La sentenza numero 2640 del 12 aprile 2023, con la quale la Corte d’Appello di Roma ha integralmente confermato la decisione del Tribunale di Civitavecchia, che aveva ritenuto non condivisibili le doglianze avanzate dall’attrice, circa la (presuntivamente) illegittima occupazione della maggior parte del tetto condominiale ad opera della convenuta (vittoriosa in entrambi i gradi di giudizio), mediante l’installazione di pannelli fotovoltaici ad uso privato occupanti la maggior parte del tetto, ripropone all’attenzione dell’interprete la rilevante (e ricorrente) questione afferente al più intenso godimento che il singolo possa trarre dalla proprietà comune, e dei limiti che a detta facoltà possono derivare, oltre che dalla disciplina codicistica, dall’eventuale sussistenza di previsioni espresse contenute nel regolamento condominiale, che abbiano natura contrattuale.
La decisione della Corte distrettuale capitolina
La difesa svolta dall’istante, tanto in Tribunale che innanzi al giudice d’appello, aveva posto a fondamento delle proprie tesi due elementi centrali, ossia la necessità della preventiva comunicazione all’assemblea dei condòmini da parte del (com)proprietario che aveva proceduto all’installazione del fotovoltaico, e l’avvenuta indebita occupazione della quasi totalità della superficie disponibile sulla copertura dello stabile condominiale, che avrebbe irrimediabilmente compromesso il diritto degli altri appartenenti alla compagine condominiale.
La Corte distrettuale, con argomentazioni puntuali e piuttosto articolate, ha disatteso sia l’una che l’altra doglianza osservando, quanto alla prima, che, ai sensi dell’articolo 1122 bis del codice civile, la preventiva comunicazione all’assemblea, nel caso di installazione di impianto privato destinato alla produzione di energia da fonti rinnovabili è necessaria solo laddove l’opera modifichi le parti comuni, e, quanto alla seconda, che nessuna compromissione del diritto degli altri condòmini a trarre dal tetto la medesima utilità si era concretamente provata, limitandosi, piuttosto, la parte soccombente, ad allegare (e non a documentare), attraverso una mera prospettazione di principio, assolutamente svincolata da riferimenti concreti, la semplice possibilità di una futura, eventuale, medesima determinazione degli altri comproprietari, di per sé inidonea ad integrare gli estremi dell’interesse concreto meritevole di tutela.
Appello rigettato, dunque, sentenza di primo grado confermata e riconoscimento del diritto del singolo a trarre dal bene comune un vantaggio esclusivo.
La posizione della dottrina e della giurisprudenza sul concetto di pari uso della cosa comune
I rilievi sollevati dalla Corte d’Appello di Roma, per complessità e ricorrenza nella prassi condominiale quotidiana, necessitano di un approfondimento che dovrà trarre spunto dalla lettura del testo dell’articolo 1102 del codice civile, oltre che dall’analisi delle posizioni assunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza, nel corso degli anni.
La norma in commento, al primo comma, stabilisce che: “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa.”
Com’è del tutto evidente, l’articolo fissa alla libertà del singolo di usare la cosa comune due limiti ben precisi (cui si aggiungono quelli previsti, in relazione alle innovazioni, dall’articolo 1120 del codice civile, quali il rispetto della stabilità, della sicurezza e del decoro architettonico dell’edificio, sui quali non ci soffermeremo per ragioni di sintesi): uno di carattere oggettivo, ossia la destinazione, afferente alla specificità della res, avente lo scopo precipuo di evitare che la funzione della proprietà comune possa essere distolta da quella sua propria, ed uno di carattere soggettivo, vale a dire il principio del (rispetto del) pari uso da parte degli altri condòmini, riferibile all’obbligo del singolo di non alterare in alcun modo il diritto degli altri di trarre dalla cosa la medesima utilità, in base all’uguale diritto di comproprietà, di cui pure sono contitolari con l’agente (Branca G.).
Si tratta, come osservato dalla migliore dottrina (Celeste A.), di due condizioni negative e paritarie in quanto, affinché l’uso della cosa comune effettuato dal singolo possa ritenersi conforme al dettato dell’articolo 1102 del codice civile e, dunque, legittimo, entrambe presuppongono un non facere (ossia l’assunzione di un contegno negativo da parte dell’interessato, che deve non realizzare le condotte tipizzate dalla norma) ed entrambe hanno la stessa dignità, nel senso che il mancato rispetto di una sola delle due, rende l’esercizio del diritto eccedente il dettato codicistico e, per questo, non consentito (Corte di Cassazione, n. 10013/91).
Il rispetto di tali condizioni, che permette di considerare come leciti sia l’uso più intenso della cosa comune da parte del singolo, sia le modificazioni che a proprie spese della stessa vengano realizzate, è affidato dal Legislatore al giudice del merito, che vi provvede con valutazione che, ove congruamente ed adeguatamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità (Corte di Cassazione, n. 19215/2011).
Quanto alla prima delle due condizioni in oggetto (il rispetto della destinazione propria della cosa comune, da parte dell’agente), traendo spunto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (Corte di Cassazione, 17556/2014; 14107/2012), occorre preliminarmente specificare che per destinazione della proprietà comune può aversi riguardo sia ad una definizione oggettiva, cioè a quella finalità propria, connaturata ed intrinseca al tipo di bene che il singolo utilizza (ad esempio, la funzione di copertura di un lastrico solare), sia ad una definizione soggettiva, cioè alla funzione impressa al bene comune, espressamente e direttamente, dai condòmini (anche in epoca successiva alla costruzione dell’edificio), o mediante una deliberazione assembleare, o mediante il regolamento di condominio avente natura contrattuale o anche tacitamente, considerando, in tal caso, nel loro complesso, tutti gli elementi dai quali sia possibile desumere che al bene sia stata data una certa destinazione, piuttosto che un’altra (pensiamo, ad esempio, ad una clausola regolamentare che imponga l’uso abitativo dei singoli appartamenti, escludendone l’utilizzazione commerciale).
