[A cura di: prof. avv. Silvio Rezzonico – presidente onorario Confappi] Da sempre è controversa l’applicabilità, in condominio, della normativa codicistica sulle distanze, in funzione dell’art. 1102, comma 1, c.c., secondo cui “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di fame parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine, può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa”.
Proprio sulla scorta del principio sancito da tale norma, più spesso la dottrina e talvolta la giurisprudenza hanno affermato che le norme sulle distanze applicabili al condominio devono essere individuate in funzione della destinazione delle cose comuni e dell’egual diritto di godimento spettante su di esse, da parte di ciascun condomino.
Nessuno però ha mai escluso – in assoluto – l’applicabilità della normativa sulle distanze, particolarmente quando quest’ultima sia compatibile con la struttura dei diritti condominiali e con il rispetto della destinazione delle cose comuni, che viene definita come primaria e secondaria: le distanze legali non si devono osservare nel primo caso, mentre devono osservarsi nel secondo.
Per la dottrina, di distanze relative alla cosa comune tra i partecipanti pare assurdo parlare in quanto questi ultimi sono condòmini della cosa di cui hanno diritto di godere: in essa non vi è un limite materiale che li divide, ma su di essi i partecipanti hanno un diritto che li unisce, diritto che per sua natura non può essere assoggettato a distanze.
In forza di tale considerazione non avrebbe senso parlare di distanze legali in condominio, perché queste si riferiscono esclusivamente ai rapporti di vicinato di cui all’art. 873 e segg. c.c., la cui inosservanza è causa del sorgere di servitù, che possono riguardare solo le proprietà contigue e divise. Conseguentemente, la tutela dei diritti degli altri condòmini deve essere trovata non nella normativa su distanze prestabilite, ma nel rispetto della destinazione della cosa comune, sulla base del principio generale di non recare danno o pregiudizio agli altri.
Secondo tale impostazione, le norme sulle distanze possono quindi essere invocate in condominio solo con riferimento ai rapporti tra proprietà esclusive mentre, con riferimento ai rapporti tra parti comuni e proprietà esclusive, possono essere invocate solo ove incompatibili con il diritto di godimento delle parti comuni, a norma dell’art. 1102 c.c.. In questo senso, la normativa sulle distanze dovrebbe essere subordinata a quella condominiale ed essere comunque compatibile con quest’ultima.
Ma è proprio vero che nel condominio la normativa sulle distanze è subordinata alla disciplina condominiale? E poi, in cosa consiste la cosiddetta compatibilità?
Un tentativo di uscire da questa generica impostazione sembra leggersi nella sentenza della Cassazione (23 gennaio 1995, n. 724), secondo cui, a parte le solite petizioni di principio relative alla compatibilità e alla complementarità delle due normative – quella condominiale o quella sulle distanze – in caso di contrasto “prevalgono le norme relative all’uso delle cose comuni con la conseguenza dell’inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali, che nei rapporti tra singolo condomino e condominio sono in rapporto di subordinaione, rispetto alle norme condominiali”.
Ma non potrebbe essere vero anche il contrario? Del resto, abbandonando i vecchi e generici criteri della complementarità e compatibilità, non sarebbe meglio definire, una volta per tutte, il rapporto di prevalenza o di subordinazione tra normativa sulle distanze e normativa sull’uso delle cose comuni in condominio?
Come è stato osservato, se si tiene conto della specialità delle norme sulle distanze legali rispetto alla disciplina di cui all’art. 1102 c.c., il rapporto di complementarità tra le due normative potrebbe anche leggersi non in termini di subordinazione della normativa sulle distanze alla normativa sul condominio, ma invertendo i termini del rapporto. E così, non potrebbero considerarsi lecite, a norma dell’art. 1102 c.c., solo quelle utilizzazioni della cosa comune che non siano in violazione delle norme sulle distanze?
Se si partisse dalla premessa che le norme sulle distanze legali si applicano ogni volta che due immobili vengono a confinare tra loro – anche se non insistano su fondi differenti e facciano parte dell’unico edificio condominiale – esse norme, per la loro specialità, potrebbero prevalere sull’art. 1102 c.c., relativo all’uso delle parti comuni.
Se, invece, si presupponesse che le norme sulle distanze non sono applicabili nei rapporti tra condòmini – in conseguenza della struttura dell’edificio condominiale – il rapporto di compatibilità o complementarità non si dovrebbe neanche porre, dovendo allora trovare applicazione la sola normativa condominiale.
In tale contesto, la giurisprudenza prevalente, ha puntualizzato le norme sulle distanze legali – le quali sono fondamentalmente rivolte a regolare i rapporti tra proprietà autonome e contigue – sono applicabili anche nei rapporti tra il condominio ed il singolo condomino di un edificio condominiale, nel caso in cui esse siano compatibili con la applicazione delle norme particolari relative all’uso della cosa comune (art. 1102 c.c.), cioè nel caso in cui l’applicazione di questa ultima, non sia in contrasto con le prime due e delle une e delle altre sia possibile una applicazione complementare; nel caso di contrasto, devono prevalere le norme relative all’uso della cosa comune, con la conseguenza della inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che, nel condominio di edifici e nei rapporti tra il singolo condomino ed il condominio stesso, siano in rapporto di subordinazione rispetto alle prime (cfr. tra le tante Cass. 16 maggio 2014, n. 10852).
L’applicabilità delle norme sulle distanze legali trova comunque un limite nel caso di opere eseguite in epoca anteriore alla costituzione del condominio, atteso che in tale caso, l’intero edificio, formando oggetto di un unico diritto dominicale, può essere nel suo assetto liberamente precostituito o modificato dal proprietario anche in vista delle future vendite dei singoli piani o porzioni di piano, con la conseguenza che queste comportano da un lato il trasferimento della proprietà sulle parti comuni e l’insorgere del condominio e dall’altro lato, la costituzione, in deroga od in contrasto al regime legale delle distanze, di vere e proprie servitù a vantaggio e a carico delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli acquirenti, in base ad uno schema assimilabile a quello dell’acquisto della servitù per destinazione del padre di famiglia (Cass. 7 aprile 2015, n. 6923).