La cantina va a fuoco
In tre in ospedale
Un uomo di 67 anni, residente in un condominio in provincia di Alessandria, è rimasto gravemente ferito a seguito di un incendio divampato nella sua cantina. Il 67enne è stato trasportato al Cto di Torino con ustioni di secondo e terzo grado sul 30% del corpo. A soccorrerlo sono stati due condòmini, rimasti leggermente intossicati nel tentativo di spegnere le fiamme con un idrante. Sul posto sono arrivati tempestivamente anche i vigili del fuoco, che hanno estinto il rogo e verificato le condizioni di sicurezza dell’edificio. Sono in corso le indagini per accertare le cause dell’incendio.
Tragedia domestica:
bimbo muore folgorato
Aveva poco più di due anni il bambino rimasto ucciso dopo aver infilato un oggetto metallico nella presa di corrente. La tragedia è avvenuta in un appartamento alle porte di Parma, dove il piccolo viveva insieme alla madre, il padre e la sorellina. Da una prima ricostruzione dei fatti risulta che in casa, assieme al minore, si trovasse soltanto la madre. Purtroppo però non si era accorta che il figlio aveva preso una frusta del frullatore per poi infilarla nella presa elettrica. Sbalzato all’indietro per la potente scossa, ha perso subito conoscenza ed è stato trasportato all’ospedale, dove è spirato poco dopo. Sotto shock la mamma, è stata colpita da un malore.
Lite per il cane
con lame e bastoni
Un giovane di 24 anni, residente al piano terra di una palazzina di Vicenza, ha deciso di affrontare i vicini di casa rumorosi arrampicandosi lungo la parete esterna del condominio, armato di una mezzaluna da cucina. Motivo: il cane degli inquilini del primo piano che non smetteva di abbaiare nonostante fosse passata la mezzanotte. Quando i padroni dell’animale si sono accorti del 24enne hanno chiamato la polizia, riprendendo la scena col cellulare. All’arrivo delle forze dell’ordine gli animi si erano calmati, ma a riaccendere la lite ci ha pensato il fidanzato della figlia del padrone del cane, giunto sul posto con un bastone. A quel punto gli agenti l’hanno bloccato e denunciato.
Spacciatore seriale
Vendeva droga da casa
Sequestrati trenta grammi di cocaina, tre di hashish, due di marijuana e tremila euro in contanti: questo il risultato del blitz messo in atto dai carabinieri di un comune in provincia di Perugia presso l’abitazione di un 40enne, arrestato. Durante la perquisizione della casa è stato trovato anche un bilancino elettronico e tutto il necessario per il confezionamento delle dosi. A seguito delle indagini è emerso che l’uomo, dedito allo spaccio, nonostante il recente trasferimento nella zona in poco tempo, era diventato un punto di riferimento per i tossicodipendenti della città. Per questo motivo il giudice ha deciso di disporne la custodia in carcere.
Furto in casa con riscatto
Quattro persone nei guai
È stata sgominata la banda di topi d’appartamento che circa un anno fa aveva messo a segno un colpo record da 250mila euro, svaligiando un’abitazione in provincia di Foggia. Il lauto bottino, composto da oggetti d’oro, denaro contante e titoli di credito, era stato poi oggetto di una trattativa tra le vittime del furto, che volevano recuperare il malloppo, e i malviventi. L’accordo raggiunto, però, non ha soddisfatto i legittimi proprietari che hanno deciso di rivolgersi ai carabinieri. Grazie alle intercettazioni telefoniche sono finiti in manette in quattro, tutti residenti nella zona e ritenuti responsabili, a vario titolo, dei reati di estorsione aggravata e ricettazione in concorso.
[A cura di: Ance Foggia]
Esclusione dalle sanzioni in caso di decadenza dai benefici “prima casa” ai fini dell’imposta di Registro, nell’ipotesi di acquisto, prima del 2014, di un’abitazione di lusso secondo i criteri del previgente D.M. 2 agosto 1969. Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione della Sentenza 11 maggio 2017, n. 11621, in materia di applicabilità dei benefici fiscali “prima casa”, ai fini dell’imposta di Registro (cfr. l’art. 1 della Tariffa, Parte Prima, allegata al D.P.R. 131/1986.).
