Nel caso di infiltrazioni che, provenendo da parti comuni, danneggino unità immobiliari private, il condominio è tenuto a risarcire anche il “lucro cessante”, cioè i danni subiti per la mancata locazione dei locali. Secondo la Cassazione, infatti, il danno subito dal proprietario è in re ipsa, discendendo dalla mancata libera disponibilità del bene, e dalla impossibilità di conseguire integralmente l’utilità da esso ricavabile.
Di seguito un estratto dell’ordinanza di Cassazione numero 21835 del 9 ottobre 2020.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., ord. 9.10.2020,
n. 21835
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L.G. e S.S. convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Palermo il Condominio di Via …, esponendo di essere proprietari di due locali cantinati contigui, siti nello stabile condominiale, e che in detti immobili si erano verificate infiltrazioni provenienti da parti condominiali, con conseguenze dannose.
Chiedevano, dunque, la condanna del convenuto al risarcimento dei danni subiti per la mancata locazione di uno dei due locali seminterrati, a far data dal gennaio 2002, e ad eseguire a regola d’arte i lavori necessari a rimuovere definitivamente le cause dei lamentati danni, oltre al ripristino delle parti danneggiate all’interno dei loro immobili.
Il Condominio, eccepita la propria carenza di legittimazione, dovuta al fatto che i danni provenivano da porzioni di esclusiva proprietà dei singoli condòmini, eccepiva altresì la prescrizione dell’azione per il loro risarcimento.
Con sentenza del 12/05/2009, il Tribunale dichiarava che i danni subiti dagli attori all’interno dei loro immobili erano imputabili al Condominio convenuto, e condannava quest’ultimo al ripristino, a regola d’arte, di tutte le parti danneggiate all’interno dei medesimi ed al pagamento della somma di euro 334,53 mensili, a far data dal gennaio 2002, oltre a rivalutazione degli interessi legali dalle singole scadenze al soddisfo, oltre alla refusione delle spese di lite.
Contro tale decisione, proponeva gravame il Condominio convenuto davanti alla Corte d’appello di Palermo e resistevano gli attori, ciascuno concludendo come in atti.
Con sentenza n. …, la Corte distrettuale, in parziale accoglimento dell’appello, rigettava la domanda di risarcimento del danno da lucro cessante proposta dagli appellati, condannando il Condominio a rifondere ai medesimi la metà delle spese di primo grado e la metà delle spese di Ctu, compensando la restante metà.
Avverso la sentenza, L.G. e S.S. propongono ricorso in cassazione sulla base di tre motivi, illustrati da memoria; resiste il Condominio con controricorso e memoria.
1.1. Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano l’«omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5 c.p.c)», là dove la Corte distrettuale avrebbe del tutto omesso, ai fini della decisione, la valutazione dello stato di fatto dell’immobile de quo ovvero della inidoneità o meno dell’immobile medesimo a qualsiasi utilizzo.
(omissis)
1.3. Con il terzo motivo, i ricorrenti deducono la «violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 n. 3 c.p.c.) in relazione agli artt. 2043 e 2056 in relazione agli artt. 1223 e 1226 c.c. e 115 c.p.c.», in quanto la Corte di merito, negando il risarcimento dei danni per carenza di prova, ha negato la sussistenza del danno in re ipsa derivante dalla perdita della disponibilità del bene in relazione alla natura formalmente fruttifera di esso, da liquidarsi sulla base di elementi presuntivi semplici con riferimento al c.d. danno figurativo cioè al valore locativo del bene.
(omissis)
3. In considerazione della loro connessione logico giuridica, i motivi primo e terzo vanno esaminati e decisi congiuntamente.
3.1. Essi sono fondati.
3.2. Questa Corte ha affermato che, nella ipotesi di occupazione sine titulo di un cespite immobiliare altrui [id est infiltrazioni di acqua derivanti da parte comune di edificio condominiale, come nella specie] il danno subito dal proprietario per l’indisponibilità del medesimo può definirsi in re ipsa, purché inteso in senso descrittivo, cioè di normale inerenza del pregiudizio all’impossibilità stessa di disporre del bene, senza comunque far venir meno l’onere per l’attore quanto meno di allegare, e anche di provare, con l’ausilio delle presunzioni, il fatto da cui discende il lamentato pregiudizio, ossia che se egli avesse immediatamente recuperato la disponibilità dell’immobile, l’avrebbe subito impiegato per finalità produttive, quali il suo godimento diretto o la sua locazione (Cass. n. 25898 del 2016; cfr. Cass., sez. un., n. 15238 del 2008).
Da tale pronuncia si trae il principio, condiviso dal Collegio, secondo cui (così come nel caso di occupazione illegittima di immobile, ovvero di limitazione abusiva dell’esercizio del diritto di proprietà) il danno subito dal proprietario è in re ipsa, discendendo dalla mancata libera disponibilità del bene, e dalla impossibilità di conseguire integralmente l’utilità da esso ricavabile (ex plurimis, Cass. n. 21239 del 2018; Cass. n. 20545 del 2018; Cass. n. 12630 del 2019; Cass. n. 20708 del 2019).
La Corte territoriale ha, viceversa, confuso e sovrapposto la mancata prova dei tentativi di locare l’immobile, con il diverso fatto della oggettiva inidoneità dell’immobile a qualsiasi utilizzazione [primo motivo]; ed ha erroneamente negato la sussistenza di un danno in re ipsa sulla base di indici presuntivi e della natura fruttifera del bene, con riferimento al valore locativo del bene medesimo [terzo motivo].
4. Rigettato il secondo motivo, vanno accolti il primo ed il terzo; la sentenza impugnata va cassata e rinviata alla Corte d’appello di Palermo, altra sezione, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
La Corte accoglie il motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Palermo, altra sezione, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.