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L’USUCAPIONE DI UN BENE CONDOMINIALE OCCUPATO ABUSIVAMENTE

[A cura di: Mauro Simone, pres. APPC – ALAC Area Metropolitana di Bari – Giuseppe Simone vice segr. naz. APPC]
Talvolta si verifica un utilizzo abusivo dei beni condominiali da parte di taluni condòmini. Casi scolastici di alterazione e occupazione di parti comuni da parte del singolo condomino sono quelli del sottoscala o della cantina del pianerottolo inglobato nella proprietà individuale e sottratti al godimento degli altri condòmini. Quali sono gli obblighi dell’amministratore di condominio in simili circostanze?
Innanzitutto occorre premettere che il sostenere, come talvolta accade, che gli anzidetti spazi comuni non erano in precedenza mai stati utilizzati o che trattasi di spazi ritenuti all’apparenza di scarsa utilità per il condominio non giustifica la natura abusiva e illecita della condotta del singolo condomino. L’amministratore è tenuto ad intervenire tempestivamente per far cessare l’abuso, eventualmente anche ricorrendo all’Autorità Giudiziaria, sia per far terminare in via d’urgenza l’illegittimità, sia per ottenere il ristoro dei danni eventualmente subiti dalla compagine condominiale.
L’amministratore ha una duplice responsabilità, sia civile sia penale, e ne risponde personalmente se le dette condotte producono il verificarsi di danni per il condominio o per alcune persone. L’amministratore è penalmente responsabile per omissione, ad esempio, nel caso in cui l’utilizzo abusivo delle parti comuni pregiudichi la sicurezza dello stabile o si verifichino eventi di danno alle persone.
Non vanno neppure escluse conseguenze di carattere patrimoniale, nell’ipotesi in cui l’occupazione o l’annessione di una parte comune da parte del singolo sia diventata ormai definitiva e incontestabile, pregiudicando così la possibilità di intraprendere nell’interesse dei condòmini azioni cautelari e ogni altra possibilità di tutela. Infatti, il condominio se rimane a lungo inerte di fronte all’occupazione abusiva di uno spazio comune corre il rischio che il bene condominiale (sottoscala, pianerottolo o cantina, etc) venga usucapito dal singolo condomino. Ovviamente va accertato, nel caso concreto, che non si tratti di un uso più intenso o diverso da quello degli altri condòmini, ai sensi dell’art. 1102 c.c., in quanto ciò non sarebbe idoneo a mutare il titolo del possesso.
In vero, non sono ritenuti idonei a usucapire i beni comuni i semplici atti di gestione, ma occorre un comportamento tale da evidenziare inequivocabilmente da parte del singolo il possesso esclusivo e l’“animo domini” sulla cosa comune per la durata di 20 anni, così da escludere di fatto dal godimento di un bene gli altri condòmini.
Per alcuni beni come il sottotetto, quando non costituisce pertinenza dell’appartamento dell’ultimo piano e assolve all’esclusiva funzione di isolare i vani del sottostante alloggio, non è invece configurabile un possesso idoneo ad usucapirlo, poiché si qualifica come danno da “lucro cessante”, se manca il consenso unanime di tutti i partecipanti alla collettività condominiale (Cass. 11184/2017), l’utilizzazione in via esclusiva del bene comune da parte del singolo condomino.

DANNI CAUSATI DALLA CONDENSA: IL CONDOMINIO NON È RESPONSABILE

[A cura di: Maurizio Zichella – membro Acap e vice presidente nazionale Arco, Associazione revisori contabili condominiali]

La sentenza n. 15615/2017, depositata il 22 giugno 2017 dalla VI Sez. Civile della Corte di Cassazione, tratta una fattispecie che molto spesso accade in ambito condominiale: la richiesta di risarcimento dei danni riconducibili al fenomeno della condensa che si presenta all’interno dell’appartamento.

LA CONDENSA

Una premessa: che cos’è la condensa? L’umidità di condensa si origina quando, a causa di un repentino cambiamento di temperatura, il vapore acqueo passa bruscamente dallo stato aeriforme a quello liquido, formando una miriade di goccioline sulle superfici piane di pareti e soffitti. Il vapore acqueo proviene da varie fonti, e in particolare:

– dalla normale umidità della stanza;

– dalla respirazione delle persone presenti;

– dalle operazioni di cucina, e specialmente dalla bollitura dell’acqua;

– dalla saturazione di umidità che si ottiene in bagno ad esempio durante una doccia calda.

Il cambiamento di temperatura viene invece favorito da diversi elementi, tra cui:

– un cattivo o inefficiente isolamento termico delle pareti perimetrali o del tetto;

– spifferi e correnti d’aria causati da infissi vecchi o con guarnizioni inefficienti;

– presenza di ponti termici, soprattutto nei fronti esposti a nord;

pochi ricambi d’aria e/o ventilazione insufficiente;

– uso di materiali (pitture, rivestimenti o isolamenti) non traspiranti, tali cioè da non consentire l’evaporazione e/o dispersione verso l’esterno di una porzione dell’umidità normalmente contenuta nelle murature.

LA SENTENZA

Torniamo alla sentenza in esame. La VI Sez. Civile della Cassazione conferma la sentenza della Corte d’Appello di Catania, la quale ha condannato il condominio ad effettuare i lavori alla facciata condominiale eliminando le micro fessurazioni presenti sulla parete esterna. Allo stesso tempo ha rigettato la richiesta di risarcimento danni avanzata dai condòmini, per la tinteggiatura dei vani interessati.

La motivazione, confermata dalla Cassazione, è che si ritiene – riferendosi alle risultanze della C.T.U – che vi sia un significato diverso da quello preteso dai condòmini danneggiati, vale a dire che, piuttosto che un concorso di cause produttive di un unico danno, è stata ritenuta valida la tesi secondo la quale solo alcuni danni lamentati dagli attori fossero riconducibili a responsabilità del condominio ed erano quelli ascrivibili alle micro fessurazioni presenti sulla facciata condominiale.

Per quanto riguarda, invece, i danni provocati dalla condensa, la causa è consistita in un fatto naturale, che si sarebbe verificato comunque, anche se il condominio avesse provveduto alla manutenzione della facciata, escludendo, quindi l’esistenza di un nesso di casualità, tra l’assenza di manutenzione e la condensa, e arrivando alla conclusione che il condominio non è responsabile dei danni provocati all’interno dell’appartamento.

CONDOMINIO: I CRITERI PER RIPARTIRE LE SPESE DI MANUTENZIONE DELL’ASCENSORE

[A cura di: strudio legale MaBe & Partners]

Il regolamento condominiale prevedeva che le spese per la manutenzione delle scale avvenissero ai sensi dell’art. 1124 c.c.; negli atti di acquisto dei condòmini era altresì previsto che “la ripartizione delle spese condominiali verrà fatta in proporzione ai millesimi di proprietà e in conformità a quanto disposto dal regolamento di condominio”.

Dato che il regolamento de quo non prevedeva alcuna regola in tema di ascensore, le spese di bilancio sull’uso dell’ascensore erano state suddivise dal condominio soltanto secondo i millesimi di proprietà e non anche secondo l’altezza di piano. Un condomino aveva però impugnato tale computo delle spese lamentando una erronea ripartizione degli oneri relativi al servizio di ascensore. Tuttavia, sia Tribunale di Verona sia la Corte di Appello, respingevano nel merito tale impugnativa.

In sede di ricorso in Cassazione, il ricorrente rilevava nuovamente l’erroneità nella ripartizione delle spese e indicava altresì un altro vizio della decisione di secondo grado circa la celebrazione della assemblea e la partecipazione per delega dei condòmini. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 8015 del 28 marzo 2017, ha ribadito il principio ormai consolidato secondo il quale la regola posta dall’art. 1124 c.c. in mancanza di criteri convenzionali, è applicabile per analogia, ricorrendo l’identica “ratio”, alle spese relative alla conservazione e alla manutenzione dell’ascensore già esistente.

Circa la clausola del regolamento condominiale che dispone che le spese di manutenzione delle scale vadano ripartite secondo l’art. 1124 c.c., la Corte ha affermato che “non può affatto essere intesa come convenzione contraria alla suddivisione delle spese di manutenzione degli ascensori secondo lo stesso criterio; né tanto meno vale quale deroga all’art. 1124 c.c. la clausola contenuta nell’atto di acquisto che prevede che la ripartizione delle spese condominiali avvenga secondo i millesimi e in conformità a quanto disposto dal regolamento”.

COSTRUISCE SU UN SUO TERRENO E SI TRASFERISCE NEL NUOVO ALLOGGIO: BONUS PRIMA CASA SALVO

[A cura di: Corrado Sforza Fogliani – presidente centro studi Confedilizia]

L’Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 13/E del 26.1.2017, ha chiarito – alla luce del costante orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità sul punto – che il contribuente che vende entro cinque anni l’immobile acquistato con i benefici “prima casa”, ed entro un anno dalla cessione costruisca un altro immobile ad uso abitativo (diverso dalle categorie catastali A/1, A/8 e A/9) su un terreno di cui il contribuente sia già proprietario al momento della cessione dell’immobile agevolato, non perde l’agevolazione. Naturalmente, il tutto in presenza di utilizzo del nuovo immobile come dimora abituale del contribuente. 

In breve, le Entrate, contrariamente a quanto finora affermato (cfr. risoluzione n. 44/E del 16.5.2004 e circolare n. 38/E del 12.8.2005), precisano che quello che rileva ai fini del beneficio è il momento edificatorio. Infatti – come la Corte di Cassazione ha più volte sancito – non assume rilevanza il momento di acquisizione del terreno sul quale dovrà sorgere l’immobile da adibire ad abitazione principale, essendo sufficiente, affinché il contribuente conservi i benefici fiscali previsti per l’acquisto della c.d. “prima casa”, che “entro un anno dall’alienazione del primo immobile per il quale ne aveva fruito, abbia a realizzare su un proprio terreno un fabbricato, dando concreta attuazione al proposito di adibirvi effettivamente la propria abitazione principale”. 

Con questa risoluzione, l’Agenzia torna sui suoi passi e si uniforma alla Cassazione (da ultimo, cfr. sentt. n. 18214 del 16.9.2016 e n. 13550 dell’1.7.2016), con invito alle strutture territoriali a riesaminare le controversie pendenti concernenti la materia in esame e, ove l’attività accertativa dell’Ufficio sia stata effettuata secondo criteri non conformi a quelli espressi dai giudici di legittimità, ad abbandonare – con le modalità di rito, tenendo conto dello stato e del grado di giudizio – la pretesa tributaria, sempre che non siano sostenibili altre questioni.

LOCAZIONI: DOPPIA IMPOSTA DI REGISTRO PER I CONTRATTI CON CLAUSOLE PENALI?

[A cura di: Achille Colombo Clerici – presidente Assoedilizia]
Alcuni soci di Assoedilizia, che hanno regolarmente registrato contratti di locazione negli anni scorsi, si sono visti notificare ad opera di alcuni dei sei ex Uffici del Registro di Milano, avvisi di liquidazione e di irrogazione delle sanzioni per omesso pagamento dell’imposta di registro relativa ai contratti di locazione stessi. 
È un orientamento degli uffici del tutto nuovo. Il motivo è che questi contratti conterrebbero delle “clausole penali” che prevedono una maggiorazione degli interessi legali in caso di ritardato pagamento del canone o degli oneri accessori. Si tratta, diciamo subito, di iniziative del tutto infondate, che mostrano, da un lato come il fisco si accanisca sempre e soprattutto su chi si preoccupa di esser ligio alla legge e di pagare le tasse (si tratta di contratti regolarmente registrati) e dall’altro come il rapporto con i contribuenti, nonostante le tante promesse e nonostante i proclami dello Statuto del Contribuente, non sia amichevole, ma veda nel Fisco una vera controparte, animosa e occhiuta, del contribuente stesso. 
LA REGISTRAZIONE
Ma vediamo meglio la questione. Per registrare un contratto di locazione si può procedere in via telematica mediante un software che l’Agenzia delle Entrate mette a disposizione dei contribuenti, oppure materialmente in via cartacea presentando il contratto presso uno degli uffici dell’agenzia. Orbene, in nessuno dei due casi era possibile, fino a qualche giorno addietro, neppure volendolo fare, registrare tali clausole penali pagando la relativa imposta. Il software non solo non avvisava il contribuente, ma neppure gli consentiva il calcolo dell’imposta aggiuntiva; mentre agli sportelli gli impiegati accettavano le richieste di registrazione senza nulla segnalare. 
Non solo: non esisteva neppure un codice tributo con il quale pagare la pretesa imposta sulle pretese clausole penali. Come se ciò non bastasse, il sito dell’Agenzia delle entrate, nella sezione dedicata alla registrazione delle locazioni, nulla diceva a proposito delle clausole penali come pure nulla diceva la guida dell’Agenzia alla registrazione dei contratti di locazione. Il tutto con buona pace del rapporto con i contribuenti che non vengono informati preventivamente, ma sanzionati a posteriori. Senza contare del comportamento differente dei vari uffici: alcune sedi hanno applicato sanzioni, altre no. 
NUOVO MODELLO
Solo da qualche giorno l’Agenza delle Entrate ha diffuso un nuovo modello, attraverso il quale sarebbe possibile teoricamente (visto che il modello entra in funzione il 18 settembre prossimo) la registrazione di siffatte clausole penali. A fronte, dunque, delle notificazioni intervenute, quand’anche fosse corretta l’interpretazione di questi uffici, il che decisamente contestiamo, va rilevato come il contribuente non fosse stato tempestivamente informato del mutato orientamento degli uffici ed, anche se lo fosse stato, non avesse modo alcuno di procedere al pagamento dell’imposta. 
Ma il vero paradosso è che l’interpretazione di questi uffici è del tutto infondata. Gli uffici giustificano l’autonoma imposizione sulla base dell’art. 21 del TU sull’imposta di registro il quale prevede che “Se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di esse è soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto.” Quindi se con un solo atto vengono stipulati più contratti, ciascuno di essi sarà soggetto ad un’autonoma imposta di registro secondo le regola specifiche per quel contratto. 
LA TASSAZIONE
Ma è sempre l’art.21 a stabilire che “Se le disposizioni contenute nell’atto derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, l’imposta si applica come se l’atto contenesse la sola disposizione che dà luogo alla imposizione più onerosa”. Quindi, in presenza di pattuizioni collegate tra loro e l’una derivante dall’altra, viene tassata solo quella che comporta la tassazione maggiore. Come è possibile stabilire se si è in presenza di disposizioni autonome ? Evidentemente quando presentano almeno uno degli elementi caratterizzanti diverso. Viene qui in considerazione il concetto di causa (nel senso giuridico del termine) che, in caso di pattuizione circa il pagamento di interessi di mora, non si configura in modo autonomo e distinto rispetto a quella dell’obbligazione principale del contratto di locazione, ossia del pagamento del canone e delle spese. La penale, nel caso in questione, non si configura come penale in senso tecnico-giuridico; in altri termini non è una pattuizione autonoma ma deriva direttamente dall’obbligazione di pagamento del canone e sta o cade con la stessa. 
In altri termini, questo patto non ha vita autonoma, non è cioè una autonoma disposizione. Quindi si è in presenza di un caso in cui le disposizioni derivano le une dalle altre e non possono essere autonomamente tassate. Ma la non autonoma tassabilità delle clausole in esame si fonda anche sul fatto che le stesse sono la fissazione convenzionale della misura degli interessi moratori già previsti per legge ex art.1124 c.c. Anche sotto questo profilo non possono considerarsi quindi autonome disposizioni.

