Qualora la cosa comune sia alterata o addirittura sottratta definitivamente alla possibilità di godimento collettivo, non si rientra più nell’ambito dell’uso frazionato consentito, ma nell’appropriazione di parte della cosa comune, per legittimare la quale è necessario il consenso scritto di tutti i partecipanti.
È uno dei principi di diritto espressi dalla Cassazione con quest’interessante e completa ordinanza dell’11 settembre 2020, di cui riportiamo un estratto.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., ord. 11.9.2020,
n. 18929
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1. L.C. conveniva, dinanzi al Tribunale di Roma, M.M. per sentirla condannare al ripristino del vano scala condominiale che la M.M. aveva accorpato all’appartamento di sua proprietà esclusiva oltre al risarcimento dei danni.
Resisteva la M.M., spiegando altresì domanda riconvenzionale di condanna al risarcimento dei danni provocati dalla revoca implicita del consenso già prestato per l’esecuzione dei lavori di accorpamento del detto vano scale, lavori che erano stati portati a termine.
2. Il Tribunale di Roma accoglieva la domanda attorea e condannava la M.M. al ripristino dello stato dei luoghi inerenti le parti comuni e condannava la medesima al pagamento dell’indennità ex articolo 1127 c.c. in relazione al bagno e al ripostiglio realizzati sul lastrico solare, nonché in relazione ai 18 mq. realizzati con l’inglobamento del vano scale; respingeva invece le domande di risarcimento dei danni, nonché la riconvenzionale proposta dalla M.M..
3. Avverso la suddetta sentenza proponeva appello la M.M..
4. La Corte d’Appello di Roma, in parziale riforma della decisione di primo grado, riduceva l’indennità ex articolo 1127 c.c. mentre respingeva i restanti motivi di appello.
5. Avverso la sentenza d’appello M.M. proponeva ricorso per cassazione.
6. Con sentenza numero 3161 del 2006 questa Corte dichiarava la nullità della sentenza della Corte d’Appello per essere stata sottoscritta da un presidente diverso da quello risultante nell’intestazione.
7. Il processo veniva ritualmente riassunto dalla M.M..
8. Resistevano L.C. e A.T..
9. La Corte d’Appello di Roma ribadiva la decisione precedentemente presa, rigettando tutti i motivi di appello, salvo quello relativo alla riduzione dell’indennità ex articolo 1127 c.c..
In particolare, la Corte d’Appello rilevava che il giudice di prime cure aveva fatto corretta applicazione dell’articolo 1102 cod. civ., in quanto l’inglobamento della cosa comune nella propria proprietà esclusiva vulnera il diritto di comproprietà degli altri condòmini, a nulla valendo la pretesa maggior protezione delle cose comuni che l’inglobamento avrebbe determinato.
D’altra parte, non poteva accogliersi la tesi della carenza di interesse degli altri condòmini a salire oltre il pianerottolo dell’ultimo piano, in quanto l’acquisizione della piena proprietà della cosa comune in capo al condomino che afferma di essere l’unico interessato a farne uso, in mancanza di ulteriori deduzioni, legittima l’interesse degli altri condòmini ad opporsi.
Neanche poteva individuarsi un titolo negoziale in virtù del quale gli altri condòmini avevano consentito la trasformazione di una porzione del bene immobile da cosa comune a proprietà esclusiva, anche perché mancava la forma scritta ad substantiam necessaria per ogni trasferimento immobiliare. Neanche era possibile ipotizzare che il consenso avesse dato loro un’obbligazione propter rem opponibile agli aventi causa degli attuali condòmini, mancando il requisito della riferibilità reale con la cosa e anche quello della forma scritta.
Non era fondato neanche il motivo di appello relativo a una presunta responsabilità contrattuale dei condòmini che avevano prestato il consenso ai lavori per un presunto risparmio dei contributi altrimenti dovuti per il rifacimento e l’impermeabilizzazione della copertura fatiscente del vano scale, perché questo aspetto non provato non costituiva un corrispettivo. Il consenso presunto, pertanto, doveva qualificarsi come mero atto di liberalità che non dà luogo a una responsabilità precontrattuale.
La Corte d’Appello accoglieva, invece, il motivo di gravame relativo alla riduzione dell’indennità ex articolo 1127 che doveva essere parametrata sull’effettivo incremento della nuova superficie utilizzabile come rilevato dalla stessa consulenza tecnica.
