cui all’art. 1122 c.c., rubricata “opere su parti di proprietà o uso individuale” prevede espressamente che nell’unità immobiliare di sua proprietà ovvero nelle parti normalmente destinate all’uso individuale, il condomino non può eseguire opere che arrechino danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio. In ogni caso si prevede che deve essere data preventiva notizia all’amministratore che ne riferisce all’assemblea.
Si tratta, a ben vedere, di una norma scarna che certo non aiuta l’interprete nella risoluzione di problematiche come quella sopra descritta.
Detta norma viene maggiormente in rilievo per l’indagine sulla legittimità o meno di opere che, partendo dalla cosa di pertinenza esclusiva del singolo condomino, incidano su uno spazio o superficie comune.
Occorre distinguere il caso in cui le predette opere, per la loro conformazione e struttura, determinino un’occupazione ed incorporazione stabile, nel bene individuale, di porzione dello spazio e superficie comune, dal caso in cui le medesime si limitino a sporgere e sovrastare su detto spazio o superficie. Nella seconda ipotesi vi è illegittimità solo per il caso in cui ne derivi impedimento e ostacolo al normale godimento del bene comune da parte degli altri condòmini. In mancanza di norme limitatrici della destinazione e dell’uso delle porzioni immobiliari di proprietà esclusiva di un edificio condominiale, derivanti da regolamento approvato da tutti i condòmini, la norma dell’art. 1122 c.c. vieta soltanto di compiere, nel piano o nelle porzioni di piano di proprietà esclusiva, opere che possano danneggiare le parti comuni dell’edificio e non già opere che consistano nella semplice destinazione della proprietà esclusiva ad un uso piuttosto che a un altro.
Il divieto di arrecare danni ad una parte comune dell’edificio, non si riferisce soltanto al danno materiale, ma anche all’eliminazione o riduzione, ottenuta mediante influenza dall’esterno dell’attitudine della cosa a servire all’uso o agli usi a cui è destinata. In tale caso, la tutela ben può essere invocata avverso le opere che elidono o riducono una qualsiasi delle utilità suscettibile di valutazione economica. Ad esempio, nel caso di terrazza comune che oltre a fungere da copertura dell’edificio, offra per caratteristiche oggettive veduta panoramica, è sicuramente illecita l’opera eventualmente posta da un condomino nell’ambito della sua proprietà esclusiva che escluda o riduca stabilmente la predetta veduta.
In tali casi l’azione degli altri condòmini per la tutela del decoro architettonico ed il ripristino dello status quo ante è imprescrittibile. Ovviamente il convenuto ben potrà dimostrare di aver usucapito il diritto a mantenere tale opera (Cass. civ. II, n. 7727/2000).
Deve, infine, essere chiaro che l’articolo in questione non è tra quelli che il successivo art. 1138 c.c. qualifica come inderogabili. È ben possibile, dunque, che si rinvengano nei regolamenti condominiali contrattuali delle limitazioni ai poteri ed alle facoltà per i condòmini che utilizzino un bene comune. Ad esempio, con riferimento all’annoso problema riguardante le aree destinate a parcheggio, può essere prevista per una migliore coesistenza delle proprietà confinanti ed una migliore utilizzazione dell’intera area per le manovre di accesso e di parcheggio, la limitazione del diritto di godimento dei posti-auto di proprietà esclusiva vietandone la recinzione (Cass. civ. II, n. 4509/1997).
I divieti ed i limiti di destinazione delle cose di proprietà individuale possono essere formulati nei regolamenti sia mediante elencazione delle attività vietate, sia mediante riferimento ai pregiudizi che si intendono evitare.
Nella prima ipotesi, è sufficiente, al fine di stabilire se una determinata destinazione sia vietata o limitata, verificare se la destinazione sia inclusa nell’elenco, dovendosi ritenere che già in sede di redazione del regolamento ne siano stati valutati gli effetti come necessariamente dannosi.
Nella seconda ipotesi, essendo mancata la valutazione in astratto degli effetti dell’attività, è necessario accertare l’effettiva capacità a produrre gli inconvenienti che si vogliono evitare. Infatti, in materia condominiale, l’autonomia privata consente alle parti di stipulare convenzioni che pongano limitazioni nell’interesse comune ai diritti dei condòmini, anche relativamente al contenuto del diritto dominicale sulle parti di loro esclusiva proprietà, così costituendo degli oneri reali.
Riferimenti normativi e giurisprudenziali