SEPARAZIONE E CASA CONIUGALE: CHI PAGA LE SPESE CONDOMINIALI?

[A cura di: avv. Rodolfo Cusano]
In un Paese dove le separazione e i divorzi interessano una famiglia su due è argomento attuale stabilire se il coniuge assegnatario della casa coniugale di proprietà del marito è tenuto o meno al pagamento degli oneri condominiali e di quali. 
Fin dalla sua introduzione nel nostro ordinamento, l’istituto dell’assegnazione della casa familiare è stato oggetto di intensi dibattiti in merito alla sua natura giuridica. Alcuni autori lo hanno considerato come un istituto di natura reale assimilabile al diritto di abitazione; altra parte della dottrina e della giurisprudenza ha preso le distanze da siffatta tesi, giustificando tale dissenso sulla base del fatto che tra i modi di costituzione dei diritti reali – che, com’è noto, sono tassativamente previsti dalla legge – il legislatore non contempla quello per disposizione del giudice.
L’assegnazione della casa familiare, invero, si fonda su un provvedimento giudiziale emanato in virtù di criteri a carattere preferenziale. La sua durata non è determinata sin dall’origine ma dipende, piuttosto, da circostanze accidentali. Sulla base di tali considerazioni sono venute alla luce diverse opinioni. Alcuni hanno, infatti, ritenuto il diritto dell’assegnatario paragonabile a quello spettante al comodatario. Anche in questo caso non mancano evidenti distinzioni, una per tutte: l’obbligo alla restituzione dell’immobile concesso in comodato sancito dagli articoli 1804, terzo comma, e 1809, secondo comma, c.c. Altri hanno ritenuto il fenomeno dell’assegnazione della casa familiare assimilabile ad una locazione, seppure manchi, nell’assegnazione, il requisito del corrispettivo per l’utilizzazione dell’immobile, anche se la Suprema Corte (Cass. n. 4529/1999) non ha mancato, in passato, di evidenziare come i due istituti siano profondamente differenti per natura, funzione e durata.
Il diritto all’assegnazione quale diritto personale di godimento (atipico) 
Infatti, la giurisprudenza (per tutte Cass. n. 11096/2002) sembra concorde nel ritenere che il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa coniugale attribuisca al coniuge assegnatario un diritto personale di godimento, diritto atipico in quanto, fino ad oggi, non disciplinato espressamente dalla legge. Fatta questa premessa è adesso necessario analizzare come si possa individuare il soggetto obbligato al pagamento degli oneri condominiali nell’ipotesi in cui, a seguito della separazione personale, un appartamento di proprietà di un coniuge venga dal giudice assegnato all’altro coniuge non proprietario.
La Suprema Corte, invero, si è già pronunciata con la nota sentenza n. 18476/2005 su tale problema, affermando che il giudice di merito, che in sede di separazione coniugale disponga l’assegnazione della casa familiare al coniuge che non sia titolare del diritto di proprietà sull’immobile o non sia titolare del diritto di godimento possa stabilire la totale gratuità dell’assegnazione ponendo tutte le spese a carico del coniuge non assegnatario, ivi compresi gli oneri condominiali. A tal fine, tuttavia, è necessaria una statuizione espressa e non equivoca del decidente. Infatti, nella diversa ipotesi in cui il giudice non intervenga espressamente su tale punto e si limiti a dichiarare l’assegnazione, occorre concludere che quest’ultima esoneri il coniuge assegnatario unicamente dal pagamento di un corrispettivo per l’utilizzo dell’immobile. In questa ipotesi la gratuità dell’assegnazione dovrà essere riferita soltanto all’uso dell’abitazione medesima e «non si estende alle spese correlate a detto uso (ivi comprese quelle condominiali, che riguardano la manutenzione delle cose comuni poste a servizio anche dell’abitazione familiare), onde tali spese vanno legittimamente poste a carico del coniuge assegnatario».
È opportuno sottolineare che soltanto il giudice della separazione ha la possibilità di statuire su detta questione. Conseguentemente, nel caso in cui il giudice decida espressamente come ripartire tutte le spese relative alla casa coniugale oggetto dell’assegnazione, occorrerà indubbiamente uniformarsi alle sue statuizioni. Nella diversa ipotesi in cui il giudice abbia assegnato la casa al coniuge non proprietario sic et simpliciter, le spese condominiali dovranno essere poste a carico del coniuge assegnatario.
L’obbligo dell’assegnatario non proprietario è limitato al pagamento degli oneri condominiali ordinari e non anche di quelli straordinari