Veniva rigettato, infine, il motivo di appello relativo alla mancata dichiarazione della cessazione della materia del contendere in relazione alla domanda di rimborso della quota di canoni e spese condominiali per mancanza di interesse posto che dalla decisione del Tribunale non potevano conseguire effetti pregiudizievoli per l’appellante.
10. M.M. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di due motivi.
11. L.C. ha resistito con controricorso e ha depositato memoria illustrativa in prossimità dell’adunanza camerale del 22 ottobre 2019.
12. La trattazione del ricorso è stata rinviata all’adunanza camerale del 19 febbraio 2020.
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione dell’articolo 1102 c.c.
La ricorrente evidenzia che nell’appello aveva affermato che la destinazione della cosa comune non era stata alterata dal suo intervento ex articolo 1102 c.c. e aveva aggiunto, solo per inciso, che tale intervento aveva rafforzato la protezione delle scale comuni e che i condòmini non avevano alcun interesse a salire oltre il pianerottolo dell’ultimo piano, non potendo liberamente proseguire in terrazza.
Quindi precisava che la riconvenzionale era intesa alla declaratoria di legittimità delle sue opere sul vano scala in forza del consenso prestato dai condòmini e della norma del regolamento condominiale contrattuale oltre che dell’art. 1102 c.c..
Dunque, il vero profilo della doglianza dell’appellante era relativo al difetto di utilità concreta degli altri condòmini ad utilizzare il tratto terminale delle scale non avendo libero accesso al terrazzo. Secondo tale prospettazione, non era ravvisabile un’alterazione della destinazione della cosa comune da parte della ricorrente in mancanza di un concreto interesse degli altri condòmini. Peraltro, nel regolamento contrattuale la terrazza di copertura del fabbricato condominiale era attribuita unitamente alla colonna d’aria sovrastante, in esclusiva al proprietario dell’ultimo piano e i residuali diritti dei sottostanti condòmini erano connessi esclusivamente ad interventi di manutenzione e dovevano esercitarsi soltanto attraverso la proprietà esclusiva altrui. Pertanto, la funzione delle scale si configurava nella concretezza dell’uso come essenzialmente proiettata all’accesso alla proprietà singola e, dunque, essendo compatibile l’uso da parte degli altri condòmini con l’uso esclusivo del proprietario dell’ultimo piano, restava inalterata in concreto la destinazione delle scale.
Inoltre, era errata la decisione della Corte d’Appello sulla mancata dimostrazione del difetto di interesse dei condomini avendo sin dal primo grado l’appellante articolato specifici capitoli di prova sul punto e anche sul loro consenso ai lavori. In particolare, la ricorrente richiama le richieste probatorie sul consenso dei condòmini presenti nell’impugnazione in appello, in particolare il consenso della condomina A. che aveva suggerito anche all’appellante di costituire in prosecuzione dell’ultimo pianerottolo, affidando i lavori all’impresa di famiglia o di fiducia della medesima condomina A..
1.2. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Deve premettersi che nel caso all’esame della Corte non è in discussione il fatto che il vano scala o pianerottolo oggetto dell’appropriazione mediante inglobamento nella proprietà della ricorrente sia di proprietà condominiale e che, in ogni caso, ai sensi dell’art 1117 c.c., negli edifici in condominio anche le parti poste concretamente a servizio soltanto di alcune porzioni dello stabile, in assenza di titolo contrario, devono presumersi comuni a tutti i condòmini (Sez. 2, Sent. n. 2800 del 2017).
Ciò di cui si discute è se la suddetta condotta sia compatibile, come ritiene la M.M., con quanto previsto dall’art. 1102 c.c..
La tesi della ricorrente, secondo la quale, l’aver inglobato il vano scale e il pianerottolo di accesso nella propria abitazione non viola il citato art. 1102 c.c. è del tutto destituita di fondamento. L’uso della cosa comune e i lavori per il miglior godimento della stessa ex art. 1102 c.c. non possono mai concretizzarsi nell’appropriazione sostanziale del bene mediante un sostanziale spoglio degli altri comproprietari o condòmini, sicché l’effettuazione di lavori che incorporino nella proprietà individuale parti condominiali quali le scale e il pianerottolo si concretizzano in una turbativa del possesso che legittima il condominio o uno dei singoli condomini alla relativa azione di manutenzione, a nulla rilevando che tali parti comuni siano poste a servizio esclusivo di una porzione dello stabile di proprietà esclusiva.
