Se affitto più volte nel corso del 2024 la stessa unità immobiliare con contratti di locazione breve e scelgo il regime della cedolare secca, mi confermate che l’aliquota di tassazione è del 21 per cento e non del 26 per cento?
Per la tassazione Irpef dei redditi fondiari derivanti dai contratti di locazione breve, come è ormai noto, il proprietario – o il titolare di diritto reale di godimento – di unità immobiliari abitative locate a uso abitativo può scegliere il regime fiscale della cedolare secca, in alternativa al regime ordinario.
Dal 1° gennaio 2024 chi sceglie questo regime deve calcolare l’imposta sostitutiva da versare applicando la nuova aliquota di tassazione del 26 per cento, come stabilito dall’articolo 1, comma 63, della Legge n. 213/2023, ovvero la Legge di Bilancio 2024.
La stessa norma prevede, tuttavia, la riduzione al 21 per cento per i redditi che derivano dalle locazioni brevi relativi a una unità immobiliare individuata dal contribuente in sede di dichiarazione dei redditi.
Pertanto, la risposta al quesito è affermativa, dal momento che il contribuente concede in locazione breve, anche se più volte, una sola abitazione.
Se, per ipotesi, gli immobili concessi in locazione fossero due, sul reddito derivante dalla locazione breve di uno dei due – a scelta del locatore – si applicherebbe l’aliquota del 21 per cento, sull’altro quella del 26 per cento.
L’Agenzia delle Entrate con la risposta n. 146 del 9 luglio 2024 chiarisce cosa accade nel caso in cui una fattura errata relativa ai lavori agevolati con Superbonus non viene corretta nei tempi previsti.
Nel caso esaminato, un condomino incaricato del “condominio minimo” spiega al Fisco che il 29 dicembre 2023 l’impresa incaricata a svolgere i lavori incentivati con il Superbonus, ha emesso 3 fatture distinte indicanti l’opzione dello sconto in fattura.
Dopo il 31 dicembre 2023, in sede di avvio delle procedure di asseverazione, è stato riscontrato un errore. Nello specifico, lo sconto in fattura non era stato esposto a valle dell’importo complessivo della fattura (IVA inclusa), ma bensì nel corpo della stessa, quindi “neutralizzando” erroneamente gli importi dei singoli interventi riportati.
Successivamente l’impresa, dopo aver riscontrato l’errore, ha emesso delle nuove fatture datate 29 dicembre 2023, ma trasmesse concretamente allo SdI (Sistema di Interscambio) il 27 marzo 2024, quindi oltre i termini consentiti per sanare l’errore.
Il condomino si è rivolto, quindi, all’Agenzia delle Entrate per chiedere se è possibile sanare l’errore al fine di conservare l’agevolazione fiscale nella misura del 110%.
In risposta, l’Agenzia delle Entrate ha innanzitutto richiamato la Circolare dell’8 agosto 2020, n. 24/E e la Circolare del 22 dicembre 2020, n. 30/E, secondo cui: “Per le persone fisiche, compresi gli esercenti arti e professioni, e gli enti non commerciali, in applicazione del criterio di cassa, le spese si intendono sostenute alla data dell’effettivo pagamento. In caso di sconto ”integrale” in fattura (e, dunque, in assenza di un pagamento), occorre fare riferimento alla data di emissione della fattura da parte del fornitore”.
A ciò va aggiunto, come ribadito dal Fisco, che la fattura non può considerarsi emessa prima dell’invio allo SdI. A tal proposito, infatti, con la risposta n. 103 del 13 maggio 2024, è stato chiarito che laddove l’emissione della fattura per i servizi resi non sia contestuale al pagamento degli stessi (anche tramite riconoscimento dello sconto) e, pertanto, il documento riporti due date diverse (una di effettuazione dell’operazione ed una successiva di trasmissione allo SdI), qualora la seconda data sia rispettosa dei termini di legge (compresi i cinque giorni dell’eventuale scarto), la fattura risulterà emessa correttamente e lo sconto applicato.
