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IL POSTO AUTO NON È UN DIRITTO AUTOMATICO DEL CONDOMINO: SOLO A PAGAMENTO

[A cura di: Massimiliano Bettoni e Silvia Zanetta – Studio legale Ma.Be.]

La Cassazione, con recentissima sentenza del 4 maggio 2017 (sentenza 10727/2017), ha risposto al seguente insidioso quesito: il posto auto nell’area destinata a parcheggio del condominio ha natura di pertinenza dell’appartamento? Oppure si ha diritto al posto auto solo a pagamento?

La vicenda della quale è stata investita la Corte riguarda una condomina che convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Roma la società venditrice dell’immobile, chiedendo in via principale che con l’atto con cui aveva acquistato in data 22 luglio 1998 le fosse stato trasferito, quale accessorio o pertinenza, anche il posto auto ubicato al piano seminterrato dell’edificio o, in alternativa, che la società fosse condannata al relativo trasferimento e, in via subordinata, che fosse disposta la costituzione di un suo diritto reale d’uso sul detto posto-auto, atteso su quest’ultimo esisteva un vincolo di destinazione al servizio dell’appartamento compravenduto.

Il giudice di primo grado aveva respinto tutte le domande avanzate dall’attrice, affermando che il posto-auto era rimasto estraneo alla vendita intercorsa tra le parti. In seguito, con sentenza n. 4166 del 2004, la Corte di Appello di Roma riformò parzialmente la decisione di primo grado, confermando il rigetto della domanda principale di accertamento, ma disponendo – in accoglimento della domanda subordinata – l’integrazione dell’atto di vendita, mediante il trasferimento della proprietà del posto-auto richiesto dietro il pagamento di un supplemento del prezzo pari alla somma di euro 18.075,90. Tale somma è stata determinata giudizialmente in conformità alla proposta originaria di vendita ed al valore di mercato.

Entrambe le parti proposero ricorso in Cassazione, la quale ha confermato la sentenza della corte di Appello.

In particolare, la Cassazione, ha richiamato la propria sentenza n. 15509 del 2011, secondo cui il vincolo di destinazione posto dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, articolo 18, e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, articolo 26 comporta l’obbligo non già di trasferire la proprietà dell’area destinata a parcheggio insieme alla costruzione, ma quello di non eliminare il vincolo esistente, sicché esso crea in capo all’acquirente dell’appartamento un diritto reale d’uso sull’area.

La Suprema Corte ha sancito che l’acquirente dell’appartamento non può rivendicare come pertinenza, acquisita con l’acquisto dell’appartamento, il posto auto nell’area destinata a parcheggio. La proprietaria della casa deve al costruttore o al venditore originario il corrispettivo per il diritto d’uso del parcheggio.

Secondo la Suprema Corte, quindi, la condomina è titolare di un diritto di uso dell’area adibita a parcheggio; tuttavia tale diritto non esclude il pagamento di un corrispettivo. Tale corrispettivo è stato ritenuto non quantificabile in quanto in primo e secondo grado non era stata sollevata alcuna questione in merito al diritto reale di uso del posto-auto.

Ne consegue che la condomina doveva al venditore una somma per il diritto d’uso dell’area destinata parcheggio. La Cassazione ha quindi condannato la signora al pagamento a favore della società venditrice, delle spese di giudizio di legittimità, quantificate in euro 2.500 ciascuno oltre a quelle forfettarie, agli esborsi liquidati e agli accessori di legge.

CRONACA FLASH DALLA CASA E DAL CONDOMINIO

Nasconde cadavere madre 

per riscuotere la pensione

Il cadavere di un’anziana, in avanzato stato di decomposizione, è stato ritrovato dalla polizia in un appartamento in provincia di Pistoia. Il corpo, chiuso dentro ad un sacco di nylon e avvolto da alcune coperte, era nascosto in una delle camere della casa, abitata, oltre cha dalla vittima, dalla figlia 51enne. È stata lei ad aprire agli agenti, che si sono presentati in seguito alla segnalazione dei vicini, preoccupati per l’odore nauseabondo che proveniva dall’appartamento attiguo. Il motivo dell’occultamento sarebbe la pensione della madre che la donna continuava a percepire, ma si attendono gli esiti delle analisi autoptiche per stabilire data e cause del decesso.

