A Cura di: Vincenzo Acunto, Amministratore Delegato di Unicasa Italia S.p.A.
Ho letto con grande curiosità nelle ultime settimane la concreta possibilità da parte di un “amministratore Spa” di quotarsi in borsa, intraprendendo un percorso che porterà – se realizzato – inevitabilmente ad uno strappo metodologico e culturale di notevole impatto.
Non si tratta di auspicare l’avvento dell’amministratore “imprenditore” per accelerare un processo di alfabetizzazione dei condòmini/consumatori finali, io per primo ho spesso ipotizzato un’evoluzione dell’amministratore in una figura professionale che non si limiti alla sola gestione delle parti comuni, ma che curi e gestisca i bisogni dei così detti “tenant”, i condòmini del futuro, o meglio del presente (pensando al post covid); coloro che hanno sempre più la necessità di ricevere servizi allo spazio, alla proprietà esclusiva ed alla persona, subito; in tempo reale ed in modalità “smart”.
Ma questo futuro prossimo deve fare necessariamente i conti con la peculiarità del mercato italiano che, escludendo le 4 o 5 città metropolitane è fatto prevalentemente di provincia e di condomini poco numerosi che prediligono un rapporto fiduciario e personale con l’amministratore (persona fisica) pur se appartenente ad una struttura societaria o ad un network.
In pratica il condòmino italiano non rinuncia all’efficienza dell’organizzazione, all’efficacia del pronto intervento, alla serenità del call center h24, ma vuole comunque avere la possibilità di interfacciarsi con un interlocutore in carne ed ossa che conosce le sue peculiarità, le sue abitudini, i suoi bisogni.
E’ lo stesso concetto che ritroviamo in medicina. Va bene le strutture diagnostiche, va bene lo specialista al bisogno, ma il medico di famiglia sa’ come sono fatto e mi conosce da ragazzino per fare il meglio per me.
Non si tratta di salvaguardare – come la foca monaca – dall’estinzione certa l’amministratore “chioccia” – come è stato definito di recente l’amministratore tradizionale – ma di attuare quel giusto mix tra un’impostazione tradizionale appunto, dove il condòmino ha un rapporto fiduciario, diretto e frequente con l’amministratore e quella più evoluta con un rapporto più asettico ma che predilige risultati di gestione efficiente e soprattutto la valorizzazione dell’immobile.
Il connubio perfetto tra buidling e facility management, problem solving, standardizzazione dei servizi e rapporto fiduciario è senza dubbio il franchising. Sarò di parte ma con questo modello si garantisce efficienza organizzativa, servizi efficaci, affidabilità, multidisciplinarietà, informatizzazione delle attività da un lato e personalizzazione, problem solving, interfacciamento unico, rapporti fidelizzati dall’altro lato.
Nulla di diverso dai modelli francesi o spagnoli, perché la certificazione di qualità è assicurata dalla normativa UNI in tutta Europa, la formazione abilitativa e continua è ormai consolidata in tutto il settore e la legge 220/12, ha ben specificato i requisiti di natura soggettiva e oggettiva che deve possedere l’amministratore di condominio (persona fisica) sia esso appartenente ad un network che ad una società di capitali o che eserciti come libero professionista.
Neanche tra i punti di forza ci sono grandi differenze tra l’amministratore imprenditore ed il network in franchising di amministratori. Ad esempio la capacità di negoziazione con i fornitori in funzione dei volumi gestiti determina condizioni privilegiate a beneficio dei condòmini, così come il processo di monitoraggio maniacale dei loro adempimenti genera un’ottima capacità di risposta finanziaria nei confronti dei fornitori. Ma entrambi gli aspetti sono realizzati con la medesima efficacia dalle due tipologie di gestione.
In Italia tutti auspicano l’arrivo di competitor, società energetiche, banche ed assicurazioni che timidamente si stanno approcciando al mondo delle amministrazioni condominiali per arrivare al “consumatore finale”, ma nessuno conosce i tempi di realizzazione di tale scenario né se l’impatto che tale ingresso avrà sull’intero mercato italiano sarà così impattante. Per ora le previsioni sono del tutto infondate.
Su una cosa però sono seriamente preoccupato: la diffidenza “italica” degli amministratori a fare gruppo, a fare network, per evolvere il mercato e la clientela in scenari più redditizi per tutti. Molti rinviano al domani quello che può essere fatto oggi con la filosofia del “domani è un altro giorno …… e ….. qualcun altro vedrà”
Pensare di limitarsi – oggi – a risolvere il problema contingente non basta più, esiste una necessità di riscontrare servizi aggiuntivi, legati non solo al “building”, ma anche allo spazio che lo circonda ed ai servizi alla persona. E’ un processo di evoluzione dei condòmini/consumatori finali che danno ormai per scontato i classici doveri dell’amministratore previsti dal codice civile e puntano ad avere un unico collettore di servizi magari fruibili in formato “smart”. L’attenzione sarà sempre più rivolta a vivibilità, sostenibilità, qualità della vita; in una parola il “Tenant Management”, cioè la gestione del condòmino “persona” e non del condòmino “proprietario”.
In conclusione, ben vengano le quotazioni di “società amministratori di condominio”, è sicuramente un’evoluzione del mercato, ma attenzione alla peculiarità del mercato italiano ed alla cultura degli stessi italiani, poco adatti alla standardizzazione in senso stretto ed alla massima spersonalizzazione. Lo sanno bene gli investitori istituzionali e le società di gestione del risparmio che in 25 anni hanno creato il mercato del “property management” lo hanno reso maturo ed oggi è praticamente senza alcun valore aggiunto nella gestione integrata di un immobile proprio perché carente nella prestazione al “tenant”.