In particolare, il caso di specie riguarda la compravendita di un’abitazione effettuata nel 2001, relativamente alla quale l’acquirente aveva fruito dei benefici “prima casa” ai fini dell’imposta di Registro (aliquota allora pari al 3%, anziché 9%), nonostante l’unità immobiliare avesse le caratteristiche c.d. “di lusso”, secondo i criteri del previgente D.M. 2 agosto 1969. Come noto, infatti, fino al 31 dicembre 2013 le agevolazioni fiscali (ai fini IVA e Registro) correlate all’acquisto di abitazioni da destinare a “prima casa”, trovavano applicazione unicamente a condizione che l’immobile fosse qualificato come “non di lusso”, sempre in base al predetto D.M. 2 agosto 1969.
Proprio con riferimento alle caratteristiche di tali abitazioni, il regime è cambiato dal 1° gennaio 2014 e la definizione “di lusso” è stata sostituita dall’accatastamento delle stesse nelle categorie A1 (abitazioni di tipo signorile), A8 (abitazioni in ville) ed A9 (castelli e palazzi con pregi artistici e storici). In sostanza, dal 2014 le agevolazioni “prima casa” (ai fini IVA e Registro) vengono riconosciute per l’acquisto di abitazioni accatastate nelle categorie diverse da A1, A8 ed A9, secondo un criterio puramente catastale.
Nella sentenza n. 11621/2017 la Cassazione, nel confermare la decadenza dai benefici “prima casa”, ha stabilito l’applicabilità dell’imposta di Registro nella misura ordinaria, sul presupposto che l’abitazione acquistata nel 2001 presentava le caratteristiche “di lusso” secondo i criteri del D.M. 2 agosto 1969, allora in vigore. Diversamente, è stata esclusa l’applicabilità della sanzione, proprio in considerazione dell’intervenuta modifica normativa che ha cancellato l’oggetto della falsa dichiarazione resa a suo tempo dal contribuente, relativa ai requisiti “non di lusso” dell’abitazione. In pratica, la Cassazione ha ritenuto che, nel caso di specie, è stato addirittura superato il principio del favor rei in materia di sanzioni amministrative per violazioni tributarie (cfr. l’art. 3, co. 2, del D. Lgs. 472/1997) poiché è cambiata proprio la disciplina sostanziale a cui è correlata la sanzione.
In linea generale, si ricorda che la sanzione applicabile in caso di decadenza dai benefici “prima casa”, ai fini dell’imposta di Registro è pari al 30% dell’imposta ordinaria. Infatti, a prescindere dalla circostanza che la violazione sia stata commessa in passato, l’applicabilità della sanzione, ove non ancora versata, deve essere valutata tenendo conto del regime fiscale ad oggi in vigore, con la conseguenza che il comportamento che avrebbe dato luogo alla sanzione non appare più rilevante, poiché riferito a “parametri normativi non più vigenti” (ossia i requisiti “non di lusso”, ora sostituiti dal criterio catastale).
Il principio espresso dalla Cassazione, secondo il quale la sanzione è stata esclusa in osservanza del nuovo criterio catastale che individua le abitazioni “di lusso”, può essere invocato anche ai fini IVA, nell’ipotesi di acquisto di abitazioni “di lusso” da imprese di costruzioni, effettuato prima del 13 dicembre 2014, in presenza di verifiche fiscali volte ad accertare la decadenza dai benefici “prima casa”.
[A cura di: Emiliano Marvulli – FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]
La vendita di un terreno sul quale, dopo l’acquisto, sono state realizzate opere intese a renderlo edificabile, che ne hanno aumentato il valore, genera sempre una plusvalenza tassabile ai fini Irpef, anche nell’ipotesi in cui il bene sia pervenuto al contribuente a seguito di successione mortis causa. Questo il principio ribadito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 13071 del 24 maggio 2017.