Coppia di giovani ladri

beccati da una pattuglia 

Sono stati arrestati dai carabinieri di un comune dell’area metropolitana di Roma i due giovani topi d’appartamento, classe 1996 lui e 1997 lei, colti in flagranza di reato durante un servizio di controllo del territorio. Mentre erano intenti a ripulire una villetta, momentaneamente disabitata, i ladri avevano notato le luci dell’autopattuglia e avevano deciso di scappare dalla proprietà, tentando di far perdere le proprie tracce a bordo di una utilitaria. Dopo un breve inseguimento i militari sono riusciti a bloccarli e a portarli in carcere. Il tribunale competente ha poi convalidato l’arresto, sottoponendo lui ai domiciliari e lei all’obbligo di firma.

Intercettato sulla A12:

aveva droga anche in casa

Detenzione di stupefacenti a fini di spaccio. Questa l’accusa della quale dovrà rispondere l’uomo fermato dalla polizia di Civitavecchia a un posto di blocco nei pressi del casello autostradale della A12. Grazie alla verifica dei documenti, gli agenti sono risaliti ai precedenti penali del fermato, decidendo così di procedere alla perquisizione, sia dell’uomo che dell’auto. Dopo averlo trovato in possesso di 390 euro in contanti e aver rinvenuto sotto il sedile posteriore circa 21 grammi di cocaina, i poliziotti si sono recati nella sua abitazione, dove sono stati sequestrati altri 13 involucri di cocaina, ciascuno da un grammo.

Grave incendio domestico: 

in tre finiscono ricoverati

È stato ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Udine l’uomo di 58 anni rimasto gravemente ustionato nel tentativo di domare le fiamme dello spaventoso incendio divampato verso sera nella sua abitazione. Meno gravi le condizioni della figlia trentenne, che era appena andata a dormire, e della moglie, entrambe messe in salvo dall’uomo e rimaste lievemente intossicate. Sulle cause del rogo stanno indagando i vigili del fuoco, intervenuti tempestivamente per evitare che le fiamme attaccassero gli edifici circostanti e impegnati fino al mattino seguente. Completamente distrutti il primo piano e il tetto dell’abitazione.

Svaligiano l’abitazione 

con dentro la proprietaria

Una donna di 60 anni, residente in un piccolo comune in provincia di Salerno, è stata derubata in pieno giorno nella sua casa. Autori del colpo due malviventi, che hanno aspettato che la signora rimanesse da sola nell’appartamento per scavalcare il cancelletto della proprietà, entrando poi dalla finestra della cucina. Resasi conto di quanto stava accadendo, la 60enne padrona di casa ha provato a scappare, ma è stata legata e immobilizzata dai due ladri, che sono così riusciti ad agire e a fuggire indisturbati. Bottino: 500 euro in contanti e a qualche piccolo elettrodomestico.

Truffatrice bloccata 

da figlio della vittima

Ha 65 anni la donna arrestata dalla polizia di Ravenna per furto aggravato. La truffatrice si era introdotta nell’abitazione di un’ignara vecchietta per rubarle denaro e oggetti preziosi. Approfittando dell’età avanzata della proprietaria, infatti, si era finta una sua conoscente, in visita per farle un massaggio al collo. Fortunatamente, nella stanza vicina si trovava il figlio dell’anziana che, insospettito, è intervenuto sorprendendo la donna mentre rovistava in alcuni cassetti. Colta sul fatto, la ladra ha tentato la fuga, ma è stata bloccata sull’uscio dall’uomo. Una volta in questura è stato accertato che la 65enne aveva numerosi precedenti penali per reati contro il patrimonio.

Neonata abbandonata 

nei giardini condominiali

Drammatico ritrovamento nei giardini di un condominio a Trieste dove, poco dopo l’ora di pranzo, è stata rinvenuta una neonata, abbandonata in una busta della spesa appoggiata ad un muretto. Ad accorgersi di quel corpicino è stata una donna che si trovava nell’area verde per fare una passeggiata con i suoi cani. I sanitari del 118 sono arrivati poco dopo, ma le condizioni della piccola erano già disperate e non c’è stato nulla da fare per salvarla. Le tempestive indagini della Questura hanno condotto gli inquirenti a indagare una ragazzina di 16 anni, residente con i genitori nello stesso stabile in cui è stata trovata la neonata. 