L’Agenzia delle Entrate spiega sostanzialmente che: “Ai fini dell’individuazione del momento di sostenimento della spesa, in ipotesi di opzione per lo ”sconto integrale” in fattura applicabile secondo le percentuali vigenti in tale momento, è possibile dare rilevanza alla data indicata in fattura, corrispondente all’effettuazione dell’operazione (ossia al pagamento, anche tramite l’equivalente sconto), sempreché la relativa fattura sia stata trasmessa allo SdI nei termini stabiliti dall’articolo 21, comma 4, del d.P.R n. 633 del 1972 (entro 12 giorni), e ricorrano gli ulteriori requisiti formali e sostanziali previsti dalla disciplina del Superbonus 110%”.
Per ciò che concerne il caso analizzato, l’impresa ha emesso 3 fatture errate in data 29 dicembre 2023, avendo praticato lo sconto sul solo imponibile e omettendo, quindi, di addebitare l’IVA in rivalsa. A tal proposito, con la Circolare n. 30/E del 22 dicembre 2020 era stato chiarito che ai fini dell’applicazione dello sconto in fattura “per corrispettivo dovuto deve intendersi il valore totale della fattura, al lordo dell’IVA, e l’importo dello sconto non riduce la base imponibile e deve essere espressamente indicato nella fattura emessa a fronte degli interventi eseguiti”.
Le fatture successivamente prodotte per rettificare quelle errate, seppur datate 29 dicembre 2023, sono state trasmesse allo SdI, quindi “emesse” in data 27 marzo 2024, ben oltre il termine dei 12 giorni che consentono di dare legittima rilevanza alla data corrispondente all’effettuazione dell’operazione (ossia al pagamento, anche tramite l’equivalente sconto).
Inoltre, le nuove fatture hanno replicato quelle precedenti errate, salvo che per l’addebito dell’IVA in rivalsa, poi assorbito anch’esso dallo sconto, per cui le prime fatture non sembrano essere state “stornate” con una nota di credito ma solo duplicate.
Pertanto, considerando che le note di debito corrette (rectius fatture) sono state emesse il 27 marzo 2024, lo sconto in fattura, fermo restando che sussistano gli altri requisiti richiesti dalle normative, sarà applicabile nella misura del 70%, così come previsto per il 2024.
Infine, il Fisco ha concluso che, coerentemente con la misura agevolativa effettivamente spettante, con aliquota pari al 70%, andranno modificate anche l’asseverazione intermedia e la comunicazione della cessione del credito.
A cura di Deborah Maria Foti – Ufficio Stampa ANAPI
In un’unità abitativa s’intende effettuare un intervento di manutenzione straordinaria, consistente nella sostituzione degli infissi e dei serramenti esterni, con cambio di tipologia e materiali, in grado di garantire una maggiore efficienza energetica. Contestualmente a tale intervento, si vuole provvedere alla sostituzione della preesistente coibentazione (isolamento interno) di uno dei vani interessati dalla sostituzione degli infissi. È possibile ritenere di “manutenzione straordinaria” anche i lavori relativi alla nuova coibentazione, in quanto di fatto trainati dalla sostituzione degli infissi e, pertanto, detraibili con le stesse modalità e specifiche?
La detrazione cui si intende fare riferimento è quella prevista per gli interventi ex articolo 3, lettera b, del Dpr 380/2001 (50 per cento).
La sostituzione degli infissi e la coibentazione delle pareti interne di un’abitazione posseduta da una persona fisica, come interventi di manutenzione straordinaria (articolo 3, comma 1, lettera b, del Dpr 380/2001), fruiscono della detrazione del 50% delle spese sostenute fino a un importo massimo di 96mila euro (articolo 16-bis del Tuir, Dpr 917/1986, e articolo 1, comma 37, della legge 234/2021, di Bilancio per il 2022; si veda anche la guida al 50% sul sito www.agenziaentrate.it).
Pertanto, l’intervento di coibentazione è agevolato di per sé, e non perché accessorio o di completamento alla sostituzione degli infissi.
Le spese devono essere pagate con bonifico bancario o postale e la detrazione compete, in 10 quote annuali di pari importo, in sede di dichiarazione dei redditi.
Tali interventi, anche se soggetti alla detrazione del 50% per ristrutturazioni edilizie, necessitano della comunicazione all’Enea, da fare entro 90 giorni dalla fine dei lavori, mediante il portale dell’Enea (bonuscasa2024.enea.it), anche se non è necessario conseguire specifici valori di trasmittanza termica.
In alternativa, si rende applicabile l’ecobonus ordinario, con aliquota del 65 per cento per la coibentazione, e del 50 per cento per la sostituzione degli infissi (che comporta la comunicazione all’Enea, l’asseverazione e il conseguimento dei valori di trasmittanza previsti nel Dm Sviluppo economico 6 agosto 2020: articolo 1, comma 37, della legge 234/2021; articolo 14 del Dl 63/2013, convertito in legge 90/2013. Si veda anche la guida al 65% sul sito www.agenziaentrate.it).
Lo scorso 19 giugno la Commissione europea ha aperto la procedura per deficit eccessivo per sette Paesi, tra i quali L’Italia.
Si tratta di un provvedimento che era atteso, soprattutto alla luce dei dati relativi al rapporto tra deficit e Pil dell’anno 2023, dati sui quali hanno inciso notevolmente le spese relative al Superbonus e ai diversi bonus edilizi.
Secondo i dati del rapporto della Banca d’Italia, aggiornato a giugno 2024, il Superbonus e il Bonus Facciate hanno comportato spese per oltre 170 miliardi di euro nel periodo 2021-2023, per circa il 3 per cento del valore del Pil.
I dati inseriti nell’ultimo Documento di Economia e Finanza, dello scorso aprile, hanno registrato un deficit del 2023 al 7,4 per cento. Nel documento il Governo ha sottolineato che l’effetto é legato al Superbonus, che ha fatto “gonfiare il deficit”.
A fronte di questi dati, l’analisi della Banca d’Italia conferma che le agevolazioni nell’edilizia hanno rappresentato, nel periodo della pandemia, un volano per l’economia, trainando la ripresa economica. Ma circa un quarto della spesa, ovvero 45 miliari di euro, sarebbe stata effettuata anche senza gli incentivi previsti. Inoltre, il moltiplicatore fiscale di tale investimento è stato inferiore a uno, dunque i benefici per il complesso dell’economia in termini di valore aggiunto risultano più bassi rispetto ai costi sostenuti.
Alla luce di questi dati, come conferma uno studio della CGIA di Mestre, il Superbonus con le connesse agevolazioni edilizie non ha raggiunto gli obiettivi e, anzi, ha generato un costo spaventoso per le finanze dello Stato.
Un problema, quello della voragine finanziaria che si è aperta nelle casse statali, che rimarrà di grande attualità per i prossimi anni e che è destinata ad influenzare notevolmente le prossime decisioni relative alle agevolazioni allo studio per l’applicazione della Direttiva Ue Case Green.
Secondo quanto previsto dalla Direttiva, l’Italia – come ogni Paese membro dell’Unione Europea – dovrà raggiungere nel settore abitativo l’obiettivo zero emissioni entro il 2050. Entro il 2030 il nostro Paese dovrà ridurre il suo consumo energetico medio del 16%; entro il 2035 tra il 20% e il 22%.
Per raggiungere questi traguardi, è essenziale che i Paesi membri garantiscano che almeno il 55% della riduzione del consumo di energia primaria sia ottenuto attraverso il rinnovo degli edifici più energivori, che, secondo i criteri definiti dalla EPBD, rappresentano il 43% degli immobili meno efficienti, una priorità nella nostra lotta per la sostenibilità ambientale.
Secondo i dati dell’Istat, in Italia si contano circa 12 milioni di edifici residenziali. Pertanto, risulterà prioritario intervenire sui circa 5 milioni di edifici con le prestazioni più scadenti, ognuno dei quali può essere costituito da una o più unità immobiliari.
Secondo la direttiva “case green“, l’efficientamento energetico degli edifici non si baserà più sull’attuale classificazione contenuta nelle certificazioni energetiche ma su obiettivi medi di riduzione dei consumi, che andranno a interessare quote differenti dello stock in relazione alle peculiarità immobiliari di ogni Paese.
Ma quanto costerà allo Stato e alle famiglie applicare la nuova direttiva “case green” e mettere “a norma” il patrimonio edilizio italiano?
Il primo dato, relativo all’intera aera Ue, lo fornisce la Commissione europea: entro il 2030 saranno necessari 275 miliardi di euro di investimenti annui per la svolta energetica nel settore immobiliare.
Le stime di uno studio del Politecnico di Milano
Secondo l’Energy & Strategy della School of Management del Politecnico di Milano, che lo scorso 19 giugno ha presentato l’Efficiency Energy Report 2024, serviranno almeno 180 miliardi di euro all’Italia per riuscire a recepire la Direttiva EPBD.
Una cifra che equivale a quanto è stato speso nell’ultimo triennio tra superbonus, ecobonus e bonus casa.
Le stime elaborate calcolano che attualmente risultano da efficientare almeno il 43% degli immobili in classe G, che rappresentano circa il 40% del parco immobiliare italiano.
Questo intervento costerebbe tra i 90 e i 103 miliardi di euro. Ad essi andrebbero aggiunti altri 80 miliardi per coprire il restante 45% e intervenire sugli edifici delle altre classi energetiche.
L’indagine ha preso come riferimento sei casi studio abitativi: un appartamento in condominio di dieci unità e villetta monofamiliare al Nord, Centro e Sud.
Per ciascuna delle sei tipologie sono stati ipotizzati tre scenari di riduzione dei consumi:
• il cambio della caldaia, con costi ridotti (26-30 mila euro per un condominio, 3,5mila euro per una villetta), ma che riesce a malapena a raggiungere il 20% di riduzione richiesto.
• le altre due opzioni permettono di raggiungere una riduzione del 70%. Tuttavia ciò comporta interventi sul cappotto, installazione di pompa di calore e impianto fotovoltaico. In questo caso i costi lievitano a circa 55-60 mila euro per una villetta e intorno ai 400mila per un condominio.
Gli interventi più consigliati all’interno degli APE sono:
• la coibentazione di tetti e pareti è di gran lunga la più diffusa (65,1%);
• la sostituzione delle finestre (14,5%);
• gli interventi sugli impianti di riscaldamento (11,8%).
I primi edifici da ristrutturare
Attualmente solo una piccola percentuale delle abitazioni dispone di una valutazione energetica, poiché la legge richiede la sua elaborazione solo in determinati casi (come la vendita, la nuova locazione, la ristrutturazione integrale, la nuova costruzione, ecc.) e stabilisce una scadenza di 10 anni.
Il database dell’ENEA contiene oltre 5 milioni di APE (Attestati di Prestazione Energetica) relativi alle singole unità immobiliari.
Il 51,8% dei certificati ricade nelle categorie energetiche più basse, vale a dire F e G. È probabile che la direttiva EPBD “colpirà” prioritariamente queste due fasce di edifici.
Le certificazioni rilasciate nel 2022 in occasione del trasferimento di un immobile collocano il 63,6% delle case nelle classi F e G. Questa percentuale scende appena al 58,1% in occasione delle nuove locazioni.
Ritornando ai dati Istat, 3,1 milioni di edifici residenziali sono stati costruiti prima del 1945, di cui addirittura 1,8 milioni prima del 1918. Secondo i dati dell’Enea, gli edifici costruiti prima del 1945 sono quelli che nel 2022 hanno ottenuto i punteggi peggiori, con il 67% classificato nelle classi F e G.
È presumibile che, attualmente, nelle tre classi più energivore E, F, e G ricada poco meno del 70% del patrimonio residenziale nazionale.
Deloitte: 800 miliardi per la riqualificazione del parco immobiliare
L’obsolescenza degli edifici è considerata una delle principali cause di inefficienza energetica degli immobili ed è il motivo che ha spinto la Commissione europea a promuovere la revisione della direttiva Epbd (Energy performance of buildings directive).
Secondo l’elaborazione di Deloitte da dati Istat, l’Italia è strutturalmente molto indietro rispetto agli altri Paesi europei. Se si analizza la percentuale di immobili di classe energetica F e G, infatti, si vede che in Italia gli edifici appartenenti a questa categoria sono oltre il 60%, mentre in Germania arrivano al 45%, in Spagna al 25% e in Francia appena al 21%.
Oltre l’83% degli edifici residenziali risulta costruito prima del 1990 – un dato leggermente più alto della media Ue (76%) – e più della metà (57%) è risalente a prima degli anni ‘70.
In base a questi dati, si stima che per riqualificare il patrimonio immobiliare degli edifici potrebbero essere necessari investimenti dagli 800 ai mille miliardi di euro.
Scenari immobiliari: ogni famiglia dovrà spendere fino a 55mila euro
Un calcolo effettuato dall’Istituto indipendente di studi e ricerche Scenari Immobiliari e basato sui costi unitari di riqualificazione energetica, le caratteristiche fisiche e l’avanzamento di classe, porta alla stima di un investimento complessivo compreso tra 1.100 e 1.750 miliardi di euro per l’intero patrimonio edilizio italiano. La parte residenziale va da 550 a mille miliardi. Il tutto da realizzare in dieci anni. L’impatto finanziario sulle famiglie – che dipende ovviamente dalle specifiche caratteristiche degli immobili – è stimato tra 20.000 e 55.000 euro circa.
Il calcolo è stato effettuato con l’obiettivo del salto di una o tre classi energetiche armonizzate, in modo da rispondere alle indicazioni della Direttiva con il fine di avere in ogni classe energetica la stessa quota percentuale di immobili. Tale stima non prende in considerazione la neutralità energetica (NZEB), ma solo il miglioramento energetico per il 2030 fornito dalle indicazioni dell’Europa.
Raggiungere il miglioramento di almeno due classi energetiche comporta interventi esterni come la coibentazione dell’edificio e la sostituzione della caldaia, con la possibilità di installare pannelli fotovoltaici. Allo stesso tempo, interventi come la sostituzione di infissi e finestre e la potenziale sostituzione degli impianti a gas con soluzioni meno inquinanti sono necessari per gli immobili classificati nelle categorie energetiche inferiori.
Codacons: costi compresi tra i 35mila e i 60mila euro per ogni abitazione
Secondo il Codacons l’applicazione della Direttiva Ue Case Green potrebbe comportare per i proprietari una spesa compresa tra i 35.000 e i 60.000 euro per abitazione.
Il Codacons avverte inoltre che l’implementazione di queste misure potrebbe avere conseguenze significative sul mercato immobiliare, con una potenziale svalutazione degli immobili non sottoposti a riqualificazione fino al 40% nel medio termine.
Questo mette in evidenza la necessità di bilanciare gli obiettivi ambientali con le reali capacità finanziarie dei proprietari immobiliari.
Un contribuente si è rivolto all’Agenzia delle Entrate, attraverso la Posta di FiscoOggi, per chiedere dei chiarimenti in merito alla possibilità di fruizione del Bonus mobili dopo l’effettuazione di interventi di ristrutturazione del box auto.
Nello specifico, il contribuente ha spiegato di aver effettuato opere di manutenzione straordinaria nel box auto di pertinenza della propria abitazione.
Successivamente ha effettuato l’acquisto di alcuni mobili destinati alla propria abitazione, pertanto, ha chiesto al Fisco se in tal caso è possibile usufruire della detrazione del 50% prevista dal “Bonus mobili” anche se i lavori sono stati realizzati esclusivamente sulla pertinenza della propria abitazione.
In risposta, l’Agenzia delle Entrate ha spiegato che, come precisato più volte, la detrazione del 50% delle spese sostenute per l’acquisto di mobili ed elettrodomestici (da usufruire in dieci rate annuali di pari importo) spetta anche quando tali beni sono destinati all’arredo dell’abitazione, ma l’intervento a cui è collegato l’acquisto è stato effettuato su una pertinenza dell’immobile in questione.
Pertanto, salvo che siano rispettate tutte le condizioni previste dalla normativa relativa al “Bonus mobili”, il contribuente potrà usufruire dell’agevolazione.
L’Agenzia delle Entrate, ha ricordato anche che per maggiori informazioni relative a tale agevolazione, è possibile consultare la guida Bonus mobili ed elettrodomestici.
Ricordiamo, infine, che è possibile beneficiare del Bonus mobili sino al 31 dicembre 2024 e per quest’anno la detrazione va calcolata su un importo massimo pari a 5.000 euro.
Possono beneficiare dell’agevolazione coloro che acquistano entro la fine del 2024 mobili ed elettrodomestici nuovi (di classe non inferiore alla classe A per i forni, alla classe E per le lavatrici, le lavasciugatrici e le lavastoviglie, alla classe F per i frigoriferi e i congelatori e hanno realizzato interventi di ristrutturazione edilizia a partire dal 1° gennaio dell’anno precedente a quello dell’acquisto dei beni.
