Per la Cassazione le clausole contrattuali di un atto di compravendita possono derogare al criterio di riparto tra acquirente e venditore delle spese condominiali per lavori straordinari, così come stabilito dalla legge.
Di seguito un estratto dell’ordinanza 18921 dell’11 settembre 2020.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., ord. 11.9.2020,
n. 18921
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1. La Corte di appello di Bologna, con sentenza pubblicata il 22 marzo 2016, ha accolto l’appello proposto da M.C. avverso la sentenza del Tribunale di Bologna n. 3559 del 2009, e nei confronti di P.L..
1.1. Il Tribunale aveva rigettato l’opposizione proposta dalla sig.ra P.L. al decreto ingiuntivo che le intimava di pagare al Condominio di Via …, la somma di lire 19.306.000 a titolo di pagamento di lavori straordinari sulle parti comuni dell’edificio, ed aveva condannato la sig.ra M.C., già proprietaria dell’immobile facente parte del Condominio, a tenere indenne l’opponente P.L. resasi acquirente del medesimo immobile con contratto 20 giugno 2000, preceduto da preliminare in data 10 marzo 2000.
1.2. Il Tribunale aveva ritenuto che la clausola inserita nel contratto di compravendita, secondo cui «gli effetti attivi e passivi decorrono dal 10 marzo 2000 contestualmente al possesso a titolo precario dell’immobile in contratto, libero da persone o da cose [e] da tale data sono a totale carico della parte acquirente tutte le spese condominiali, rimanendo quelle precedenti a carico della parte venditrice», comportasse che tutte le spese condominiali deliberate prima del trasferimento della proprietà, pure se maturate dopo tale data, dovessero rimanere a carico della parte venditrice. Di qui l’accoglimento della domanda di manleva della P.L., che aveva acquistato il 20 giugno 2000, quando le spese in contestazione erano già state deliberate, laddove la diversa interpretazione della clausola avrebbe alterato la causa del contratto, introducendo un elemento di aleatorietà.
2. La Corte d’appello è andata di contrario avviso osservando, innanzitutto, come l’interpretazione fornita dal Tribunale avesse reso la previsione contrattuale inutilmente “ripetitiva” del criterio legale di riparto delle spese condominiali, previsto dall’art. 63 disp. att. cod. civ., nel testo applicabile ratione temporis, antecedente alla riforma del 2012, con il risultato di neutralizzare la regolamentazione pattizia.
2.1. Con la clausola in oggetto, ha osservato la Corte territoriale, le parti avevano inteso far decorrere tutti gli «effetti attivi e passivi» del contratto dalla data del trasferimento del possesso dell’immobile (10 marzo 2000), anticipando quanto sarebbe dovuto avvenire al momento del trasferimento del diritto di proprietà, ed il riferimento alle spese successive al 10 marzo 2000 – senza distinzione tra spese ordinarie e straordinarie nonché tra spese deliberate prima o dopo tale data – era indicativo della volontà di porre a carico dell’acquirente anche le spese divenute esigibili in epoca successiva.
In questa prospettiva, la stessa Corte ha valorizzato il profilo dell’incremento di valore dell’immobile per effetto dei lavori condominiali, la cui deliberazione non poteva non essere nota all’acquirente, senza dire che la delibera posta a base del ricorso monitorio del Condominio era successiva al 10 marzo 2000.
3. P.L. ricorre per la cassazione della sentenza sulla base di un motivo. M.C. resiste con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
1. Con l’unico motivo di ricorso è denunciata violazione o falsa applicazione degli artt. 1351, 1362 e ss. cod. civ., 63, secondo comma, disp. att. cod. civ. (nel testo previgente), in riferimento all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., nonché omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, o «comunque motivazione apparente, con contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili o illogicità manifesta», in riferimento all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ..
1.1. La ricorrente contesta l’interpretazione data dalla Corte d’appello alla clausola (art. 8) contenuta nel contratto di compravendita del 20 giugno 2000, a partire dall’affermazione riguardante l’identità sul punto tra il contratto preliminare ed il definitivo. Era vero, al contrario, che nel contratto definitivo le parti avevano precisato che le spese condominiali precedenti rimanevano a carico della parte venditrice, e ciò non era stato considerato dalla Corte d’appello, in violazione del canone fondamentale secondo cui l’attività ermeneutica deve muovere dal dato letterale.
1.2. Ulteriormente la ricorrente rappresenta che la controparte aveva partecipato alle assemblee condominiali anche successive al 10 marzo 2000, data di trasferimento del possesso dell’immobile, e che la delibera che aveva disposto i lavori straordinari era risalente ad epoca antecedente al 10 marzo 2000.
2. La doglianza è infondata.
2.1. L’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione.
Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato, mentre la denuncia del vizio di motivazione dev’essere effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza.
In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile o la migliore in astratto, sicché quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (omissis).
2.2. Nel caso in esame, la Corte d’appello ha attribuito alla clausola contrattuale relativa al riparto delle spese condominiali uno dei possibili significati, e cioè che il riferimento alle spese condominiali dal 10 marzo 2000 senza distinzione tra ordinarie e straordinarie comportava che l’acquirente si facesse carico di tutte le spese maturate dopo tale data.
In senso contrario non è utilmente invocabile il criterio legale previsto dall’art. 63 disp att. cod. civ. nel testo previgente, in forza del quale il momento di insorgenza dell’obbligo di partecipazione alla spesa straordinaria coincide con quello di approvazione della relativa delibera assembleare.
Si tratta di criterio che trova applicazione nei rapporti interni tra venditore e compratore se gli stessi non si siano diversamente accordati (ex plurimis, Cass. 22/06/2017, n. 15547; Cass. 02/05/2013, n. 10235; Cass. 03/12/2010, n. 24654).
2.3. Non è configurabile il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, che la ricorrente individua nella previsione, aggiunta nel contratto definitivo, in forza della quale le spese precedenti alla data del 10 marzo 2000 rimanevano a carico della parte venditrice.
La denunciata omissione non riguarda un fatto storico naturalistico ma un profilo giuridico, e perciò non rientra nel paradigma delineato dall’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. come interpretato dalla giurisprudenza costante di questa Corte regolatrice (a partire da Cass. Sez. U. 07/04/2014, n. 8053), mentre è evidente, alla luce della plausibilità dell’interpretazione resa dalla Corte d’appello, la manifesta infondatezza della censura di motivazione apparente, ovvero di contrasto irriducibile tra affermazioni incompatibili o ancora di illogicità manifesta.
(omissis)
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi 3.200, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge.