Vorrei sapere quali sono i costi del riscaldamento dell’impianto centralizzato a distribuzione orizzontale, in regime di comunione tra una sola parte dei condòmini di un palazzo, perché installato successivamente alla costruzione, che possono essere imputati a un condomino distaccato dalla caldaia?
Ipotizzando che il lettore utilizzi il termine “comunione” per indicare un condominio disciplinato dagli articoli 1117 e seguenti del Codice civile, e una comunione parziale all’interno di un condominio, trova applicazione l’articolo 9, comma 5, del Dlgs 102/2014.
Esso prevede che, quando gli edifici sono alimentati da teleriscaldamento o teleraffreddamento o da sistemi comuni di riscaldamento o raffreddamento, per la corretta suddivisione delle spese connesse al consumo di calore per il riscaldamento, al raffreddamento delle unità immobiliari e delle aree comuni, nonché per l’uso di acqua calda per il fabbisogno domestico, se prodotta in modo centralizzato, l’importo complessivo è suddiviso tra gli utenti finali attribuendo una quota di almeno il 50% agli effettivi prelievi volontari di energia termica.
Gli importi rimanenti possono essere ripartiti, a titolo esemplificativo e non esaustivo, secondo i millesimi, i metri quadrati o i metri cubi utili, oppure secondo le potenze installate.
La quota relativa ai consumi involontari – che deve essere accollata anche al condòmino distaccatosi e che può anche essere pari al 22% del consumo totale dell’impianto – è da calcolarsi in base a una diagnosi energetica (e non a forfait o mediante tabelle millesimali errate).
Quanto ai riparti già approvati, decorsi i termini per l’impugnazione della delibera non possono più essere contestati. In proposito l’articolo 1137 del Codice civile dispone che avverso alle deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condòmino assente, dissenziente o astenuto può adire l’autorità giudiziaria chiedendone l’annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti.
Se invece il lettore si riferisce a uno stabile in regime di comunione in senso tecnico/giuridico, cioè a un edificio disciplinato dagli articoli da 1100 a 1116 del Codice civile, non trova applicazione il Dlgs 102/2014, con la conseguenza che per la ripartizione delle spese occorrerà esaminare i titoli o eventuali accordi contrattuali.
In mancanza di specifiche pattuizioni, l’articolo 1101 del Codice civile stabilisce che le quote dei partecipanti alla comunione si presumono eguali. Il concorso dei partecipanti, tanto nei vantaggi quanto nei pesi della comunione, è in proporzione delle rispettive quote.
L’Agenzia delle Entrate torna sul tema dei bonus edilizi rispondendo ad un quesito posto da un contribuente attraverso “La Posta di FiscoOggi”.
Nel caso preso in esame, un contribuente si rivolge al Fisco spiegando che intende realizzare dei lavori di ristrutturazione edilizia su un immobile accatastato attualmente come fabbricato rurale, ma che al termine dei lavori sarà utilizzato come abitazione. A tal proposito il contribuente chiede, quindi, se può usufruire del bonus ristrutturazioni, ovvero la detrazione del 50% delle spese sostenute per l’intervento.
In risposta, l’Agenzia delle Entrate ha ricordato che gli interventi di ristrutturazione edilizia sono quelli volti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare a un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, così come chiarito all’articolo 31, comma 1, lettera d, della legge n. 457/1978.
Il Fisco continua spiegando che per tali interventi è possibile usufruire della detrazione del 50% delle spese sostenute, anche se eseguiti su un immobile non residenziale e a patto che vengano rispettati tutti i requisiti previsti dalla relativa normativa.
Per la concessione dell’agevolazione, inoltre, è necessario che nel provvedimento amministrativo che autorizza gli interventi di ristrutturazione, risulti in modo esplicito che gli stessi lavori comportano il cambio di destinazione d’uso dell’immobile ristrutturato, ovvero da fabbricato rurale ad abitativo.
A cura di Deborah Maria Foti – Ufficio Stampa ANAPI
Riaperto dal 15 marzo lo sportello dedicato all’invio delle richieste per il “bonus colonnine elettriche” per imprese e professionisti, iniziativa promossa dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) volta a incentivare l’acquisto e l’installazione di infrastrutture di ricarica per i veicoli elettrici.
Il MASE aveva messo in campo una dotazione iniziale pari a 87,5 milioni di euro, ma durante la prima apertura dello sportello, le richieste pervenute sono state inferiori alle risorse disponibili, pertanto, con oltre 70 milioni di euro ancora a disposizione, il MASE ha deciso di dare un ulteriore impulso alla diffusione delle colonnine elettriche in Italia, riaprendo la possibilità di inviare le richieste in modo da avere un numero maggiore di beneficiari.
La piattaforma, gestita da Invitalia, sarà operativa a partire dalle ore 12:00 del 15 marzo sino alle ore 17:00 del 20 giugno 2024, difatti, rispetto alla prima apertura durata un mese, in questo caso le imprese e i professionisti avranno a disposizione tre mesi di tempo per richiedere il bonus colonnine elettriche.
A tal proposito, il Ministro Gilberto Pichetto Fratin ha dichiarato: “Con la riapertura dello sportello vogliamo dare nuove opportunità di sviluppo della mobilità elettrica nel Paese, sostenuta in modo consistente dal PNRR e centrale per raggiungere gli obiettivi del PNIEC”.
Ricordiamo che il contributo economico inerente al bonus colonnine elettriche copre il 40% delle spese sostenute da professionisti e imprese successivamente al 4 novembre 2021. Tra le spese coperte dal bonus rientrano l’acquisto e l’installazione delle infrastrutture di ricarica, comprese le colonnine, gli impianti elettrici, le opere edili necessarie e gli impianti e i dispositivi per il monitoraggio.
Inoltre, il bonus copre anche le spese sostenute per la connessione alla rete elettrica e quelle per la progettazione, direzione lavori, sicurezza e collaudi, sino ad un massimo del 10% del costo totale per l’acquisto e la messa in opera.
Per maggiori informazioni in merito alle richieste, è possibile contattare Invitalia anche attraverso il numero verde gratuito 800 77 53 97.
A cura di Deborah Maria Foti – Ufficio Stampa ANAPI
Per l’installazione di vetrate panoramiche amovibili, le cosiddette Vepa, oggi i permessi edilizi non servono più.
E’ però necessario rispettare con rigore il regolamento condominiale e il decoro architettonico.
Chiunque, dunque, oggi potrebbe istallare le Vepa scorrevoli per proteggere il proprio balcone: sia chi possiede un terrazzo all’attico, sia chi abita al pianterreno e dispone di una loggia.
Ma chi abita in un condominio è soggetto a ulteriori vincoli, rispetto a quelli richiesti dalla normativa edilizia.
La norma di legge che ha fatto rientrare le Vepa nel regime di attività edilizia libera, mentre prima erano soggette ai titoli abilitativi rilasciati dal Comune, infatti, è intervenuta solo sul Testo unico dell’edilizia. Ma non è intervenuta sui regolamenti condominiali, che possono prevedere – e spesso lo fanno – un regime diverso e più restrittivo.
Il regolamento condominiale
In particolare, il regolamento condominiale di natura contrattuale (quello approvato all’unanimità da tutti i condomini, anche mediante richiamo nei rispettivi atti di acquisto), è inderogabile, a meno che a modificarlo non intervenga una successiva delibera, approvata all’unanimità dei condomini dell’edificio.
Se il regolamento condominiale contrattuale contiene il divieto di chiudere i balconi con vetrate o con altri tipi di strutture ed infissi, non c’è nulla da fare: in questo caso il Decreto Aiuti non aiuta, perché sulla previsione generale di legge prevale la normativa regolamentare specifica che gli stessi condòmini si sono dati.
Infatti la compagine condominiale, per disciplinare i vari aspetti della vita in comune nell’edificio è sempre libera di adottare le regole che ritiene più opportune, anche quando sono più restrittive rispetto norme di legge che consentono di esercitare determinate facoltà.
La violazione del regolamento condominiale rappresenta un fatto grave, che tra l’altro consente al condominio di agire contro il trasgressore per il ripristino dei luoghi e il risarcimento dei danni.
Il decoro architettonico
Oltre alle disposizioni contenute nel regolamento di condominio, è necessario considerare l’impatto che l’installazione di una vetrata potrebbe avere sul decoro architettonico dell’edificio. Questo perché in condominio sono vietate le opere che possono ledere il decoro architettonico.
L’installazione di Vepa – che sono scorrevoli e non retrattili – può infatti incidere sul decoro architettonico dell’edificio, che consiste nell’insieme delle linee estetiche proprie della facciata.
Lart. 1122 del Codice civile impone di preservare il “decoro architettonico dell’edificio” in tutti i casi di innovazioni realizzate dal condomino sulle sue parti di proprietà esclusiva o individuale, come può essere il balcone, o il terrazzo. Infatti anche nel caso in cui non vi sia alcuna alterazione del decoro architettonico (così come anche della sicurezza e stabilità del fabbricato) la norma dispone che bisogna sempre dare notizia all’amministratore, il quale riferisce in assemblea alla prima occasione utile.
Lo stesso Decreto Aiuti bis dispone espressamente che le Vepa “devono avere caratteristiche tecnico-costruttive e profilo estetico tali da ridurre al minimo l’impatto visivo e l’ingombro apparente e da non modificare le preesistenti linee architettoniche”.
La comunicazione all’amministratore
Per evitare problemi, è sempre consigliabile interpellare l’assemblea per conoscere il suo orientamento.
Non occorre che il condòmino interessato a installare la Vepa chieda appositamente la convocazione dell’assemblea, ma è sufficiente comunicare all’amministratore l’intenzione di installarla. Dare notizia all’amministratore è un obbligo, mentre l’intervento dell’assemblea è successivo ed eventuale.
Con l’occasione, sarebbe opportuno integrare la comunicazione all’amministratore con una dichiarazione di conformità della vetrata alle norme di legge, in base alla documentazione fornita dal produttore o dal venditore, e ove occorra allegando anche il progetto tecnico elaborato dall’installatore per garantire gli aspetti di stabilità e sicurezza della struttura amovibile e scorrevole.
In questo modo l’amministratore potrà informare l’assemblea in modo compiuto e difficilmente qualcuno solleverà obiezioni di fronte ad un progetto attestato nella sua regolarità e realizzato in modo conforme.
La dichiarazione conformità degli impianti è un documento obbligatorio. Si tratta di un documento che viene rilasciato al termine dei lavori dal responsabile dell’impresa, quindi dal tecnico specializzato che ha installato o apportato modifiche all’impianto.
Questo documento attesta che gli impianti installati rispettano rigorosamente le norme tecniche e di sicurezza stabilite dalla legge.
Rappresenta dunque una garanzia che gli impianti siano stati progettati, realizzati e verificati in modo da garantire la massima sicurezza e funzionalità, in conformità con le leggi e gli standard vigenti.
La dichiarazione di conformità è disciplinata dal dm 37/08, che stabilisce anche le sanzioni che possono essere applicate in caso di mancato rispetto degli obblighi relativi alla compilazione.
La mancata consegna della dichiarazione conformità degli impianti comporta infatti sanzioni amministrative che variano in base all’entità e alla complessità dell’impianto, al suo grado di pericolosità e ad altre circostanze oggettive e soggettive relative alla violazione.
Tali sanzioni ammontano a una somma che oscilla tra i 100 euro e i 1.000 euro.
Il certificato di conformità è obbligatorio in caso di installazione di un nuovo impianto; manutenzione straordinaria; modifica/ampliamento di un impianto già esistente.
Il certificato di conformità riguarda tutti gli impianti: elettrici, idrici, termici, a gas e antincendio.
L’obbligo della dichiarazione di conformità non si applica invece alla manutenzione ordinaria, che riguarda interventi di routine che vengono effettuati per garantire il corretto funzionamento dell’impianto, ma che non comportano modifiche significative alle sue caratteristiche.
La dichiarazione di conformità di un impianto deve essere rilasciata al termine dei lavori dal responsabile dell’impresa, quindi dal tecnico specializzato, che ha installato o apportato modifiche all’impianto.
La normativa stabilisce infatti, all’art. 7 del dm 37/08, che la dichiarazione deve essere rilasciata “al termine dei lavori, previa effettuazione delle verifiche previste dalla normativa vigente, e non può essere subordinata al pagamento dell’importo fatturato”.
La dichiarazione di conformità deve essere consegnata al committente dell’opera, che è tenuto a conservarla e a fornire una copia della stessa a chiunque utilizzi gli spazi o gli impianti oggetto della dichiarazione. Questo adempimento rientra tra le responsabilità dell’impresa installatrice.