IL FATTO
L’amministrazione finanziaria notificava nei confronti di un contribuente un avviso di accertamento, contenente la determinazione di una plusvalenza derivante dalla cessione di un terreno di proprietà, sul quale erano state realizzate attività edificatorie. Avverso l’atto impositivo il contribuente proponeva prima ricorso in Commissione tributaria provinciale – parzialmente vinto con la riduzione alla metà del maggior reddito accertato – e, successivamente, dinanzi alla Commissione regionale, che lo accoglieva in toto, con conseguente annullamento dell’avviso di accertamento.
L’amministrazione finanziaria proponeva ricorso alla Commissione tributaria centrale, che lo rigettava sulla base del principio per cui non può ravvisarsi una plusvalenza in capo a un soggetto “che abbia ricevuto il bene, oggetto di realizzazione edificatoria, a titolo successorio”. L’amministrazione finanziaria, quindi, ha impugnato tale decisione dinanzi alla Corte di cassazione sulla base di due motivi. I giudici della Corte hanno accolto il principale motivo di impugnazione e hanno cassato con rinvio la sentenza.
LA DECISIONE
La questione posta all’attenzione dei giudici di legittimità ruota attorno alla corretta qualificazione e determinazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione di terreni, su cui sono state realizzate attività edificatorie, nella particolare ipotesi di acquisto per successione. In tutti i gradi del giudizio, i giudici di merito hanno escluso la qualificazione di plusvalenza imponibile perché, essendo stato acquisito l’immobile per successione mortis causa, non si genererebbe mai una plusvalenza tassabile in capo al contribuente.
I giudici della suprema Corte di cassazione hanno ribaltato il giudizio di merito e hanno accolto le doglianze dell’amministrazione finanziaria, che lamentava violazione dell’articolo 76, comma 3, del Dpr 597/1973 (vigente ratione temporis), contenente le disposizioni sui redditi derivanti da operazioni speculative. Secondo il citato articolo 76, è sempre fatta “con intenti speculativi, senza possibilità di prova contraria, l’esecuzione di opere intese a rendere edificabili i terreni inclusi in piani regolatori o in programmi di fabbricazione, e la successiva vendita anche parziale dei terreni”. Sulla base di tale principio, pertanto, il realizzo di una plusvalenza derivante dalla cessione di un terreno, su cui sono state realizzate opere edificatorie che ne hanno aumentato il valore, costituisce reddito tassabile ai fini delle imposte dirette, quand’anche il bene sia pervenuto al contribuente per successione o per divisione ereditaria.
Infatti, sulla scia di una precedente decisione assunta dai giudici di legittimità, la Corte ha ribadito che, “quando tra il momento dell’acquisto e quello dell’alienazione siano state compiute attività e operazioni intese ad aumentare il valore dei beni così pervenuti”, si genera, comunque, materia imponibile in capo al cedente, indipendentemente dalle modalità di acquisizione del cespite. In tale prospettiva, non può essere accolta la posizione delle Commissioni tributarie che, sulla base di un’erronea interpretazione del citato articolo 76, hanno affermato di voler privilegiare l’interpretazione restrittiva che porta a escludere, in ogni caso, l’esistenza di una plusvalenza tassabile “ove il bene sia pervenuto al contribuente a seguito di successione mortis causa”.
Rientra nelle attribuzioni dell’amministratore la difesa in giudizio delle delibere impugnate indipendentemente dal loro oggetto. Se non è stata l’assemblea a deliberare la lite ai sensi dell’art. 1132 c.c., il condomino dissenziente soggiace alla regola maggioritaria e, in tal caso, può solo ricorrere all’assemblea contro i provvedimenti dell’amministratore o al giudice contro la successiva delibera dell’assemblea.
Il riferimento è alla sentenza n. 7095/2017 della Corte di Cassazione. Di seguito la vicenda.
