Con una recentissima pronuncia, la sentenza numero 31700 del 20 luglio 2023, la quinta sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha fissato un principio cardine, data la frequente ricorrenza nella pratica quotidiana, in materia di occupazione, in generale, e di parcheggio, più nello specifico, delle corti condominiali, che non siano stati autorizzati, o comunque disciplinati dai condòmini, attraverso apposita delibera assembleare, o espressa previsione contenuta nel regolamento condominiale, o che, addirittura, siano dagli stessi non tollerati.
Ad avviso del Supremo Collegio, infatti, i cortili destinati al servizio ed al completamento dei locali di abitazione, rientrano senza dubbio alcuno nel concetto di “appartenenza” di cui al primo comma dell’articolo 614 del codice penale, ed è irrilevante, ai fini della sussistenza e della configurabilità della fattispecie di reato prevista e disciplinata da detta norma, la circostanza per la quale le pertinenze in questione siano di uso comune a più abitazioni, spettando il diritto di escludere i terzi da questi luoghi ad ognuno dei proprietari delle singole unità immobiliari servite.
Ne consegue che commette reato di violazione di domicilio chi s’introduca, contro la volontà di chi ha diritto di escluderlo, nel cortile dell’edificio condominiale, rientrando tale spazio comune nel concetto di “appartenenza” dell’abitazione.
Ricordiamo, infatti, per completezza espositiva che, ai sensi dell’articolo 614 del codice penale: “Chiunque s’introduce nell’abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi s’introduce clandestinamente o con l’inganno, è punito con la reclusione (…)”.
La vicenda processuale
La vertenza trae origine dal ricorso proposto da un professionista, titolare dello studio condotto in locazione all’interno di uno stabile in condominio, per la cassazione della sentenza del 12 aprile 2022 con la quale la Corte d’Appello di Napoli, confermando la decisione di primo grado, lo aveva condannato per i reati di occupazione prolungata di spazio condominiale adibito a parcheggio e di violazione di domicilio.
In particolare, l’istante, oltre che contestare l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione della pronuncia della corte distrettuale, basata, ad avviso del ricorrente, su un’errata valutazione delle risultanze delle prove testimoniali, aveva sostenuto un’illegittima applicazione della legge penale, in quanto, proprio in relazione al reato di cui all’articolo 614 del codice penale non era possibile qualificare come violazione di domicilio l’occupazione di un’area condominiale antistante l’edificio, posto che detta area non era assolutamente configurabile come abitazione o dimora della vittima della condotta illecita.
A sostegno delle proprie tesi, poi, il ricorrente aggiungeva l’ulteriore censura consistente nell’errata qualificazione giuridica della corte comune come pertinenza degli immobili privati, operata dalla Corte d’Appello partenopea, atteso che, nel caso di specie, si trattava di un’ampia area paragonabile ad una piazza alla quale accedevano liberamente soggetti diversi dai condòmini, esistendo, all’interno della stessa, ben due scuole ed un numero indefinito di fruitori.
Non poteva, dunque, affermarsi, proprio per le caratteristiche strutturali dei luoghi, neppure che vi fosse stata violazione della vita domestica dei soggetti direttamente interessati, non essendo l’area oggetto della supposta indebita occupazione neanche identificabile, ad avviso dell’istante, come adibita all’esplicazione di attività riservate ai residenti.
La decisione della Suprema Corte
La Cassazione, censurando integralmente le tesi difensive della parte, ha ritenuto il ricorso manifestamente inammissibile, per le seguenti, logiche e consequenziali, osservazioni in punto di diritto.
La sentenza di secondo grado, ad avviso del massimo Collegio, ha dedicato ampio ed esauriente spazio alle considerazioni giuridiche relative alla situazione di fatto emersa nel caso di specie, evidenziando come l’area parcheggio in questione fosse da ritenere a tutti gli effetti pertinenza del condominio e rientrasse, pertanto, nel concetto di privata dimora tutelato dalla disposizione di cui all’articolo 614 del codice penale, che non richiede la disponibilità esclusiva del proprietario, ai fini della configurabilità della condotta illecita, ma, piuttosto, che si tratti di luogo non aperto al pubblico, ossia a chiunque, ovvero che si tratti di luogo che, come nel caso sottoposto ad analisi, non sia accessibile a terzi senza il consenso del titolare.
L’impostazione seguita nella sentenza impugnata, inoltre, è perfettamente conforme con i precedenti giurisprudenziali della Corte di Cassazione che, a Sezioni Unite, ha affermato che, ai fini della sussistenza del reato previsto dall’articolo 614 del codice penale, rientrano nella nozione di privata dimora i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi, senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 31345/2017).
Inoltre, ha osservato la Cassazione, i cortili destinati al servizio ed al completamento dei locali di abitazione rientrano nel concetto di appartenenza richiamato nel primo comma della norma in commento, essendo irrilevante, ai fini della sussistenza del reato di violazione di domicilio, che le “appartenenze” siano di uso comune a più abitazioni, in quanto il diritto di esclusione da quei luoghi spetta a ciascuno dei titolari delle singole proprietà servite (Corte di Cassazione, sentenza n. 7279/1978).
Per questi motivi, non vi può essere dubbio che commette reato di violazione di domicilio chi si introduce, contro la volontà di chi ha diritto di escluderlo, nel cortile dell’edificio condominiale, rientrando il predetto cortile nell’ambito di operatività della nozione di “appartenenza” dell’abitazione (Corte di Cassazione, sentenza n. 7470/1974).
Ricorso rigettato, dunque, in quanto inammissibile e condanna dell’incauto ricorrente al pagamento delle spese processuali e dell’ulteriore somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
a cura dell’Avv. Roberto Rizzo, Membro del Centro Studi di GESTIRE
04.08.2023_Corte di Cassazione_V Sezione Penale_Sentenza n. 31700 del 20 luglio 2023