[A cura di: Crif – www.crif.it] Con l’emergenza sanitaria da Covid-19 il modello organizzativo del lavoro è stato al centro di un cambiamento “copernicano”: in poco più di due mesi si è registrato infatti un passaggio dal 3% al 34% di lavoratori in modalità remote working operanti in Italia.
È questo uno dei dati emersi dall’Osservatorio “The World after Lockdown” curato da Nomisma e CRIF, che ormai da oltre sette mesi analizza in maniera continuativa l’impatto della pandemia COVID-19 sulle vite dei cittadini, grazie al coinvolgimento di un campione di 1.000 italiani (18-65 anni).
Erano meno di un milione (il 3% sul totale degli occupati) nel 2019 i lavoratori in smart working nelle imprese private in Italia. Prima del Covid-19 il lavoro agile era un fenomeno di nicchia: l’azienda decideva se renderlo disponibile in base alle necessità e alle policy di welfare aziendale. Il lockdown e i provvedimenti emergenziali lo promuovono a partire dal 4 marzo. Durante la fase 1, la percentuale di lavoratori “agili” cresce fino al 34% sul totale degli occupati, coinvolgendo circa 7 milioni di lavoratori. Di questi, la maggior parte appartiene al settore privato, mentre circa 2 milioni lavorano nella Pubblica Amministrazione.
Con la progressiva riapertura delle attività produttive, a partire dalla metà di maggio ad oggi, la quota di lavoratori da remoto, si attesta al 24% con 1 milione di smart workers nella Pubblica Amministrazione e 4 milioni nel settore privato.
La quota di chi oggi lavora in smart working cresce tra i Millennials (passando da 24% a 27%), al Nord (27% contro il 18% del Centro e il 22% del Sud) e tra le lavoratrici (27% contro il 22% degli uomini).
La propensione allo smart working è più forte nelle aziende più grandi (31% la quota di chi lavora in remoto nelle aziende con oltre 250 dipendenti – contro il 14% di quelle con meno di 50 addetti), nelle multinazionali (dove la quota di chi ad oggi lavora in remoto arriva al 53%) e in ambito pubblico (44%).
Nel privato, i settori che contano un maggior numero di smart workers sono Informatica e Telecomunicazioni, dove la quota di telelavoratori sul totale degli occupati si alza fino al 56%.
Quello della digitalizzazione, soprattutto nelle amministrazioni pubbliche e nei piccoli comuni, rappresenta un tema cruciale per le aziende e le istituzioni in termini di prospettive sul nuovo equilibrio tra lavoro in remoto e in presenza da definire a partire dal prossimo 15 ottobre.
L’Osservatorio Nomisma-CRIF “The World after Lockdown” evidenzia che la maggioranza degli smart workers utilizza prevalentemente il proprio pc (75%). Solo poco più di 1 lavoratore agile su 3 (35%) ha in dotazione un computer aziendale. Questa quota cresce fino al 43% nelle grandi aziende, nelle multinazionali (fino al 58%) e nel settore informatico (76%).
Parlare di smart working (ossia lavoro agile, con organizzazione autonoma e mansioni scansionate per obiettivi) è in realtà fuorviante: in Italia infatti il 97% di chi ha lavorato da remoto, lo ha fatto da casa, mantenendo gli stessi orari e gli stessi ritmi del lavoro in sede.
Complessivamente solo il 9% (prevalentemente nella fascia under 30) si è connesso almeno una volta da un locale pubblico o uno spazio di co-working.
La possibilità di lavorare da casa è stata molto apprezzata dagli italiani. Lo smart working ha permesso innanzitutto di migliorare il work-life balance, con più tempo libero da impegnare nelle attività domestiche, nella tutela del benessere personale e familiare.
Per il 17% il risparmio economico e di tempo generato dal mancato spostamento sono stati i principali vantaggi dello smart working, per un altro 13% i pro risiedono semplicemente nell’avere più tempo libero a disposizione per i propri hobby o per la famiglia.
Altri elementi particolarmente apprezzati ricadono nella sfera “manageriale”: maggiore autonomia (14%) e flessibilità (12%) nella gestione dei carichi di lavoro.
Ma il lavoro a distanza ha anche dei lati oscuri. Per alcuni ha comportato un incremento delle ore lavorate (28%) e difficoltà nel separare lavoro e vita personale (il 21% non riesce a staccare la mente dal lavoro, il 25% ha avuto problemi di comunicazione con i colleghi). Tutto ciò comporta spesso anche un senso di solitudine e di isolamento (nel 22% degli smart workers).
Per molti il problema è stato opposto: in una casa priva di una stanza dedicata al lavoro (nel 20% dei casi), affollata da altri familiari o da condividere con i figli piccoli (il 31% ha condiviso gli spazi di lavoro con figli under 12), i problemi di concentrazione sono stati l’ostacolo principale.
Questo è vero per il 23% dei degli smart workers e il 31% delle lavoratrici. La quota più elevata di chi lamenta aspetti negativi legati al lavoro da remoto, infatti, è più elevata tra le donne e fa tornare alla luce vecchie disparità, che vedono le mamme farsi carico della maggior parte delle incombenze domestiche e portano a considerare che lo smart working favorisca maggiormente gli uomini.
A conferma di tale tesi: alla domanda “smart working sì o no?” il 15% delle donne è per il no (solo il 9% degli uomini si esprime allo stesso modo).
Per il 2021 Nomisma stima che il 16% dei workers italiani svolgerà ameno una giornata di lavoro da remoto (oltre 3 milioni di occupati). È opinione comune che il lavoro agile tenderà a diventare un fenomeno strutturale, e questo dovrà comportare necessariamente un forte cambiamento in tutti i soggetti coinvolti, dai lavoratori alle imprese alle istituzioni fino ai sindacati.
Il primo passo verso uno smart working meno emergenziale e più efficace viene dai risultati dell’indagine e riguarda la formazione: il 74% degli italiani evidenzia l’imminente necessità di ricevere una formazione sulle potenzialità dello smart working e sulla digitalizzazione del lavoro. Questi ultimi rappresentano infatti un’enorme opportunità per le aziende, secondo il 58% degli italiani. Perché il lavoro agile sia una vera opportunità, dovrebbe però essere modulato lasciando al lavoratore stesso la possibilità di decidere se, quando e dove effettuarlo (lo pensa il 61% delle famiglie).