IL CASO
Il Tribunale annullava una delibera condominiale condannando il condominio alle spese di giudizio. In virtù del vincolo di solidarietà passiva, un condomino aveva anticipato anche la quota di un’altra condomina, verso la quale aveva in seguito attivato azione di regresso. Quest’ultima adiva il Giudice di Pace per condannare l’amministratore del condominio al risarcimento dei danni, per non aver provveduto a convocare ritualmente l’assemblea e per non aver comunicato la pendenza della lite.
Il Giudice di Pace condannava l’amministratore, il quale appellava la decisione, riformata dal Tribunale. La condomina ricorre per la cassazione della decisione di appello, ma la Suprema Corte rigetta il ricorso.
LA DECISIONE
La Cassazione ha dapprima esaminato l’appellabilità della sentenza del Giudice di Pace: “Sull’appellabilità delle sentenze pronunciate dal giudice di pace questa Corte ha avuto modo di affermare che per stabilire se la sentenza sia stata pronunciata secondo equità, e sia quindi appellabile solo nei limiti di cui all’art. 339, comma terzo, c.p.c., occorre avere riguardo non già al contenuto della decisione, ma al valore della causa, da determinarsi secondo i principi di cui agli artt. 10 e ss. c.p.c., e senza tenere conto del valore indicato dall’attore ai fini del pagamento del contributo unificato. Pertanto, ove l’attore abbia formulato dinanzi al giudice di pace una domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro inferiore a millecento euro (e cioè al limite dei giudizi di equità c.d. “necessaria”, ai sensi dell’art. 113, comma secondo, c.p.c.), accompagnandola però con la richiesta della diversa ed eventualmente maggior somma che “sarà ritenuta di giustizia”, la causa deve ritenersi – in difetto di tempestiva contestazione ai sensi dell’art. 14 c.p.c. – di valore indeterminato, e la sentenza che la conclude sarà appellabile senza i limiti prescritti dall’art. 339 c.p.c. (Cass. n. 9432/12; v. anche, non massimata, Cass. n. 10921/13).
In altra occasione, invece, è stato ritenuto che qualora l’attore, oltre a richiedere una somma specifica non superiore a euro 1.032,91, abbia anche concluso, in via alternativa o subordinata, per la condanna del convenuto al pagamento di una somma maggiore o minore da determinarsi nel corso del giudizio, siffatta ultima indicazione, pur non potendosi reputare mera clausola di stile, non può, tuttavia, ritenersi di per sé sola sufficiente a dimostrare la volontà dello stesso attore di chiedere una somma maggiore – ed ancor meno una somma superiore ad euro 1032,91 – in assenza di ogni altro indice interpretativo idoneo ad ingenerare quanto meno il dubbio che le circostanze dedotte siano potenzialmente idonee a superare il valore espressamente menzionato e, in particolare, quello entro il quale è ammessa la decisione secondo equità (Cass. n. 24153/10)”.
Nel caso specifico, la domanda chiedeva la condanna dell’amministratore “al pagamento in favore dell’attrice della somma di euro 238,21 per il risarcimento dei danni; e/o comunque, anche diversamente qualifìcata la domanda, (la condanna del) convenuto al pagamento della somma maggiore o minore che sarà ritenuta di giustizia oltre interessi come per legge ivi compresi quelli sugli interessi scaduti ex art. 1283 c. c. e svalutazione oltre al risarcimento di tutti i danni e/o le spese a qualsiasi titolo dovute, patrimoniali, dirette o indirette, presenti e future, nessuno escluso nella misura che verrà provata in corso in causa e/o equitativamente liquidata nei limiti della competenza del giudice adito”.
Il Collegio ha ritenuto che la causa fosse di valore indeterminato fino al limite di valore del Giudice di Pace: “L’ampia latitudine della pretesa risarcitoria, dichiaratamente aggiuntiva rispetto al solo importo di euro 238,21, e l’espressa volontà di ottenere anche quanto eccedente tale somma purché entro il limite della competenza generale del giudice adito, lasciano intendere che nel caso in esame la parte attrice abbia inteso superare consapevolmente i limiti del giudizio di equità c.d. necessaria del giudice di pace. Con la conseguenza che, non essendo stato contestato il valore così dichiarato, la causa deve ritenersi di valore indeterminato fino al limite della competenza per valore del giudice di pace (a nulla rilevando, per il premesso riferimento alla domanda e non al decisum, che la sentenza del primo giudice avesse riconosciuto in favore dell’attrice il solo importo di euro 238,21)”.