La Cassazione, nel giudizio a seguito del quale è stata emessa la succitata sentenza, stava inoltre per pronunciarsi su un’altra questione di particolare interesse, ovvero, se, nel caso in cui gli oneri condominiali siano da ritenere a carico del coniuge assegnatario non proprietario, questi sia obbligato al pagamento di tutte le spese indistintamente o se, viceversa, debba effettuarsi una distinzione tra spese ordinarie, spese di conservazione e spese straordinarie. Nel predetto giudizio, infatti, il coniuge assegnatario della casa familiare sosteneva che tra gli oneri condominiali di cui si chiedeva il pagamento ve ne fossero alcuni che, a suo avviso, sarebbero dovuti essere posti necessariamente a carico del coniuge proprietario dell’appartamento (nella specie: la spesa per il portierato e la spesa per l’assicurazione dell’immobile). La Suprema Corte non ha potuto decidere su tale questione a causa dell’omissione, da parte del ricorrente, dell’indicazione analitica delle voci relative alle spese straordinarie contestate, derivando da ciò l’impossibilità di accertarne l’effettiva presenza e la concreta misura e il conseguente impedimento per la Suprema Corte di apprezzare la fondatezza della doglianza in argomento. 
Ciononostante, anche in mancanza di una statuizione della Cassazione sulla questione, sembra opportuno ed equo considerare a carico del coniuge assegnatario non proprietario soltanto le spese ordinarie ed a carico del coniuge proprietario le spese straordinarie e quelle di conservazione. 
Il Tribunale di Mantova (sent. n. 229/2007) ha espressamente dichiarato di condividere l’orientamento secondo cui «se alla moglie viene attribuito il diritto di abitare la casa di proprietà del marito, senza che nulla si stabilisca circa le spese inerenti all’immobile, queste devono essere ripartite secondo criteri desumibili dalla disciplina normativa degli istituti giuridici in cui si verifica analoga situazione di distacco soggettivo del godimento dell’immobile dal diritto di proprietà: saranno quindi a carico del titolare del diritto di godimento tutte le spese per le riparazioni ordinarie dipendenti da deterioramenti prodotti dall’uso e non invece da vetustà e caso fortuito (v. articoli 1575, n. 2), 1576, 1609 c.c.) che dovranno essere poste a carico del proprietario unitamente alle spese di carattere straordinario inerenti alla proprietà o alla sua conservazione».
Il Tribunale di Mantova ha rilevato un’analogia tra la situazione derivante dal provvedimento di assegnazione della casa coniugale al coniuge non proprietario e il rapporto di locazione e ha conseguentemente risolto il problema della ripartizione delle spese applicando al primo caso citato le norme dedicate al contratto di locazione. Sebbene la sentenza si riferisse a spese relative a riparazioni interne all’appartamento, questa soluzione interpretativa può bene essere seguita ed applicata anche nel caso in cui si tratti di spese condominiali, atteso che anche tra queste si distingue tra spese ordinarie e straordinarie, di manutenzione e di conservazione. 
Alla luce di quanto esposto è possibile concludere che l’amministratore di un condominio, al fine di ripartire gli oneri condominiali tra il proprietario di un’unità immobiliare (spogliato del godimento della stessa) e il suo ex coniuge assegnatario della casa familiare, può e deve applicare analogicamente le norme dettate in tema di locazione. Quanto alle imposte è stato chiarito che rimangono sempre a carico del proprietario dell’immobile, ovvero del titolare di altro diritto reale. Pertanto, l’assegnatario della casa coniugale che non sia titolare di diritti reali sull’abitazione familiare, non può essere considerato soggetto passivo di imposta per il pagamento del summenzionato tributo (Cass. n. 18476/2005).
La posizione dell’usufruttuario
Per completezza di disamina, va anche esaminata la posizione di chi gode di un diritto di usufrutto della casa di abitazione. Ciò in quanto ben potrebbe accadere che un coniuge abbia la nuda proprietà e l’altro il solo usufrutto. In questo caso la situazione è del tutto diversa da quella precedentemente esaminata. Infatti, la riforma del condominio (L. 220/2012), nel modificare l’articolo 67 disp. att. c.c., ha chiarito anche la posizione dell’usufruttuario in merito al pagamento delle spese condominiali. La norma in esame, infatti, dopo aver chiarito che l’usufruttuario esercita il diritto di voto negli affari che attengono all’ordinaria amministrazione ed al semplice godimento delle cose e dei servizi comuni (nelle altre deliberazioni, invece, il diritto di voto spetta al nudo proprietario) prevede espressamente una responsabilità solidale del nudo proprietario e dell’usufruttuario per il pagamento dei contributi dovuti all’amministrazione condominiale.
Tale nuova disciplina prevista dall’articolo 67 disp. att. c.c., nel disporre la solidarietà tra usufruttuario e nudo proprietario, non distingue tra spese ordinarie (che a norma dell’articolo 1004 c.c. competono all’usufruttuario) e spese straordinarie (che a norma dell’articolo 1005 c.c. spettano al nudo proprietario). Ciò significa che la ripartizione (tra usufruttuario e nudo proprietario) degli oneri condominiali, a seconda della natura ordinaria o straordinaria della spesa relativa, è lasciata alla disciplina dei loro rapporti interni, ben potendo il condominio pretendere l’intero importo dovuto sia dall’usufruttuario sia dal nudo proprietario.