LOCAZIONI BREVI, FIMAA: “PER IL RECUPERO FISCALE SI LEGITTIMA L’ABUSIVISMO”

Le locazioni brevi e la cosiddetta “norma Airbnb” continuano ad essere oggetto di dibattito, in maniera ufficiale o meno. Ultimi due interventi in ordine di tempo, quello del deirettore dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, e quello della Fimaa, federazione dei mediatori immobiliari.
Agenzia delle Entrate. Nell’audizione del 4 maggio scorso, di fronte alle Commissioni riunite Bilancio di Camera e Senato, il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, ha approfondito le misure introdotte dal Dl 50/2017, finalizzate a potenziare gli strumenti per una più efficace azione di contrasto ai comportamenti evasivi e fraudolenti, ridurre il contenzioso tributario e accrescere l’attrattività del sistema Paese.
Tra gli argomenti affrontati c’è stato anche quello relativo alla cosiddetta “norma Airbnb”. “La qualificazione come locazioni brevi e l’inclusione nel campo applicativo della norma dei corrispettivi emergenti da contratti che prevedono, oltre alla locazione, la prestazione dei servizi di biancheria e pulizia locali è da accogliere con favore – ha affermato il direttore delle Entrate -. Tale norma è infatti finalizzata a favorire l’emersione di materia imponibile nei casi in cui la concessione in godimento dell’immobile, in quanto integrata da tali servizi accessori, sia suscettibile di essere ricondotta a un’attività alberghiera”.
Rossella Orlandi ha inoltre proposto un’eventuale modifica normativa che preveda l’applicazione della disposizione a tutti i casi in cui, al di fuori dell’esercizio di un’attività d’impresa, vi sia la fornitura di alloggi con annessi servizi accessori, come nel caso di attività di bed and breakfast occasionale – produttiva di redditi diversi – e a prescindere dal nomen iuris utilizzato nel contratto. Sempre secondo il direttore delle Entrate, infine, “”si potrebbe considerare positivamente l’eventuale definizione in via normativa di criteri oggettivi, quali il numero delle stanze offerte in locazione breve o la durata dell’attività della locazione breve, la presenza dei quali integrerebbe la sussistenza di una organizzazione di tipo alberghiero, rilevante ai fini Iva ed esclusa dal regime in esame”.
Fimaa. Da parte propria, la federazione dei mediatori immobiliari apprezza la volontà del Governo di fare chiarezza nel campo delle locazioni brevi, ma rileva come il rispetto delle leggi vigenti non possa avere come riferimento (ed interesse) unicamente l’evasione fiscale. Il rispetto delle leggi vigenti impone di porre attenzione – e contrastare – anche il fenomeno dell’abusivismo.
Come puntualizza la federazione, il decreto legge n. 50/2017, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 24.4.2017, ai commi 4, 5 e 7 dell’articolo 4 cita “i soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare, anche attraverso la gestione di portali on-line”; tali norme si riferiscono quindi ai soggetti (portali internet) che non si limitano alla semplice pubblicazione di annunci, ma che, “anche per via telematica”, svolgono attività finalizzata alla conclusione di contratti tra le parti messe in contatto, e quindi un’ “attività di intermediazione immobiliare”.
“Tale attività – sbotta Fimaa per voce del presidente Santino Taverna (nella foto) – viene però svolta da tali soggetti abusivamente, perché nessuno di essi possiede i requisiti previsti per legge (ex legge n. 39/1989) per svolgerla. E allora la domanda nasce spontanea: pur di incassare i legittimi oneri fiscali, si deve necessariamente essere disposti “a coprire” l’abusivismo (che è punito con sanzioni di natura penale)? Ben venga che tutti paghino le tasse, ma ben venga che tutti rispettino anche le altre leggi, non solo quelle di natura fiscale. I portali che offrono servizi di intermediazione immobiliare, se non hanno i requisiti per legge per svolgere tale attività, devono essere chiusi per esercizio abusivo dell’attività, anziché venire legittimati in qualità di sostituti d’imposta”.

CONDOMINIO: I DEBITI APPROVATI SI POSSONO RIPORTARE NEI RENDICONTI SUCCESSIVI?