Passando quindi a esaminare i due motivi di ricorso, la Suprema Corte li ritiene entrambi infondati.
La Cassazione precisa che “la difesa in giudizio delle delibere dell’assemblea impugnate da un condomino rientra nelle attribuzioni dell’amministratore, indipendentemente dal loro oggetto, ai sensi dell’art. 1131 c.c.”. Il collegio ha escluso che ricorresse l’ipotesi di cui all’art. 1132, primo comma, c.c.: “tale ultima disposizione, tesa a mitigare gli effetti della regola maggioritaria che informa la vita del condominio, consente al singolo condomino dissenziente di separare la propria responsabilità da quella degli altri condòmini in caso di lite giudiziaria, in modo da deviare da sé le conseguenze dannose di un’eventuale soccombenza. Dunque, ove non sia stata l’assemblea a deliberare la lite attiva o passiva ai sensi del predetto art. 1132 c.c., il condomino dissenziente soggiace alla regola maggioritaria. In tal caso egli può solo ricorrere all’assemblea contro i provvedimenti dell’amministratore, in base all’art. 1133 c.c., ovvero al giudice contro il successivo deliberato dell’assemblea stessa (nei limiti temporali, è da ritenere, previsti dall’art. 1137 c.c., richiamato dall’art. 1133 c.c.)”.
Con l’ulteriore precisazione che “in ogni caso il condomino dissenziente può far valere le proprie doglianze sulla gestione dell’amministratore in sede di rendiconto condominiale, la cui approvazione è, però, anch’essa rimessa all’assemblea e non al singolo condomino”.
Nel respingere il ricorso, il Collegio sottolinea la natura collettiva del mandato attribuito dalla legge all’amministratore: il condomino dissenziente “al di fuori dei descritti percorsi legali, non ha la facoltà di agire in proprio contro l’amministratore (salvo il ben diverso caso dell’iniziativa di revoca giudiziale ex art. 1129 c.c.) ogni qual volta ritenga la condotta di lui non consona ai propri interessi, perché ciò contrasta con la natura collettiva del mandato ex lege che compete all’amministratore”.
OSSERVAZIONI
La Cassazione ha ribadito la natura collettiva del mandato attribuito direttamente dalla legge all’amministratore, con il corollario che nei casi in cui il condominio sia parte in giudizio senza delibera dell’assemblea, il condomino dissenziente non può invocare l’operatività dell’art. 1132 codice civile per sottrarsi alle conseguenze della lite.
DISPOSIZIONI RILEVANTI
Codice Civile – Art. 1131 – Rappresentanza
Nei limiti delle attribuzioni stabilite dall’articolo 1130 o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea, l’amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condòmini sia contro i terzi.
Può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio; a lui sono notificati i provvedimenti dell’autorità amministrativa che si riferiscono allo stesso oggetto.
Qualora la citazione o il provvedimento abbia un contenuto che esorbita dalle attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all’assemblea dei condòmini.
L’amministratore che non adempie a quest’obbligo può essere revocato ed è tenuto al risarcimento dei danni.
Art. 1132 – Dissenso dei condomini rispetto alle liti
Qualora l’assemblea dei condòmini abbia deliberato di promuovere una lite o di resistere a una domanda, il condomino dissenziente, con atto notificato all’amministratore, può separare la propria responsabilità in ordine alle conseguenze della lite per il caso di soccombenza. L’atto deve essere notificato entro trenta giorni da quello in cui il condomino ha avuto notizia della deliberazione.
Il condomino dissenziente ha diritto di rivalsa per ciò che abbia dovuto pagare alla parte vittoriosa.