Ovviamente, sottolinea la dottrina, alterare la destinazione della cosa comune vuol dire apportare in concreto alla stessa non ogni modifica, ma solo quelle modificazioni che rendano impossibile, ovvero pregiudichino fortemente, la sua fruizione ledendo la funzione in maniera essenziale, mentre non è vietato aggiungere alla destinazione originaria della cosa, l’utilità particolare che il singolo tragga per sé dall’uso più intenso della proprietà comune (De Tilla M., Celeste A.).
La dottrina maggioritaria, naturalmente, fa riferimento alla funzione che il bene ha all’attualità, ossia in concreto, ovvero nel momento in cui viene realizzata la condotta che la limita o la pregiudica (Bianca C.)
In altre parole, la condotta dell’interessato, per configurarsi come illecita, deve essere del tutto incompatibile e non cumulabile con l’utilità che la cosa comune, sulla quale quest’ultimo agisce a proprio vantaggio, ordinariamente offre, secondo la sua propria destinazione, all’intera (restante) compagine condominiale; l’una (l’utilità del singolo) deve elidere l’altra (utilità propria del bene, per gli altri condòmini).
Quanto, invece, alla seconda delle condizioni poste dalla norma (vale a dire, il rispetto del diritto degli altri condòmini di farne pari uso della cosa comune), occorre specificare il significato dell’espressione in oggetto.
La nozione di pari uso in commento dev’essere intesa, come osserva la dottrina dominante (Bianca C., De Tilla M., Celeste A.), non nel senso di uso identico e contemporaneo, posto che, se così fosse, si dovrebbe dedurre l’impossibilità giuridica e materiale di ogni modificazione lecita, ma, piuttosto, deve intendersi come (rispetto dell’altrui) uso potenziale.
Il che equivale ad affermare che, laddove sia ragionevole presumere e prevedere che gli altri condòmini non abbiano un interesse concreto e rilevante a fare delle cosa comune il medesimo utilizzo, l’uso più intenso, e, dunque la modificazione apportata dal singolo, devono ritenersi senz’altro legittimi (Corte di Cassazione, n. 24295/2014).
I limiti eventuali contenuti nel regolamento condominiale
A quanto sin qui sostenuto, e senza pretesa alcuna di esaustività in relazione ad una materia che meriterebbe ben altro approfondimento, dobbiamo aggiungere alcune considerazioni ulteriori in relazione ai divieti che rispetto alle modificazioni della cosa comune, conseguenti all’uso più intenso da parte del singolo, ben potrebbero essere contenuti in un regolamento condominiale di natura contrattuale (ossia predisposto dal costruttore ed allegato si singoli atti di vendita, ovvero approvato in sede assembleare dall’unanimità dei condòmini).
Al riguardo, risulta illuminante un passaggio di una pronuncia della Suprema Corte che ben chiarisce e circoscrive i termini della questione: “(…) in materia di condominio di edifici, l’autonomia privata consente alle parti di stipulare convenzioni che pongano limitazioni, nell’interesse comune, ai diritti dei condòmini, sia relativamente alle parti comuni, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale sulle parti di loro esclusiva proprietà (…). Ne discende che legittimamente le norme di un regolamento di condominio – aventi natura contrattuale, in quanto predisposte dall’unico originario proprietario dell’edificio ed accettate con i singoli atti di acquisto dai condòmini ovvero adottate in sede assembleare con il consenso unanime di tutti i condòmini – possono derogare od integrare la disciplina legale ed in particolare possono dare del concetto di decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall’art. 1120 cod. civ., estendendo il divieto di immutazione sino ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all’estetica, all’aspetto generale dell’edificio, quali esistenti nel momento della sua costruzione od in quello della manifestazione negoziale successiva.” (Corte di Cassazione, n. 1748/2013)
Si evince in maniera inequivoca dalla pronuncia in commento che, in presenza di una simile disposizione, contenuta in un regolamento condominiale di natura contrattuale, al singolo sarebbe precluso ogni tipo di intervento, implicante una sia pur minima modifica (o innovazione) dell’originaria struttura dell’edificio.
La distinzione tra modificazione ed innovazione secondo la Cassazione
Per completezza espositiva, premettendo di non voler in alcun modo approfondire in questa sede la complessa disciplina delle innovazioni, pare opportuno evidenziare la distinzione tecnica e giuridica che sussiste tra queste ultime e le modificazioni che, nell’ottica di una corretta lettura dell’articolo 1102 del codice civile, possono ritenersi legittime e compatibili con l’altrui diritto dominicale sulla proprietà comune.
Soccorre, al riguardo, la giurisprudenza della Cassazione, dalla quale ricaviamo che le innovazioni di cui all’art. 1120 del codice civile si differenziano dalle modificazioni disciplinate dall’art. 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo, in quanto: “…sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne, poi, l’aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui perseguimento sono rivolte (ex multis, Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20712; Cass. Sez. 6 – 2, 03/02/2022, n. 3440)…”. (Corte di Cassazione, Ordinanza n. 36389 del 13 dicembre 2022)
Avv. Roberto Rizzo, Membro del Centro Studi di GESTIRE