SANZIONI PER LOCAZIONI NON REGISTRATE: CONFERMATA NUOVAMENTE L’INCOSTITUZIONALITÀ
La Consulta ha bocciato per la seconda volta la norma che, per sanzionare i contratti di locazione non registrati nei termini, imponeva il valore catastale come base per la determinazione del canone. La discussa disposizione, già dichiarata costituzionalmente illegittima da una precedente pronuncia era stata poi reiterata dal Governo che ne aveva prorogato la vigenza fino al 31 dicembre 2015.
Proprio per questa ragione la Consulta, con la sentenza che pubblichiamo di seguito,, ha nuovamente bocciato il provvedimento, in questo caso per la violazione dell’art. 136 Cost. il quale dispone che le norme dichiarate costituzionalmente illegittime cessano di “avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.
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CORTE COSTITUZIONALE
Sent. n. 169/2015
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(omissis)
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con due ordinanze di analogo contenuto, il Tribunale ordinario di Napoli, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 42, secondo comma, e 136 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 23 maggio 2014, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47, recante misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015) [recte: dell’art.5, comma 1-ter, del decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47 (Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015) convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 maggio 2014, n. 80 – come aggiunto dall’Allegato alla legge di conversione], secondo cui «Sono fatti salvi, fino alla data del 31 dicembre 2015, gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dei contratti di locazione registrati ai sensi dell’art. 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23».
Dopo aver affermato l’applicabilità, ai procedimenti di convalida di sfratto oggetto dei giudizi a quibus, della disciplina di cui all’art. 3, commi 8 e 9, del citato d. lgs. n. 23 del 2011 – dichiarati costituzionalmente illegittimi, per eccesso di delega, con la sentenza n. 50 del 2014, depositata il 14 marzo 2014 -, il Giudice rimettente censura la circostanza che, successivamente alla richiamata declaratoria di illegittimità costituzionale, il legislatore, con la disposizione denunciata, abbia introdotto la previsione di salvezza dei rapporti in corso sino al 31 dicembre 2015 «con la precipua finalità di garantire una sorta di ultrattività» di disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime.
La disposizione censurata si porrebbe, dunque, in contrasto, anzitutto con l’art. 136 Cost., in quanto il legislatore avrebbe inteso non già introdurre una norma riproduttiva di quella precedente, ma solo enunciare «una clausola di salvaguardia» volta a preservare gli effetti prodottisi in applicazione delle disposizioni dichiarate incostituzionali ed i rapporti che ne erano stati originati; senza, per di più, che il richiamo ai “diritti quesiti” ed ai “rapporti consolidati” – ai quali ha fatto riferimento il parere espresso, nella fase di conversione in legge, dalla Commissione permanente affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni della Camera dei deputati – risulti corretto né pertinente, trattandosi di rapporti di durata non sciolti né estinti e senza possibilità di alcuna “cristallizzazione” dei relativi effetti.
Sarebbe poi compromesso anche l’art. 3 Cost., in quanto si sarebbe introdotto un regime irragionevolmente discriminatorio rispetto ai medesimi rapporti di locazione, dal momento che, a seguito della predetta dichiarazione di illegittimità costituzionale, sarebbe venuta meno la funzione «preventiva e deterrente» circa l’adempimento degli obblighi tributari connessi alla tempestiva registrazione dei contratti di locazione: il che renderebbe priva di ragion d’essere la previsione di un «termine finale» scollegato dalla originaria funzione.
Si denuncia, infine, la violazione anche dell’art. 42, secondo comma, Cost., in quanto la facoltà del legislatore di limitare la proprietà privata è tuttavia sottoposta al rispetto del «limite teleologico della funzionalità alle esigenze delle collettività, mediante un bilanciamento di interessi di rango costituzionale che non può tradursi in uno “svuotamento di rilevante entità ed incisività del suo contenuto” (v. sentenza Corte Cost. n. 55/1968)». Evenienza che, nella specie, non si sarebbe verificata, avendo il legislatore previsto misure in chiave sanzionatoria, tanto della durata che del canone locatizio, svuotando di contenuto l’autonomia negoziale, senza una proporzionale ricaduta sul piano della funzione sociale della proprietà.
2. I giudizi vanno riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia, stante l’identità dei relativi oggetti.
3. La questione è fondata.
La disposizione all’esame è stata introdotta in sede di conversione, ad opera della legge n. 80 del 2014, del d.l. n. 47 del 2014, a seguito e in conseguenza della sentenza di questa Corte n. 50 del 2014, depositata il 14 marzo 2014, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, commi 8 e 9, del d. lgs. n. 23 del 2011, in tema di rideterminazione ex lege di elementi di contratti di locazione non registrati nei termini. Essa è stata inserita nell’ambito di un provvedimento diretto in primis, secondo le intenzioni dichiarate nel preambolo del provvedimento d’urgenza, «a fronteggiare la grave emergenza abitativa in atto e a adottare misure volte a rilanciare in modo efficace il mercato delle costruzioni» e nel contesto di un articolo (il 5) dedicato, secondo l’originaria rubrica, alla «Lotta all’occupazione abusiva di immobili». Con essa il legislatore ha, nella sostanza, prorogato l’efficacia e la validità dei contratti di locazione registrati sulla base delle disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime.