Se l’esito della lite è stato favorevole al condominio, il condomino dissenziente che ne abbia tratto vantaggio è tenuto a concorrere nelle spese del giudizio che non sia stato possibile ripetere dalla parte soccombente.
[A cura di: avv. Rodolfo Cusano]
Nei giorni scorsi ho tenuto una lezione sul condominio al Giudice di pace di Barra, invitato dall’avvocato Luigi Aprea, presidente della locale Associazione di avvocati, e più che le molteplici domande mi ha colpito la preoccupazione che ho potuto leggere sui volti degli astanti. Essi non si sono fatti pregare per esternare tutte le loro forti perplessità sulle conseguenze del progetto di riforma, se esso sarà approvato secondo lo schema già pubblicato.
In primo luogo: ma l’Ufficio del Giudice di pace così come è oggi organizzato reggerà l’impatto delle decine di migliaia di procedure giudiziarie che si vanno ad aggiungere a quelle già esistenti? Quale certezza del diritto potrà essere assicurata se già adesso i tempi sono lunghi? L’assunzione di nuovi Giudici sarà l’ulteriore promessa non mantenuta di un mondo – quello giudiziario – negletto e abbandonato? Quale risultato di giustizia sarà assicurato alle questioni più spinose: vedi la volontaria giurisdizione e la sospensiva della delibera condominiale?
Non è mancato chi esprimeva il suo rammarico e chiedeva il totale ripensamento della riforma con un ritorno all’esistente ritenuto addirittura migliore del progetto pubblicato. Senza sottolineare poi la riforma della stessa figura professionale del Giudice di pace. Innanzitutto il mortificante trattamento economico di un laureato cui si richiede di svolgere un ruolo di alto profilo per competenze e professionalità. L’impressione finale era quella della dismissione/rottamazione di un ruolo, una funzione; dell’interesse del cittadino ad avere giustizia.
Passiamo ad esaminare il contenuto formale dello schema approvato. In particolare le disposizioni che riguardano l’attribuzione delle nuove competenze al Giudice di Pace in materia condominiale.
LA RIFORMA
Nel consiglio dei ministri del 5 maggio scorso è stato approvato lo schema di decreto legislativo in materia di riforma della magistratura onoraria proposto dal Ministro della Giustizia Orlando. Il provvedimento, emanato in attuazione della legge 29 aprile 2016, n. 57, prevede anche ulteriori disposizioni sulla figura professionale del giudice di pace, sui requisiti per il reclutamento, sulla durata dell’incarico, sul corrispettivo economico, nonché una disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari già in servizio.
Per completezza di disamina, vediamo il dato testuale di cui all’art. 71-quater delle disposizioni per l’attuazione del codice civile: “Per controversie in materia di condominio, ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, si intendono quelle derivanti dalla violazione o dall’errata applicazione delle disposizioni del libro III, titolo VII, capo II, del codice e degli articoli da 61 a 72 delle presenti disposizioni per l’attuazione del codice.
La domanda di mediazione deve essere presentata, a pena di inammissibilità, presso un organismo di mediazione ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale il condominio è situato.
Al procedimento è legittimato a partecipare l’amministratore, previa delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all’articolo 1136, secondo comma, del codice.
Se i termini di comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere la delibera di cui al terzo comma, il mediatore dispone, su istanza del condominio, idonea proroga della prima comparizione.
La proposta di mediazione deve essere approvata dall’assemblea con la maggioranza di cui all’articolo 1136, secondo comma, del codice. Se non si raggiunge la predetta maggioranza, la proposta si deve intendere non accettata.
Il mediatore fissa il termine per la proposta di conciliazione di cui all’articolo 11 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, tenendo conto della necessità per l’amministratore di munirsi della delibera assembleare”.