[A cura di: Mauro Simone, vice segr. naz. Alac – Giuseppe Simone, vice segr. naz. Appc]
Nel conto annuale di chiusura, comunemente chiamato anche rendiconto o bilancio di fine esercizio, può capitare (in vero sempre più frequentemente in tempi di crisi), agli amministratori di condominio di riportare i debiti dei condomini anche nei successivi anni condominialistici di gestione. La domanda che gli amministratori si pongono è se sia legittima questa pratica, ovvero se i debiti riportati nei successivi bilanci costituiscano un’effettiva posta di debito o se invece assumano mero valore contabile.
In vero la questione non è affatto pacifica, stanti sul tema dubbi interpretativi e l’assenza di un orientamento unanime. Secondo una risalente sentenza della Corte di Appello di Genova (sent. n.513 del 2009) i saldi passivi, approvati e suddivisi in base al quorum previsto dalla legge, per gli esercizi precedenti, assumono valore di effettiva posta di debito nei confronti del condominio, che può trovare collocazione nella rendicontazione annuale predisposta dall’amministratore ed approvata dall’assemblea, con la conseguente obbligatorietà e con l’ottenimento, in caso di mancata estinzione del debito, di decreto monitorio, nonostante opposizione, come previsto dell’art.63 disp. att. c.c.
Il conteggio predisposto dall’amministratore è un atto proprio del condominio: una volta approvato il consuntivo dall’assemblea, consegue che i saldi degli esercizi contabili precedenti fanno parte integrante dell’ultimo rendiconto, fermo restando comunque la possibilità di invocare l’art. 1137 c.c. ai fini dell’eventuale impugnazione da parte dei condòmini morosi. 
Indirettamente la pronunzia sembrerebbe risolvere l’atavica questione circa il criterio contabile da adottare per la redazione, per cassa o per competenza, del rendiconto. 
PRINCIPIO DI CASSA
Come è noto, il criterio di cassa è un bilancio (rectius: rendiconto) che si basa sulle entrate e sulle uscite effettivamente sostenute nel periodo a cui si riferisce, escludendo quelle che si riferiscono a tale periodo ma che sono ancora da pagare. Questo criterio garantisce eziando una perfetta coincidenza dei movimenti bancari con i movimenti registrati nella contabilità di condominio, ma, d’altro canto, comporta una certa imprecisione nell’attribuzione di determinate spese a determinati condòmini piuttosto che ad altri (ad esempio: subentro di un nuovo proprietario). Nonostante questo, è il metodo più adottato in materia condominiale proprio perché risulta il più snello e facilmente comprensibile ai condòmini.
PRINCIPIO DI COMPETENZA
Invece il principio di competenza viene redatto sulla base dei costi e ricavi che si riferiscono ad un esercizio contabile, prescindendo dal fatto che siano stati effettivamente pagati o in modo da poter identificare i rapporti in corso e le questioni irrisolte. Seguendo il principio di competenza è possibile fare dei preventivi di spesa molto precisi ed inoltre, nel caso di subentri, il nuovo proprietario non si trova a dover contribuire a spese che riguardano periodi precedenti al suo subentro. I bilanci societari seguono per lo più questo metodo, nonostante risulti meno intuitivo a molti condòmini.
Più di recente, i Giudici di Piazza Cavour con sentenza n. 4489/2014, hanno affermato che i saldi contabili delle gestioni condominialistiche precedenti vanno riferiti al momento dell’approvazione del rendiconto, il cui termine prescrizionale di 5 anni decorre dal giorno in cui viene approvato il bilancio. Quanto ai piani di riparto, nonostante essi vengono riportati anche nei rendiconti successivi sino al soddisfacimento, è da escludersi che delibere successive riguardanti i crediti del condominio, per successivi periodi di gestione e diversi titoli di spesa, possono costituire un nuovo fatto costitutivo del credito.  

ACQUISTO CASA: I QUESITI DEI CONTRIBUENTI E LE RISPOSTE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE

In appendice alla “Guida per l’acquisto della casa”, pubblicata nei giorni scorsi dall’Agenzia delle Entrate, anche una serie di quesiti dei contribuenti, con le relative risposte, in materia di imposte ed agevolazioni fiscali. Di seguito i dubbi e i chiarimenti.

D. Ho acquistato casa, richiedendo l’applicazione della regola del prezzo-valore. L’Agenzia delle Entrate può accertare un valore dell’immobile diverso da quello indicato nell’atto? 

R. La regola del prezzo-valore prevede la tassazione del trasferimento degli immobili sulla base del loro valore catastale, indipendentemente dal corrispettivo effettivamente pattuito e indicato nell’atto. La sua applicazione limita il potere di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, che non può accertare un maggior valore ai fini dell’imposta di registro. Questa regola è ammessa, però, solo per le cessioni di immobili a uso abitativo (e relative pertinenze) acquistate da persone fisiche che non agiscono nell’esercizio di attività commerciali, artistiche o professionali.