ATTO TRIBUTARIO CONSEGNATO AL PORTIERE: NON SERVE LA RACCOMANDATA AL DESTINATARIO

[A cura di: Massimo Cancedda, FiscoOggi – Agenzia delle Entrate]

Per la validità della notificazione dell’atto tributario, eseguita in via diretta a mezzo del servizio postale mediante consegna nelle mani del portiere, non è richiesto l’invio al destinatario della raccomandata informativa, prevista per analoga fattispecie dall’articolo 139 del codice di procedura civile. Così ha concluso la Corte suprema, con la sentenza 11619/2017, ove è stato altresì ribadito che la disciplina delle notifiche postali dirette è quella concernente il servizio postale ordinario e non quella dettata dalla legge 890/1982.

Vicenda processuale

Ricevuto un preavviso di fermo, l’interessato proponeva impugnazione al tribunale di Roma, rilevando l’omessa notifica della cartella di pagamento che ne costituiva il presupposto. La sfavorevole decisione di prime cure veniva riformata dalla Corte d’appello, che affermava la nullità della notifica dell’atto prodromico per violazione dell’articolo 7 della legge 890/1982. In particolare, il Collegio di secondo grado concludeva che per la ritualità della notifica postale della cartella – consegnata al portiere presso l’indirizzo di residenza del destinatario – sarebbe stato necessario l’invio all’interessato dell’apposita raccomandata informativa dell’avvenuta notificazione prevista dalla legge.

Ricorrendo in sede di legittimità, l’Agente della riscossione, per quanto d’interesse in questa sede, denunciava violazione dell’articolo 26 del Dpr 602/1973 e falsa applicazione dell’articolo 7 della legge 890/1982, per avere, a suo dire, il giudice di appello errato nell’applicare alla fattispecie quest’ultima norma riguardante ipotesi diversa da quella in discussione.

Pronuncia della Corte

L’esposta doglianza è stata accolta dalla Corte, che ha innanzitutto ricordato che, in base all’articolo 26 del Dpr 602/1973, la notifica della cartella può “essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento” e che, in tal caso, “la notifica si ha per avvenuta alla data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto dal ricevente o dal consegnatario, senza necessità di redigere un’apposita relata di notifica…”. 

In generale, spiegano i togati di piazza Cavour, quando l’ufficio si avvale di questa modalità semplificata di notifica, “alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle indicate dalla legge n. 890 del 1982 (Cass. n. 17598 del 2010, Cass. n. 911 del 2012, Cass. n. 14146 del 2014, Cass. 19771 del 2013, Cass. 16949 del 2014)” e, in caso di consegna del piego postale al portiere, l’invio della raccomandata informativa prevista dal quarto comma dell’articolo 139 cpc “non attiene alla perfezione dell’operazione di notificazione, sicché la sua omissione si risolve in una mera irregolarità di carattere estrinseco non integrante alcuna delle ipotesi di nullità previste dall’art. 160”.

Osservazioni

Non è infrequente che la notificazione di un atto venga eseguita a mezzo del servizio postale e che, in fase di recapito, l’atto venga ricevuto per conto del diretto interessato da qualcuno dei soggetti che la legge individua come legittimi consegnatari, persone tra le quali è ricompreso il portiere dello stabile che si trova all’indirizzo del destinatario. Al riguardo, ad esempio, l’articolo 7 della legge 890/1982 prevede al terzo comma che, quando la notificazione postale è eseguita secondo la disciplina prevista per gli “atti giudiziari”, il piego da notificare, in assenza di altri legittimi consegnatari, può essere consegnato anche “al portiere dello stabile ovvero a persona che, vincolata da rapporto di lavoro continuativo, è comunque tenuta alla distribuzione della posta al destinatario”. In questo caso, l’ultimo comma dello stesso articolo 7 stabilisce che l’agente postale fornisce al destinatario notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata: la mancanza di detto adempimento, per costante giurisprudenza, comporta la nullità della notificazione nei confronti del destinatario dell’atto (tra le altre, cfr Cassazione, 16209/2014, 10554/2015 e 992/2016).