La dichiarazione di conformità deve essere depositata, dall’impresa installatrice, presso lo Sportello Unico per l’Edilizia del Comune in cui si trova l’impianto entro 30 giorni dalla conclusione dei lavori, ma solo per gli edifici che sono già in possesso del certificato di agibilità.
Nel caso di nuove costruzioni, la dichiarazione di conformità costituisce un elemento essenziale da allegare al certificato di agibilità.
Lo Sportello Unico del Comune deve inoltrare una copia della dichiarazione di conformità alla Camera di Commercio competente per il territorio.
Eventuali violazioni accertate da parte delle imprese installatrici vengono comunicate alla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura competente per territorio, che procede a registrare l’infrazione nell’Albo provinciale delle imprese artigiane o nel Registro delle imprese presso cui l’impresa inadempiente risulta essere iscritta, attraverso la redazione di un apposito verbale.
L’installazione di un ascensore su un’area condominiale, allo scopo di eliminare le barriere architettoniche, costituisce un’innovazione che, secondo l’articolo 2, comma 1, della legge 13/1989, può essere approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’articolo 1120, secondo comma, del Codice civile (in riferimento all’articolo 1136, secondo comma, del Codice stesso, vale a dire con la maggioranza degli intervenuti che rappresenti metà del valore dei millesimi).
Se l’adunanza condominiale esprime delibera contraria oppure omette di pronunciarsi, il portatore di handicap può chiedere per iscritto che si esegua l’opera, la quale, trascorsi inutilmente tre mesi, può essere installata, a proprie spese, dal richiedente (articolo 2, comma 2, della legge 13/1989).
A parte qualche voce in contrasto (per esempio, la sentenza della Cassazione civile, sezione VI, del 14 settembre 2017, n. 21339), l’orientamento prevalente della Suprema Corte appare quello espresso dalla sentenza della seconda sezione civile 28 marzo 2017, n. 7938, per cui “la legge 13 del 1989, in materia di eliminazione di barriere architettoniche, costituisce espressione di un principio di solidarietà sociale e persegue finalità di carattere pubblicistico volte a favorire, nell’interesse generale, l’accessibilità agli edifici”.
Posto ciò, sempre secondo la medesima sentenza, neppure il regolamento condominiale che disponga regole per il rispetto del decoro architettonico può limitare l’installazione dell’ascensore. A maggior ragione non possono farlo i singoli condòmini, o le delibere assembleari.
In particolare, sempre la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che “nel verificare se una nuova opera costituisce una turbativa al godimento di un condòmino occorre verificare se questa è stata realizzata per eliminare barriere architettoniche ad un disabile residente nello stabile (fattispecie relativa all’abbattimento di un muro perimetrale per l’apertura di una porta d’ingresso di un ascensore)” (Cassazione civile, sezione II, sentenza12 aprile 2018, n. 9101).
I condòmini dissenzienti sono esonerati dalla spesa, in applicazione dell’articolo 1121 del Codice civile, perché l’ascensore è opera suscettibile di utilizzazione separata; tuttavia, possono successivamente farne uso partecipando ai costi.
Concludendo, l’installazione ex novo dell’ascensore non richiederà la maggioranza dell’assemblea dei condòmini, neppure per un apparecchio esterno all’edificio, e che i condòmini dissenzienti non sono obbligati a partecipare alla spesa.
Le spese per la sostituzione della pulsantiera si ripartiscono tra tutti i condòmini per millesimi di proprietà, a patto che il regolamento condominiale contrattuale, se esistente, non disponga diversamente.
Infatti il Codice civile, all’articolo 1123, comma 1, dispone che “le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza, sono sostenute dai condòmini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione”.
Nei cantieri edili un addetto perde la vita ogni due giorni. E in un caso su tre lavora in una realtà imprenditoriale diversa. Come l’installazione degli impianti, settore al quale si applica il contratto dei metalmeccanici come previsto dagli accordi sindacali tra le parti sociali.
A sottolinearlo è la Cgia di Mestre, che ha elaborato alcune statistiche sui morti sul lavoro. Dal report si evince che è il cantiere il luogo a maggior rischio. Questo perché le maestranze che esercitano l’attività edile ma non dispongono del contratto corrispondente non sono tenute a frequentare i corsi di formazione obbligatori previsti per gli edili. Ciò rende i lavoratori meno consapevoli e meno preparati ad affrontare i rischi e i pericoli che possono incorrere durante la giornata lavorativa.