D. Quali criteri utilizza l’Agenzia delle Entrate per rettificare il valore dell’immobile acquistato se non è stato richiesto il prezzo-valore?

R. Se, all’atto della compravendita, non è stata richiesta l’applicazione della regola del prezzo-valore, o quando, per legge, non è applicabile, l’Agenzia delle Entrate può procedere ad “accertamento di valore”, rideterminando la base imponibile su cui calcolare le imposte dovute. L’ufficio, per procedere all’eventuale rettifica, deve utilizzare i criteri indicati dalla legge, mettendo a confronto il valore indicato nell’atto con i seguenti parametri: 

* i trasferimenti a qualsiasi titolo e le divisioni e perizie giudiziarie, anteriori di non oltre tre anni alla data dell’atto (o a quella in cui se ne produce l’effetto traslativo o costitutivo), che abbiano avuto per oggetto gli stessi immobili o altri di analoghe caratteristiche e condizioni (criterio comparativo)

* il reddito netto di cui l’immobile è suscettibile, capitalizzato al tasso mediamente applicato a detta data e nella stessa località per gli investimenti immobiliari, per esempio, il valore del canone di locazione (criterio della capitalizzazione) 

* ogni altro elemento di valutazione, anche sulla base di indicazioni eventualmente fornite dai comuni. Tenendo conto di questi criteri, se ritiene che l’immobile acquistato ha un valore venale (valore di mercato) superiore a quello dichiarato o al corrispettivo pattuito, l’ufficio rettifica e liquida la maggiore imposta, con gli interessi e le sanzioni.

D. Ho ricevuto un avviso di rettifica e liquidazione dell’imposta di registro su una compravendita immobiliare. Come mi devo comportare?

R. La legge offre diversi strumenti al contribuente che riceve un avviso di rettifica e liquidazione e che ritiene l’accertamento non corretto. Se ci sono i presupposti, si può giungere anche all’annullamento totale o parziale dell’accertamento o alla rideterminazione del valore accertato. In ogni caso è necessario attivarsi entro 60 giorni dalla data in cui l’avviso è stato notificato.

Nella parte finale dell’avviso sono comunque indicate tutte le informazioni utili per far valere le proprie ragioni. A seconda dei casi, il contribuente può: 

* presentare ricorso alla Commissione tributaria provinciale competente (cioè quella del capoluogo della provincia in cui ha sede l’ufficio che ha emesso l’atto). Se il valore dell’avviso non è superiore a 20.000 euro, il ricorso produce anche gli effetti di un reclamo e può contenere una proposta di mediazione (in tal modo, si avvia una fase amministrativa, della durata di 90 giorni, entro cui deve svolgersi e concludersi il procedimento finalizzato al riesame dell’atto impugnato e alla valutazione, da parte dell’amministrazione, dell’eventuale proposta di mediazione. Se non si raggiunge un accordo con l’ufficio, il giudizio prosegue dinanzi alla Commissione tributaria provinciale); 

* presentare istanza di accertamento con adesione all’ufficio che ha emesso l’atto. In questo modo è possibile dialogare in contraddittorio con l’amministrazione, fornendo tutti gli elementi utili alla rideterminazione del valore accertato. L’istanza di accertamento con adesione sospende il termine per la presentazione del ricorso per un periodo di 90 giorni; 

* presentare istanza di annullamento in autotutela all’ufficio che ha emesso l’atto. L’istanza non sospende i termini per la presentazione del ricorso. Pertanto, il contribuente può valutare di presentare l’istanza di accertamento con adesione o il ricorso qualora, prima dello scadere dei termini previsti per questi istituti, non sia pervenuta risposta favorevole all’istanza di annullamento in autotutela.

D. Sono proprietario di un immobile acquistato con le agevolazioni “prima casa” e vorrei acquistarne un secondo. Posso richiedere le stesse agevolazioni anche sul secondo acquisto?

R. Dal 1° gennaio 2016, chi ha già acquistato un’abitazione con i benefici “prima casa” può acquistare, sia a titolo oneroso sia gratuito (successione o donazione), un altro immobile abitativo e beneficiare, anche sul secondo acquisto, dell’agevolazione, a condizione, però, che la casa già posseduta sia venduta entro un anno dal nuovo acquisto. Nell’atto di trasferimento del secondo immobile (compravendita, donazione, successione) deve risultare l’impegno a vendere l’immobile già posseduto entro un anno.