A cura di Deborah Maria Foti – Ufficio Stampa ANAPI
Coloro che decidono di vendere un immobile ristrutturato con il Superbonus prima che siano trascorsi 10 anni dalla fine dei lavori devono far fronte a pesanti imposte.
La legge di Bilancio 2024 stabilisce, infatti, che le plusvalenze derivanti dalla vendita onerosa di immobili che hanno beneficiato degli interventi agevolati dal Superbonus siano incluse nei redditi diversi secondo il Testo Unico sulle Imposte sui Redditi (TUIR).
L’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 13/E/2024, ha fornito le istruzioni applicative del nuovo regime in vigore dal 1° gennaio 2024.
Plusvalenza da Superbonus: cos’è e a quanto ammonta
Il comma 64 della Legge di Bilancio 2024 prevede, per gli immobili diversi dall’abitazione principale e non ottenuti tramite successione sui quali sono stati effettuati interventi agevolati con il Superbonus al 110%, un’imposta sulla plusvalenza del 26% nel caso di vendita nei successivi 10 anni.
Questa nuova imposta, dunque, consiste in un prelievo del 26 per cento sulla plusvalenza generata dai lavori di ristrutturazione e colpisce per un periodo di dieci anni chi vende una seconda casa, a meno che non sia stata ereditata o donata. Oltre a questo, le nuove disposizioni hanno introdotto un meccanismo di indeducibilità dei costi di ristrutturazione, integrale per i primi cinque anni e al 50% per i successivi cinque.
La misura applicata agli immobili riqualificati con il Superbonus è stata concepita per scoraggiare operazioni speculative e garantire che le agevolazioni fiscali siano effettivamente ed esclusivamente impiegate per migliorare l’efficienza energetica degli immobili.
Fino al 2023, le spese “sostenute” per la realizzazione dei lavori agevolati con il Superbonus erano deducibili dalla plusvalenza tassabile.
La ratio della nuova norma è quella di non concedere più quella doppia agevolazione che consentiva di realizzare a costo zero lavori che aumentavano il valore dell’immobile e la sua vendita senza il pagamento di una tassa sulla plusvalenza.
L’esonero dal pagamento della plusvalenza
Sono previste due eccezioni all’imposta sulla plusvalenza da Superbonus:
• gli immobili ereditati per successione;
• gli immobili utilizzati come residenza principale dal venditore o dai suoi familiari per la maggior parte dei 10 anni precedenti la vendita, o per la maggior parte del periodo se inferiore ai dieci anni.
Plusvalenza da Superbonus: come si calcola
La plusvalenza è determinata dalla differenza tra il corrispettivo percepito e il prezzo di acquisto o il costo di costruzione del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo.
Alle plusvalenze derivanti dalla cessione “infradecennale” di immobili interessati dal Superbonus è applicata un’imposta sostitutiva del 26%, secondo le modalità previste dall’articolo 1, comma 496, della legge 23 dicembre 2005, n. 266.
Questa opzione deve essere richiesta dalla parte venditrice al notaio al momento della cessione e le nuove disposizioni si applicano alle cessioni poste in essere a decorrere dal 1° gennaio 2024.
Per gli immobili oggetto di interventi agevolati con il Superbonus:
• se gli interventi si sono conclusi da non più di 5 anni, non si tiene conto delle spese relative agli interventi agevolati se si è fruito dell’incentivo nella misura del 110% e sono state esercitate le opzioni per lo sconto in fattura o la cessione del credito;
• se gli interventi si sono conclusi da più di 5 anni, si tiene conto del 50% delle spese relative agli interventi agevolati.