Peraltro, l’articolo 14 della legge 890/1982 – analogamente a quanto stabilito dall’articolo 26 del Dpr 602/1973 per la cartella di pagamento – reca una disciplina speciale per gli atti tributari, stabilendo che la relativa notificazione può “avvenire con l’impiego di plico sigillato e può eseguirsi a mezzo della posta direttamente (vale a dire, senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario o di altro agente notificatore: cfr Cassazione, 3334/2017, 1980/2015 e 23117/2013) dagli uffici finanziari…”. Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito che, quando la notifica è eseguita dall’ufficio a mezzo del servizio postale in via diretta, non rilevano le disposizioni della legge 890/1982, che “concernono esclusivamente la notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario (o agente notificatore equiparato, tra cui il messo speciale autorizzato degli uffici finanziari)” (cfr Cassazione, 12217, 11094, 11007, 10245, 9614 e 9227, tutte del 2017), ma trova applicazione la disciplina prevista per le raccomandate cosiddette “ordinarie” dal Dpr 655/1982 e, ratione temporis, dai decreti del ministero delle Comunicazioni del 9 aprile 2001 e del ministero dello Sviluppo economico del 1° ottobre 2008; attualmente, si rendono applicabili le regole fissate dall’allegato A alla delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni del 20 giugno 2013, n. 385/13/Cons. Nelle richiamate discipline non è previsto che al recapito del piego in mani di persona diversa dal diretto interessato debba far seguito l’invio a quest’ultimo di una “comunicazione di avvenuta notifica”. 

Per costante giurisprudenza, quindi, in caso di notifica diretta a mezzo raccomandata postale, non occorre alcuna annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è consegnato il plico e l’atto recapitato all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, “stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 cod. civ., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione”; e ciò vale anche quando l’atto sia ricevuto dal portiere, senza che necessiti “l’ulteriore adempimento della raccomandata informativa, quale previsto dall’art. 7, 6° comma della L. n. 890/1982, analogamente a quanto disposto dall’art. 139, 4° comma c.p.c. in tema di notifica al portiere per ufficiale giudiziario” (cfr Cassazione, 6680/2016 e 23874/2015).

AFFITTI E REGISTRAZIONI ON LINE: DA SETTEMBRE IL NUOVO MODELLO RLI

[A cura di: FiscoOggi – Agenzia delle Entrate]

Pronto il nuovo Rli, il modello per registrare i contratti di locazione e affitto di immobili e per comunicare eventuali proroghe, cessioni, risoluzioni e subentri, nonché per esercitare o revocare l’opzione per il regime della cedolare secca. 

L’approvazione del modello è arrivata con il provvedimento delle Entrate del 15 giugno 2017, che vi ha dato il via libera, insieme alle relative istruzioni e alle specifiche tecniche per la trasmissione telematica. Il nuovo Rli entrerà ufficialmente in servizio dal prossimo 19 settembre, in sostituzione di quello approvato il 10 gennaio 2014. Quest’ultimo rimane in carica, da solo, fino al giorno precedente: scambio di testimone tra i due, quindi, senza periodi di sovrapposizione.

LE FUNZIONI

Il modello è utilizzato anche per: registrare contestualmente i contratti di affitto di terreni e degli annessi titoli Pac (in sostituzione del modello 69); comunicare i dati catastali dell’immobile oggetto di locazione o di affitto; denunciare i contratti di locazione non registrati, i contratti di locazione con canone superiore a quello registrato o i comodati fittizi; registrare i contratti di locazione con previsione di canoni differenti per le diverse annualità; registrare i contratti di locazione a tempo indeterminato; gestire la comunicazione della risoluzione o proroga tardiva in caso di cedolare secca; registrare i contratti di locazione di pertinenze concesse con atto separato rispetto all’immobile principale.

LE NOVITÀ

Con il restyling, oltre all’inserimento di alcuni spazi che forniscono dati aggiuntivi riguardanti i soggetti interessati e il tipo di contratto, debutta il nuovo quadro E; deve essere compilato soltanto se per una o più annualità è previsto un canone differente e se la casella “Casi particolari” del quadro “A – Dati generali”, è stata valorizzata con i codici “1” o “3” che individuano, appunto, tale ipotesi. Il secondo codice, in particolare, indica che si è scelto di pagare l’imposta in un’unica soluzione per tutto il periodo del rapporto di locazione. Il canone per la prima annualità deve essere inserito nella sezione 1 del quadro A; per quelle successive, i canoni trovano posto nei campi del novello quadro E.

IMU E TASI, CONFEDILIZIA: “SERVE UN’ALIQUOTA RIDOTTA PER I CONTRATTI D’AFFITTO AGEVOLATI”

La scadenza dell’acconto 2017 di Imu e Tasi, scoccata lo scorso venerdì 16 giugno, ha portato nelle casse dei Comuni 10/11 miliardi di euro, e Confedilizia ha calcolato nell’8,8 per mille la media della somma delle aliquote Imu e Tasi deliberate dai Comuni capoluogo di provincia per gli immobili locati a “canone agevolato”, e nel 10,5 per mille l’aliquota media ordinaria.