Non necessita di ulteriori precisazioni che la norma ha a riferimento l’obbligatorietà della preventiva procedura di mediazione in tutte le liti condominiali. Ma per dare un criterio di definizione di lite condominiale possiamo utilizzare un criterio soggettivo? Cioè sostenere che ogni qual volta è coinvolto il condominio vi è l’obbligo della mediazione? Così non è. Al contrario, anzi, il condominio a sua volta può trovarsi in rapporti contrattuali ed extracontrattuali in maniera non dissimile dagli altri soggetti giuridici. Per cui occorre delimitare la sfera delle competenze alla luce del criterio oggettivo dato dalle disposizioni normative.
LITI CONDOMINIALI
Prima di entrare nel merito della riforma occorre fare il punto sull’attuale situazione in materia di liti condominiali, che non si limitano a quelle, sebbene frequenti, che intercorrono tra condominio e singoli proprietari delle unità immobiliari ma possono intervenire anche tra l’ente condominiale e terzi, i quali interagiscano con il primo mediante rapporti di tipo contrattuale o extracontrattuale.
Nell’ambito delle obbligazioni nascenti da contratto assumono particolare rilevanza quelle derivanti dal rapporto di lavoro con il custode dello stabile, il quale è lavoratore subordinato alle dipendenze del condominio. Ma il condominio è anche titolare di obbligazioni nei confronti del conduttore del locale di proprietà condominiale, essendo tenuto al rispetto delle norme dettate in materia di locazione; ovvero dell’impresa di pulizia con la quale ha concluso un contratto, nel qual caso saranno applicabili le norme relative al contratto di appalto; dell’impresa che fornisce l’energia elettrica al fabbricato, ed allora saranno da applicare le regole relative alla fornitura di servizi; dell’impresa che abbia acquisito il diritto di posizionare alla sommità dell’edificio antenne per i servizi di telefonia mobile ovvero di installare sulla facciata cartelloni pubblicitari.
Parimenti, in capo al condominio possono nascere obbligazioni risarcitorie derivanti da rapporti extracontrattuali. Esse, più frequentemente, deriveranno dai danni provocati dalle parti comuni a terzi per la caduta di massi e calcinacci e per la presenza, nell’ambito delle zone condominiali, di insidie e trabocchetti. Per cui saranno da applicare le norme di cui all’art. 2043 o 2051 c.c. in materia di responsabilità.
Altre ipotesi di interazione con terzi rispetto al condominio sono quelle possibili tra due fabbricati, che abbiano in comune il muro di confine o che siano stati costruiti in aderenza o, ancora, che abbiano in comune aree antistanti.
Terzi sono anche gli enti territoriali ed eventuali liti potranno derivare dallo sprofondamento della strada, che provochi danni all’edificio in condominio, dalla interruzione dei servizi, dal corretto allacciamento alle fognature, dai lavori di ristrutturazione dell’edificio.
In tutti i casi sopra evidenziati, il condominio assumerà la veste di soggetto autonomo, nell’ambito della controversia, rispetto ai singoli condòmini e sarà rappresentato dal suo amministratore.
Gli esiti del giudizio impegneranno tutti i condòmini, fatti salvi gli effetti del dissenso alle liti, di cui all’art. 1132 c.c., e della ripartizione interna in base alle tabelle millesimali. Ma non saremo in presenza di liti cd. condominiali.
Una pur breve elencazione, benché senza esaustività, aiuterà a meglio comprendere gli infiniti casi che nella realtà quotidiana possono accadere.
* Liti tra condòmini di fabbricati confinanti:
– il muro di confine;
– aree antistanti comuni (regolamento della comunione).
* Liti tra condominio ed enti territoriali:
– sprofondamento della strada;
– interruzione dei servizi;
– allacciamento alle fognature;
– lavori di ristrutturazione del fabbricato.
* Liti tra condominio e terzi (rapporti contrattuali):
– il portiere;
– il conduttore di locale condominiale;
– installazione di antenne per telefonia;
– installazione di cartelloni pubblicitari;
– l’impresa di pulizia;
– l’impresa per la fornitura dell’energia elettrica.
* Liti tra condominio e terzi (rapporti extracontrattuali):
– caduta massi e calcinacci;
– insidie e trabocchetti;
– infortuni nell’ascensore.
