È elevato il gap infrastrutturale del settore idrico italiano rispetto al contesto europeo. In base all’analisi del Blue Book – lo studio sui dati del servizio idrico promosso da Utilitalia e realizzato dalla Fondazione Utilitatis con il contributo della Cassa depositi e prestiti – su 54 gestori ed una popolazione di 31 milioni di abitanti, gli acquedotti sono in gran parte vecchi. Le reti presentano infatti un elevato grado di vetustà, tanto che il 60% delle infrastrutture è stato messo in posa oltre 30 anni fa (percentuale che sale al 70% nei grandi centri urbani); il 25% di queste supera i 50 anni (arrivando al 40% nei grandi centri urbani). Le perdite delle reti acquedottistiche hanno percentuali differenziate: al Nord ci si attesta al 26%, al Centro al 46% e al Sud al 45%.
“Il Blue Book esamina la centralità de servizio idrico – osserva il presidente di Utilitatis Federico Testa – sia dal punto di vista dei servizi sia da quello delle opportunità di investimento. È necessario superare una fase artigianale e cominciare a ragionare della sostenibilità degli investimenti e della strategicità dei finanziamenti”.
In quest’ottica, la logica di settore deve guardare alla qualità del servizio offerto all’utente finale. A rimarcarlo è il presidente di Utilitalia, Giovanni Valotti: “Per migliorare, occorre investire sulla qualità delle infrastrutture. Dopo un periodo di forte flessione che ha avuto il suo picco nel 2012, dal 2014, i finanziamenti hanno ripreso a partire, almeno un po’. Questo è tanto più vero quanto più i gestori dei vari ambiti sono costituiti a livello industriale ed è tanto meno vero dove le gestioni sono ancora in economia. Nel Paese ce ne sono in oltre 2.000 Comuni. Possiamo essere contenti del fatto che si sia ripartiti ma non è sufficiente. Servono investimenti per 5 miliardi all’anno, cifra che sarebbe il minimo necessario per coprire il fabbisogno di infrastrutture del nostro Paese. Siamo a meno della metà. Se vogliamo cambiare marcia e modernizzare il settore, credo dovremmo pensare ad un adeguamento graduale della tariffa facendo attenzione a tutelare le fasce deboli della popolazione”.
LE INFRAZIONI
Alla vetustà delle reti e alla necessità di investimenti sugli acquedotti per limitare le perdite, si collega l’argomento prioritario: il fabbisogno di investimenti sulla “depurazione delle acque reflue”. Circa l’11% dei cittadini, infatti, non è ancora raggiunto dal servizio di depurazione. La conseguenza – oltre ad incalcolabili danni per l’ambiente e la qualità delle acque marine e di superficie – è nelle sanzioni europee comminate all’Italia, colpevole di ritardi nell’applicazione delle regole sul trattamento delle acque. I dettagli sono nel capitolo 5 del Blue Book, che fa riferimento ai tre contenziosi che la Commissione UE ha avviato nei confronti dell’Italia, per mancati adempimenti alla direttiva 91/271/UE. Due condanne da parte della Corte di Giustizia Europea (la C565-10 e la C85-13) e l’avvio di una nuova procedura di infrazione (Procedura 2014-2059). (SEGUE ). Complessivamente – con gravità diverse e relative sanzioni differenziate – sono colpiti 931 agglomerati urbani.
INVESTIMENTI
Di fronte a queste urgenze, gli investimenti programmati nel primo periodo regolatorio (2014-2017), si attestano su un valore medio nazionale di circa 32 euro per abitante all’anno. Se ai 32 euro programmati sulla base delle “tariffe” si aggiunge la quota di contributi e fondi pubblici, si può arrivare a 41 euro/abitante/anno. Dato ben lontano dagli 80 euro per abitante che sarebbero necessari a coprire un fabbisogno totale di investimenti stimato in circa 5 miliardi all’anno. Dato ancor più grave se si pensa che al sud le disponibilità si dimezzano a fronte di una concentrazione di sanzioni e di ritardi per la depurazione.
Ma su che cosa si potrebbero reggere gli investimenti necessari? Stando al report, “Non certo sull’intervento pubblico, considerando lo stato delle finanze italiane, ma sulle politiche tariffarie full cost recovery applicate in tutta Europa”.
LE TARIFFE
Sul fronte tariffario, peraltro, (a dispetto dei rincari registrati nel corso degli ultimi anni, ndr.) l’Italia resta ancora uno dei Paesi con livelli tariffari più bassi. Nei confronti internazionali riportati nel Blue Book, lo stesso metro cubo di acqua che a Berlino costa 6,03 dollari, ad Oslo 5,06 dollari, a Parigi 3,91 e a Londra 3,66 dollari, a Roma si paga soltanto 1 dollaro e 35 centesimi. Nel livello tariffario idrico l’Italia è seconda soltanto ad Atene e a Mosca.
Ancora troppo elevato, infine, il numero delle gestioni in economia. Nonostante le aggregazioni e la razionalizzazione avviata fin dagli anni ’90 con la Legge Galli e nonostante nascita di soggetti industriali solidi, operanti in più regioni, resta il dato che oltre 10,5 milioni di abitanti sono serviti da 2.098 gestioni in economia. Il che significa che ciascuno supera di poco i 4700 abitanti serviti, con evidenti ripercussioni in termini di economie di scala e capacità di investimenti e di programmazione. Difficile – senza una gestione di tipo industriale e dimensioni adeguate – verificare fenomeni di abusivismo e morosità ed adottare misure di tutela delle fasce deboli della popolazione.
Dall’analisi della spesa delle famiglie, che ha interessato 58 bacini tariffari e 34 milioni di abitanti, emerge che oltre il 70% dei cittadini del panel può beneficiare di tariffe agevolate per i consumi entro i 100 mc. “Gli investimenti sono aumentati e anche l’aggregazione finalmente sta funzionando. Dovremmo aver ridotto di circa 500 gli operatori passando da 2600 a 2100 – conclude Alberto Biancardi, componente dell’Autorità per l’energia elettrica il gas e il sistema idrico -. Il sistema sta funzionando, sia per gli incentivi messi in campo sia forse per la difficoltà di operare in un contesto che è cambiato. La vera di chiave di volta sta nella consapevolezza che noi dobbiamo essere in grado di offrire ai cittadini spiegandogli dove vengono messi i soldi. E poi, naturalmente, capire dove sono urgenze e intervenire con soluzioni partecipate”.