Con la Circolare 13/E/2024 l’Agenzia delle Entrate chiarisce alcuni dubbi sull’applicazione delle plusvalenze:
• è sufficiente un lavoro effettuato sulle parti comuni di un condominio, senza coinvolgere il singolo appartamento, a far scattare la plusvalenza da Superbonus;
• i dieci anni si calcolano a partire dalla fine dei lavori;
• laddove, per il medesimo immobile, si sia fruito dell’incentivo in parte nella misura del 110% e in parte in una misura inferiore, l’irrilevanza delle spese relative agli interventi agevolati riguarderà solo le spese che hanno dato luogo all’incentivo nella misura del 110%; le altre spese, invece, potranno essere considerate al ricorrere di tutti i requisiti previsti dalla legge;
• laddove, con riferimento alle spese sostenute per gli interventi ammessi al Superbonus, il contribuente si avvalga in parte della detrazione e in parte delle opzioni della cessione del credito o dello sconto in fattura, non concorrono nel calcolo della plusvalenza solamente le spese per le quali è prevista l’aliquota di detrazione del 110% ed è stata esercitata una delle predette opzioni.
• nel caso in cui tra la conclusione degli interventi agevolati e la cessione dell’immobile oggetto degli interventi siano trascorsi più di cinque anni, si sia fruito dell’incentivo nella misura del 110% e siano state esercitate le opzioni per lo sconto in fattura o per la cessione del credito, le spese sostenute, concernenti gli interventi agevolati, potranno essere riconosciute nella misura pari al 50%, a incremento del prezzo di acquisto (o costo di costruzione) del bene.
• la plusvalenza configura un reddito diverso laddove non sia conseguita nell’esercizio di arti e professioni e di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice.
Per poter svolgere l’attività di amministratore di stabili devono ricorrere determinati requisiti, così come previsti dall’art. 71 bis disp.att. c.c.
Si tratta, in primo luogo, dell’assenza di condizioni soggettive ostative/negative.
L’amministratore, oltre a dover godere dei diritti civili, non deve essere stati condannato per delitti contro la pubblica amministrazione, l’amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio e per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni; non deve essere stato sottoposto a misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione; non deve essere interdetto o inabilitato; il suo nome non deve risultare annotato nell’elenco dei protesti cambiari.
La perdita anche solo di un requisito di affidabilità comporta la decadenza immediata dall’incarico.
In ragione di ciò, ciascun condomino può convocare senza formalità l’assemblea per la nomina del nuovo amministratore.
Lo stesso amministratore, oltre ai requisiti di onorabilità, deve possedere i requisiti di professionalità.
Questi deve aver hanno conseguito il diploma di scuola secondaria di secondo grado e aver frequentato un corso di formazione iniziale e svolgono attività di formazione periodica in materia di amministrazione condominiale. L’unica eccezione alla ricorrenza della professionalità è data dal condomino che gestisce l’edificio dove abita: qui la legge non richiede che l’amministratore-condomino sia in possesso di questi requisiti, sebbene si consigli di frequentare i corsi di formazione onde saper esercitare l’attività con cognizione, senza incorrere in responsabilità civile e penale. In via transitoria, per quanti hanno svolto l’attività di amministrazione di condominio per almeno un anno nell’arco dei tre anni precedenti alla data di entrata in vigore della presente disposizione, l’incarico di amministratore può essere assunto anche in assenza del titolo di studio della scuola secondaria di secondo grado e del corso di formazione iniziale. L’aggiornamento periodico è invece sempre richiesto.
Il D.M. 145.2014 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 24 settembre 2014 che dà attuazione al D.L. n. 145/2013 (art. 1, co. 9, lett. a), convertito in L. n. 9/2014) ha lo scopo di implementare la preparazione, le competenze e la professionalità degli aspiranti amministratori di condominio e di coloro che già svolgono detta funzione.
Il corso di formazione iniziale ha una durata di almeno 72 ore mentre l’aggiornamento, da effettuare annualmente, ha una durata di almeno 15 ore; in entrambi i casi, l’obbligo formativo può essere assolto anche in via telematica.
In merito al requisito professionale, nello specifico l’obbligo di aggiornamento, parte della giurisprudenza afferma che l’inadempimento all’obbligo di formazione periodica, soprattutto se protratta nel tempo, può costituire una di quelle gravi irregolarità (di cui parla l’art.1129, comma 12, c.c.) capaci di giustificare la domanda di revoca dell’amministratore inadempiente (App. Bari, 27 gennaio 2021; Trib. Bari, 22 maggio 2020, n. 8143; Trib. Milano, 27 marzo 2019 n. 3145; Trib. Verona, 13 novembre 2018; Trib. Roma, 9 gennaio 2017).