Come emerge dai lavori parlamentari e dalle dichiarazioni del relatore, la norma «salvaguarda fino al 31 dicembre 2015 gli effetti della legge contro gli affitti in nero che la Corte costituzionale ha cancellato. Si è trovata una soluzione che non mette in discussione la sentenza, ma riconosce che coloro che ne hanno beneficiato oggi non possono subire le conseguenze di aver applicato la legge e garantisce loro un tempo congruo per non dover sopportare un aggravio ingiusto delle proprie condizioni di vita». Appare, dunque, palese che l’intento perseguito dal Parlamento era, per l’appunto, di preservare, per un certo tempo, gli effetti prodotti dalla normativa dichiarata costituzionalmente illegittima, facendo beneficiare di una singolare prorogatio la categoria degli inquilini.
Appare, in altri termini, del tutto evidente che il legislatore si è proposto non già di disciplinare medio tempore – o ex novo e a regime -la tematica degli affitti non registrati tempestivamente, magari attraverso un rimedio ai vizi additati da questa Corte; e neppure quello di “confermare” o di “riprodurre” pedissequamente il contenuto normativo di norme dichiarate costituzionalmente illegittime; ma semplicemente quello di impedire, sia pure temporaneamente, che la declaratoria di illegittimità costituzionale producesse le previste conseguenze, vale a dire la cessazione di efficacia delle disposizioni dichiarate illegittime dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (art. 136 Cost.).
Nella sua stessa formulazione letterale, del resto, la norma censurata, evidentemente priva di autonomia, si prefigge soltanto di ricostituire una base normativa per “effetti” e “rapporti” relativi a contratti che, in conseguenza della pronuncia di illegittimità costituzionale, ne sarebbero rimasti privi: né il carattere temporaneo della disposizione sembra risolvere il problema e nemmeno attenuarne la portata.
Al riguardo, va rammentato come, sin da epoca ormai risalente, la giurisprudenza costituzionale non abbia mancato di sottolineare il rigoroso significato della norma contenuta nell’art. 136 Cost.: su di essa – si è detto – «poggia il contenuto pratico di tutto il sistema delle garanzie costituzionali, in quanto essa toglie immediatamente ogni efficacia alla norma illegittima», senza possibilità di «compressioni od incrinature nella sua rigida applicazione» (sentenza n. 73 del 1963, che dichiarò la illegittimità di una legge, successiva alla pronuncia di illegittimità costituzionale, con la quale il legislatore aveva dimostrato «alla evidenza» la volontà di «non accettare la immediata cessazione dell’efficacia giuridica della norma illegittima, ma di prolungarne la vita sino all’entrata in vigore della nuova legge»; tra le altre pronunce risalenti, la sentenza n. 88 del 1966, ove si è precisato che il precetto costituzionale, di cui si è detto, sarebbe violato «non solo ove espressamente si disponesse che una norma dichiarata illegittima conservi la sua efficacia», ma anche ove una legge, per il modo con cui provvede a regolare le fattispecie verificatesi prima della sua entrata in vigore, perseguisse e raggiungesse, «anche se indirettamente, lo stesso risultato»). Princìpi, questi, ripresi e ribaditi in numerose altre successive decisioni (fra le altre, le sentenze n. 73 del 2013; n. 245 del
2012; n. 354 del 2010; n. 922 del 1988; n. 223 del 1983).
Se appare, infatti, evidente che una pronuncia di illegittimità costituzionale non possa, in linea di principio, determinare, a svantaggio del legislatore, effetti corrispondenti a quelli di un “esproprio” della potestà legislativa sul punto – tenuto anche conto che una declaratoria di illegittimità ha contenuto, oggetto e occasio circoscritti dal “tema” normativo devoluto e dal “contesto” in cui la pronuncia demolitoria è chiamata ad iscriversi -, è del pari evidente, tuttavia, che questa non possa risultare pronunciata “inutilmente”, come accadrebbe quando una accertata violazione della Costituzione potesse, in una qualsiasi forma, inopinatamente riproporsi. E se, perciò, certamente il legislatore resta titolare del potere di disciplinare, con un nuovo atto, la stessa materia, è senz’altro da escludere che possa legittimamente farlo – come avvenuto nella specie – limitandosi a “salvare”, e cioè a “mantenere in vita”, o a ripristinare gli effetti prodotti da disposizioni che, in ragione della dichiarazione di illegittimità costituzionale, non sono più in grado di produrne. Il contrasto con l’art. 136 Cost. ha, in un simile frangente, portata addirittura letterale.
In altri termini: nel mutato contesto di esperienza determinato da una pronuncia caducatoria, un conto sarebbe riproporre, per quanto discutibilmente, con un nuovo provvedimento, anche la stessa volontà normativa censurata dalla Corte; un altro conto è emanare un nuovo atto diretto esclusivamente a prolungare nel tempo, anche in via indiretta, l’efficacia di norme che «non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» (art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 – Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale).
Né può reputarsi meritevole di pregio l’argomento speso dall’Avvocatura generale a proposito della circostanza che l’illegittimità costituzionale sia stata dichiarata per difetto di delega, che costituirebbe appena un vizio formale.
È, infatti, pacifico che una sentenza caducatoria produca i suoi previsti effetti quale che sia il parametro costituzionale in riferimento al quale il giudizio sia stato pronunciato, senza, perciò, che sia possibile differenziarne o quasi graduarne l’efficacia.
4. La norma impugnata deve, pertanto, essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 136 Cost., restando assorbiti – in quanto totalmente dipendenti – i profili di illegittimità relativi agli altri parametri evocati.
PER QUESTI MOTIVI
la Corte Costituzionale riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1-ter, del decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47 (Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 maggio 2014, n. 80.