I dati disponibili – per la Cgia – non consentono di «soppesare» quante imprese dell’edilizia applicano il contratto metalmeccanico al posto quello edile. Ma è evidente che nei cantieri accedono comunque troppi addetti che non hanno ricevuto un’adeguata formazione in materia di sicurezza.
Se tra le principali irregolarità riscontrate dall’Ispettorato del Lavoro durante l’attività di controllo emergono, in particolar modo, i ponteggi non ancorati correttamente, l’assenza di percorsi all’interno del cantiere dedicati ai mezzi e/o ai pedoni o la mancanza/inadeguatezza di dispositivi di protezione collettivi (parapetti, armature, barriere), vuol dire che il lavoro da fare in materia di prevenzione è ancora tantissimo.
Secondo la banca dati Inail, in Italia nel 2022 sono stati denunciati 1.208 incidenti mortali nei luoghi di lavoro, di cui 175 – praticamente uno ogni due giorni – hanno interessato il comparto delle costruzioni.
Tra i decessi avvenuti in questo settore ben 63 (ovvero il 36 per cento del totale), erano lavoratori del settore dell’installazione degli impianti. Un’incidenza, quest’ultima, che è aumentata notevolmente rispetto a quella registrata negli anni precedenti.
A livello territoriale le situazioni più critiche riguardano il Piemonte (65 per cento), la Liguria e l’Umbria (entrambe con il 50 per cento), la Lombardia con il 40,7 per cento e il Friuli-Venezia Giulia con il 40 per cento.
Senza contare, poi, la presenza endemica nel settore dell’edilizia dei lavoratori in nero. Lavoratori completamente sconosciuti al fisco, all’Inps e all’Inail che vengono pagati in contanti ogni fine settimana.
Secondo le stime dell’Istat, negli ultimi anni il fenomeno nel suo complesso è in calo, tuttavia gli irregolari presenti nell’edilizia ammonterebbero a 220.200. Segnaliamo, invece, che il tasso di irregolarità delle costruzioni nel 2021 (ultimo dato disponibile) era al 13,3 per cento: tra tutti i settori economici presenti nel Paese, solo l’Agricoltura con il 16,8 per cento e gli altri servizi alle persone (colf, badanti, cura della persona, etc.) con il 42,6 per cento presentavano un tasso superiore alle costruzioni.
In assenza di una diversa disposizione contenuta nel regolamento condominiale contrattuale, se esistente, si ritiene che il condòmino possa utilizzare l’ascensore anche per l’esecuzione di opere riguardanti la ristrutturazione di proprietà esclusive.
Sul tema specifico, si è espressa la Corte di Cassazione, con la sentenza 6 aprile 1982, n. 2117, secondo cui in condominio trova applicazione il principio ex articolo 1102 del Codice civile, “che consente al singolo condòmino di fare uso della cosa comune anche per un suo fine particolare, con conseguente possibilità di ritrarre dal bene una specifica utilità aggiuntiva rispetto a quelle generali ridondanti a favore degli altri condòmini, con il solo limite che non ne derivi una lesione del pari diritto spettante a questi ultimi”.
“Da tanto consegue – prosegue la sentenza – che in difetto di specifiche limitazioni stabilite dal regolamento di condominio, l’uso dell’ascensore per il trasporto di materiale edilizio può essere legittimamente inibito al singolo condòmino solo qualora venga concretamente e specificamente accertato che esso risulti dannoso, sia compromettendo la buona conservazione delle strutture portanti e del relativo abitacolo, sia ostacolando la tempestiva e conveniente utilizzazione del servizio da parte degli altri condòmini, in relazione alle frequenze giornaliere, alla durata e all’eventuale orario di esercizio del suddetto uso particolare, alle cautele adoperate per la custodia delle cose trasportate”.
Si segnala che anche la sentenza della Cassazione 6 febbraio 1098, n. 686, è di questo stesso tenore.
Detto questo, eventuali danni conseguenti ad un uso improprio dell’impianto saranno a carico del condòmino che sta effettuando i lavori di ristrutturazione.