A questo proposito, il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa (nella foto), ha dichiarato: “I dati sulle aliquote Imu e Tasi confermano l’urgenza di un intervento legislativo per salvare, almeno, l’affitto. Non si può lasciare ai Comuni la cura di un settore che – nell’ambito abitativo come in quello non abitativo – svolge, attraverso tante famiglie che hanno investito i propri risparmi negli immobili, una funzione economica e sociale indispensabile. Per quanto riguarda le abitazioni, quasi vent’anni fa il Parlamento introdusse una speciale categoria di contratti di locazione – i cosiddetti contratti concordati – fondata su un patto molto chiaro: canoni al di sotto di quelli di mercato in cambio di agevolazioni fiscali per i proprietari. Dopo la manovra Monti del 2011, la tassazione su questi immobili si è addirittura quadruplicata, annullando l’effetto della cedolare secca introdotta pochi mesi prima. E l’appetibilità degli affitti a canone calmierato si è di molto affievolita. Considerato che i Comuni prevedono solo raramente aliquote agevolate per le abitazioni locate attraverso questi contratti (la media dei capoluoghi di Provincia è dell’8,8 per mille e in molti casi vengono applicate addirittura le aliquote massime), è urgente la fissazione per legge di una misura massima della somma delle aliquote Imu-Tasi, che potrebbe essere individuata nel 4 per mille. Peraltro, il prossimo 31 dicembre scadrà il periodo di applicazione della misura del 10% della cedolare secca, valida per gli affitti a canone calmierato nei Comuni ad alta tensione abitativa. Considerata l’importanza – anche sociale – che riveste questa misura, è essenziale stabilizzarla, estendendo la sua applicabilità a tutta Italia”.

Ma ancora peggiore, secondo Spaziani Testa, è la situazione nel comparto delle locazioni non abitative: “I Comuni non prevedono quasi mai aliquote specifiche per la locazione di locali commerciali. Di conseguenza, in questi casi viene applicata l’aliquota ordinaria, che in media è pari al 10,5 per mille. Nel complesso, le imposte, statali e locali (ben 7: Irpef, addizionale regionale Irpef, addizionale comunale Irpef, Imu, Tasi, imposta di registro, imposta di bollo), arrivano ad erodere fino all’80% del canone di locazione, anche per via della irrisoria deduzione Irpef per le spese, pari al 5%. Senza considerare il rischio di morosità e quello di sfitto che contribuiscono ad azzerare la redditività dell’investimento. Anche qui si impone un intervento legislativo, sotto forma di estensione della cedolare secca all’affitto non abitativo ovvero di limite alla tassazione comunale”.

SE I CONDÒMINI SONO DISTURBATI DA CANI CHE ABBAIANO E PORTE CHE SBATTONO

L’attitudine dei rumori a disturbare il riposo delle persone non deve essere necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, ben potendo il giudice fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le testimonianze dei condòmini. È il principio di diritto richiamato dalla Cassazione con l’ordinanza 28409/2017 relativa a una vicenda di rumori molesti in condominio.

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CORTE DI CASSAZIONE

Sez. VII pen., ord. n. 28409/2017

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RITENUTO 

* che il Tribunale di Massa, con sentenza del 28 febbraio 2011, ha affermato la penale responsabilità di T.B. in ordine al reato di cui all’art. 659 cod. pen. (reato commesso ed accertato in Massa nel mese di aprile 2009); 

* che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione – tramite il proprio difensore – l’imputato, denunziando l’insussistenza del reato e lamentando violazione della legge processuale penale e manifesta illogicità della motivazione per avere il Tribunale affermato la penale responsabilità sulla base di una superficiale ed incompleta valutazione del materiale probatorio, attraverso argomentazioni manifestamente illogiche; 

* che, contrariamente all’assunto difensivo, il giudice di merito ha valorizzato, ai fini dell’affermazione di responsabilità, il complessivo materiale probatorio acquisito agli atti processuali; 

* che, nella specie (riguardante rumori provenienti dal continuo abbaiare di cani nelle ore notturne all’interno della abitazione ove gli stessi si trovavano e dall’urto continuo di tapparelle con disturbo permanente dei residenti nel condominio), sono stati accertati sulla base delle numerose e concordi testimonianze acquisite, rumori molesti insopportabili e continui cagionati dal frequente ed incontrollato abbaiare dei cani in ore notturne lasciati soli nell’assenza del proprietario dell’appartamento, nonché dallo sbattere di continuo di porte, finestre ed inferriate dell’abitazione: rumori tutti ascrivibili al T.B., che, solo dopo essere stato convocato dal Questore di Lucca reso edotto di quanto sopra dall’Amministratore del condominio cui si erano rivolti, esasperati, numerosi condòmini, nonché altri condòmini di edificio limitrofo per fare cessare i rumori molesti, ha modificato il proprio comportamento; 

* che è consolidato l’orientamento di questa Corte in materia di configurabilità del reato di cui all’art. 659 cod. pen. nel senso che l’attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non deve essere necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, ben potendo il giudice fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità (omissis); 

* che le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell’episodio e dell’attribuzione dello stesso alla persona dell’imputato non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata; 

* che le considerazioni svolte dalla difesa del ricorrente in ordine alla dichiarazioni dei testi sono sostanzialmente di tipo fattuale e come tali inammissibili in sede di legittimità; 

* che il ricorso, conseguentemente, va dichiarato inammissibile e, poiché la inammissibilità non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione, non può tenersi conto di eventuali cause di estinzione del reato intervenute successivamente alla pronuncia della decisione impugnata (omissis); 

– che, a norma dell’art. 616 c.p.p., alla declaratoria di inammissibilità – non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 1.000. 

P.Q.M. 

Dichrara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 1.000 alla Cassa delle Ammende.