Deve dunque farsi applicazione del seguente principio di diritto:
«In tema di comunione, l’uso frazionato della cosa a favore di uno dei comproprietari può essere consentito per accordo fra i partecipanti solo se l’utilizzazione, concessa nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 1102 cod. civ., rientri tra quelle cui è destinato il bene e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comunisti, trovando l’utilizzazione da parte di ciascun comproprietario un limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri. Pertanto, qualora la cosa comune sia alterata o addirittura sottratta definitivamente alla possibilità di godimento collettivo nei termini funzionali originariamente praticati, non si rientra più nell’ambito dell’uso frazionato consentito, ma nell’appropriazione di parte della cosa comune, per legittimare la quale è necessario il consenso negoziale di tutti i partecipanti che – trattandosi di beni immobili – deve essere espresso in forma scritta ad substantiam» (Sez. 2, Sent. n. 14694 del 2015).
2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: nullità della decisione per disapplicazione dell’articolo 132 c.p.c. in riferimento all’articolo 360, n. 4, c.p.c. nullità della decisione e violazione articolo 112 c.p.c., in riferimento all’articolo 360, n. 4, c.p.c. o in alternativa violazione e falsa applicazione dell’articolo 2043 c.c. in riferimento all’art. 360, n.3, c.p.c. ed omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in riferimento all’articolo 360, n. 5, c.p.c..
Secondo il ricorrente era circostanza di fatto pacifica e non negata dalle controparti l’esenzione dal contributo per le opere e spese di rifacimento ed impermeabilizzare e per la condomina A. sussisteva anche il lucro del profitto dell’impresa cui erano stati affidati i lavori.
Il nucleo centrale della doglianza consiste nel rilievo della malafede delle controparti o della loro colpa grave ai sensi dell’articolo 2043 c.c. rappresentata dalla complessiva condotta volta ad ottenere una condanna al ripristino dello status quo ante del tratto terminale del vano scala dopo aver espressamente autorizzato e, dunque, permesso l’esecuzione dell’opera e, avendo tra l’altro risparmiato il contributo alle spese di rifacimento di impermeabilizzazione della copertura del vano scala. L’ingiustificata revoca ad un consenso già pienamente manifestato anche se solo in forma verbale comporta una responsabilità aquiliana delle controparti.
Peraltro, la domanda risarcitoria dell’appellante non si fondava solo sulla responsabilità precontrattuale, ma anche su quella ex articolo 2043 c.c. posta a tutela della buona fede e dell’affidamento del principio del neminem laedere.
Si sarebbe determinata, dunque, anche una violazione dell’art. 112 c.p.c. per mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, oltre che una violazione e falsa applicazione dell’articolo 2043 c.c. e un omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti.
2.1 Il secondo motivo di ricorso è fondato.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che: «il consenso verbalmente prestato dal proprietario di un fondo all’esecuzione, da parte del proprietario confinante, di opere che si risolvano in menomazioni di carattere reale per il suo immobile non determina la nascita di servitù, per la mancanza del requisito dell’atto scritto, richiesto dall’art 1350, n. 4, cod. civ.; ma, la prestazione e la successiva revoca del consenso, in relazione alle circostanze in cui si sono verificate, possono concretizzare un fatto illecito, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., per il quale è sufficiente dal punto di vista soggettivo la colpa, senza che sia necessaria la fraudolenza del comportamento di chi aveva prestato e poi revocato il consenso stesso» (sez. 2, sent.
n. 5584 del 1980).
Nella specie la Corte d’Appello non ha fatto corretta applicazione del sopraindicato principio i qualificando il consenso prestato dai controricorrenti quale atto di liberalità per la mancanza di un corrispettivo pattuito, il che, tuttavia, non è sufficiente ad escludere la responsabilità extracontrattuale derivante dall’aver prima dato il consenso all’esecuzione dei lavori e, successivamente all’esecuzione degli stessi, dall’averlo revocato citando in giudizio la M.M..
In tali casi, dunque, non rileva che il consenso ai lavori sia stato espresso senza la forma prescritta dalla legge in quanto ciò che conta è la sussistenza dei presupposti dell’illecito extracontrattuale (fatto illecito colposo o doloso, danno ingiusto e nesso di causalità).
Spetterà dunque alla Corte d’Appello valutare se la condotta dei ricorrenti di revoca del consenso prestato allo svolgimento dei lavori dopo la loro esecuzione, alla luce delle circostanze di fatto proprie del caso di specie, costituisca un illecito extracontrattuale.
3. La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo, cassa e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma che deciderà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo, cassa e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma che deciderà anche sulle spese del giudizio di legittimità.