Altre sentenze evidenziano che la mancata frequentazione del corso di aggiornamento (ai sensi del Dm 140/2014) rende nulla la nomina dell’amministratore di condominio, avendo l’art. 71 bis disp. Att. C.c. carattere imperativo ed inderogabile, trattandosi di una norma di diritto pubblico, posta nell’interesse generale della collettività e, in particolare, del condominio consumatore (Trib. Padova, 24 marzo 2017, n. 818).
Secondo quest’ultima sentenza, per evitare la revoca della sua nomina e quindi la dichiarazione di nullità della delibera assembleare, l’amministratore deve dimostrare di aver ottemperato a quanto previsto dalla norma e, in mancanza dell’attestato, deve fornire quanto meno la documentazione attestante l’iscrizione al corso obbligatorio o un’autocertificazione.
L’opinione che ritiene che la mancanza dei requisiti di professionalità si configuri come ipotesi di revoca si basa sull’indicazione dell’art. 1129, comma 12, c.c., il quale tra le “gravi irregolarità” che possono determinare la revoca dell’amministratore, prevede anche l’omessa, incompleta o inesatta comunicazione da parte dell’amministratore dei dati non solo anagrafici ma anche professionali. Se quindi la mera omissione della comunicazione dei requisiti professionali è causa di revoca dell’amministratore, a maggior ragione la medesima soluzione si impone nel caso, più grave, della assoluta carenza di tali requisiti (Trib. Roma, 9 gennaio 2017).
I requisiti richiesti dall’art. 71bis disp. Att. C.c. possono venire a mancare anche nel corso del mandato. Ciò può valere sia per le condizioni soggettive sopra indicate, sia per i requisiti professionali, per mancato aggiornamento professionale. In questi casi si ritiene che la revoca sia automatica, incorrendo l’amministratore nella decadenza dalla carica. Con ciò, ogni singolo condomino può convocare l’assemblea per deliberare la nomina del nuovo mandatario.
A cura di Avv. Anna Nicola
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10043 TORINO
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Nel 2021 – al fine di effettuare lavori di migliorie sfruttando i bonus edilizi – è stato stabilito di creare un fondo cassa condominiale “per la gestione della fase preliminare per la fruizione del bonus 20 maggio-31 dicembre 2021”. Di fatto, però, a causa di disaccordi tra condòmini, i lavori non sono mai iniziati. Nel 2022, inoltre, è stato istituito un “Fondo cassa morosi”, anch’esso rimasto inutilizzato. Dal momento che sto procedendo alla vendita dell’appartamento, ho chiesto il riaccredito della mia quota di credito del fondo cassa all’amministratore, che però mi ha risposto che potrà restituire le somme solo se in una prossima assemblea condominiale si deciderà in tal senso. La risposta che ho ricevuto è corretta?
Nel caso prospettato dal lettore, il fondo cassa costituito ha una precisa destinazione, ad esso assegnata dall’assemblea.
Dunque i soldi confluiti in quel fondo cassa non possono essere restituiti ai condòmini se non dopo che una nuova assemblea deliberi in tal senso.
Tali fondi, di qualunque natura essi siano, vanno a beneficio solo dei condòmini e quindi, in caso di vendita dell’unità immobiliare, vanno a beneficio del nuovo proprietario.
Il condòmino venditore non può pretendere dall’amministratore del condominio la restituzione della quota da lui versata per il fondo cassa. Ma di questa quota deve essere dato atto nell’attestazione relativa allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali, che l’amministratore deve rilasciargli in base all’articolo 1130, primo comma, n. 9, del Codice civile.
La richiesta di rimborso della quota del fondo cassa va invece rivolta al nuovo condòmino, che ne trae evidente vantaggio, fatti salvi i diversi accordi eventualmente intervenuti in sede di compravendita dell’immobile.
Qualora, poi, l’assemblea decidesse la restituzione a tutti i condòmini del fondo cassa inutilizzato per lo scopo per cui era stato costituito, la quota dovrebbe essere accreditata al vecchio condòmino che l’aveva a suo tempo versata, oppure al nuovo condòmino nel caso in cui quest’ultimo l’avesse nel frattempo già restituita al suo dante causa.