Saranno invece devolute al Giudice di pace e quindi definite liti condominiali:
* Liti tra condominio e condomini
* Impugnative di delibere assembleari;
* Riparto delle spese;
* Impugnative dei provvedimenti dell’amministratore
* Modifica delle tabelle millesimali;
* Riscossione dei contributi.
REVOCA AMMINISTRATORE
Un discorso a parte merita l’attribuzione ai Giudici di pace del ricorso in sede di volontaria giurisdizione per la revoca dell’amministratore. Procedimento oggi svolto in Camera di Consiglio dal Tribunale in composizione collegiale. Testualmente:
Per chiarire il concetto riportiamo il testo attualmente in vigore dell’art. 64 disp.att.c.c.
“Sulla revoca dell’amministratore, nei casi indicati dall’undicesimo comma dell’articolo 1129 e dal quarto comma dell’articolo 1131 del codice, il tribunale provvede in camera di consiglio, con decreto motivato, sentito l’amministratore in contraddittorio con il ricorrente. Contro il provvedimento del tribunale può essere proposto reclamo alla corte d’appello nel termine di dieci giorni dalla notificazione o dalla comunicazione”.
Per cui abbiamo che anche i casi di revoca dell’amministratore, per gravi irregolarità, sono devoluti alla competenza del giudice di pace.
Ad una prima sommaria analisi ed interpretazione letterale, sembrerebbe che invece rimangono di competenza del Tribunale tutti gli altri casi di cui al quarto comma dell’art. 1105 c.c. perché il dato normativo prevede la devoluzione solo di quelli previsti dal terzo comma e non anche di quelli previsti al IV comma dello stesso articolo. Casi oggi similmente regolati dal procedimento di volontaria giurisdizione e cioè quelli dove: “Se non si prendono i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all’autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore”.
Infatti, non ho trovato nello schema di riforma anche il riferimento a questa disposizione (art. 1105 IV comma c.c.). Per tale motivo essi dovrebbero rimanere di competenza del Tribunale e disciplinati dal procedimento in camera di consiglio come accade oggi.
In realtà, il disposto dell’art. 1139 c.c. di rinvio alle norme sulla comunione quando nelle norme sul condominio nulla è espressamente previsto, fa si che dall’interpretazione sistematica l’art. 1105 IV c.c. comma sia invece da ritenersi una norma applicabile al condominio e dunque anche i procedimenti ivi previsti passerebbero alla competenza esclusiva del giudice di pace. Tale lettura appare la più coerente anche alla luce di un indirizzo di riforma che vuole delineare un sistema che riconduce all’unità al fine di evitare ulteriori problemi applicativi.
Se il nudo proprietario concede al figlio l’usufrutto della casa può continuare a beneficiare della detrazione degli interessi passivi relativi al mutuo? Questo l’oggetto di un quesito inviato da un contribuente alla rubrica di posta fiscale di FiscoOggi, l’organo di stampa ufficiale dell’Agenzia delle entrate. Di seguito la risposta:
Dall’imposta lorda è possibile detrarre un importo pari al 19% degli interessi passivi e relativi oneri accessori (nonché delle quote di rivalutazione dipendenti da clausole di indicizzazione) pagati in dipendenza di un mutuo ipotecario contratto per l’acquisto dell’unità immobiliare da adibire, entro un anno dall’acquisto stesso, ad abitazione principale, per un importo non superiore a 4mila euro (articolo 15, comma 1, lettera b, Tuir). Il nudo proprietario che ha stipulato il contratto di mutuo per l’acquisto della piena proprietà dell’immobile, qualora ne conceda l’usufrutto al figlio può esercitare la detrazione in esame calcolandola in relazione a tutti gli interessi pagati, rapportati all’intero valore dell’immobile, sempre che risultino soddisfatte tutte le altre condizioni richieste dalla legge (circolare 20/E del 13 maggio 2011, paragrafo 1.5, come richiamata dalla circolare 7/E del 4 aprile 2017, pagina 67).