D. Ho la dimora, ma non la residenza, nel comune in cui intendo acquistare casa. Posso usufruire ugualmente delle agevolazioni “prima casa” senza dover trasferire la residenza?

R. No. Infatti, la legge prevede che per beneficiare delle agevolazioni “prima casa” l’immobile che si acquista deve trovarsi nel comune in cui l’acquirente ha stabilito o stabilirà, entro 18 mesi dall’acquisto, la propria residenza.

D. Se concedo in locazione l’abitazione che ho acquistato con le agevolazioni “prima casa”, perdo i benefici?

R. No, la locazione non implica la decadenza dai benefici in quanto non si verifica la perdita del possesso dell’immobile.

D. Posso usufruire delle imposte agevolate sull’acquisto di una casa che si trova nello stesso comune in cui già possiedo la nuda proprietà su un’altra abitazione?

R. Sì. Infatti, al ricorrere di tutte le altre condizioni previste dalla legge, l’agevolazione “prima casa” spetta anche nel caso in cui l’acquirente sia titolare della sola nuda proprietà su un’abitazione situata nello stesso comune in cui si trova l’immobile che si intende acquistare con i benefici. Il nudo proprietario, infatti, non ha il possesso dell’immobile, che fa capo all’usufruttuario. L’agevolazione spetta purché la nuda proprietà non sia stata acquistata usufruendo delle agevolazioni “prima casa”. Infine, si ha sempre diritto all’agevolazione nel caso in cui si proceda alla ricongiunzione della proprietà (titolare del diritto di usufrutto che acquista la nuda proprietà o viceversa).

D. Se acquisto due appartamenti contigui posso beneficiare delle agevolazioni “prima casa”?

R. Nel caso di acquisto di unità immobiliari contigue, l’agevolazione spetta se l’abitazione risultante presenta, dopo la fusione degli immobili, le caratteristiche catastali indicate dalla normativa di favore e in presenza di tutte le altre condizione previste. Si ha diritto all’agevolazione sia nel caso di acquisto contemporaneo delle unità immobiliari contigue, sia nel caso in cui venga acquistata un’unità immobiliare confinante con la casa già posseduta, allo scopo di creare un’unica unità abitativa. Inoltre, il beneficio spetta a prescindere dalla circostanza che l’immobile già posseduto sia stato acquistato con le agevolazioni “prima casa” o senza averne usufruito.

D. Si può beneficiare delle agevolazioni “prima casa” quando si è titolari in comunione, con persone diverse dal coniuge, di un’altra abitazione?

R. Sì, a condizione che l’abitazione di cui si è comproprietari non sia stata acquistata con i benefici “prima casa”. L’agevolazione spetta anche se l’abitazione già posseduta si trova nello stesso comune in cui si vuole effettuare il nuovo acquisto.

D. Quali controlli effettua l’Agenzia sulle compravendite effettuate con l’agevolazione “prima casa”?

R. Gli uffici dell’Agenzia delle Entrate controllano gli atti per i quali è stata richiesta l’applicazione dei benefici “prima casa” per verificare la presenza di tutti i requisiti e il rispetto delle condizioni previste dalla legge. Per effettuare questo controllo, gli uffici devono rispettare precise scadenze. In particolare, la verifica va fatta, entro i seguenti termini: 

* tre anni dalla data di registrazione dell’atto; 

* tre anni dalla scadenza dei 18 mesi a disposizione dell’acquirente per il trasferimento della residenza nel comune dove si trova l’immobile; 

* tre anni dalla scadenza dei 12 mesi a disposizione del contribuente per acquistare un nuovo immobile, nel caso di cessione prima dei 5 anni della casa in precedenza comprata con i benefici.

In mancanza dei requisiti, gli uffici revocano l’agevolazione, recuperando le imposte dovute nella misura ordinaria e applicando la sanzione del 30% sulla differenza.

D. Ho ricevuto un avviso di revoca delle agevolazioni “prima casa”. Posso rateizzare l’importo dovuto?

R. Sì, l’avviso di revoca delle agevolazioni è rateizzabile. L’importo dovuto può essere versato in un massimo di 8 rate trimestrali di pari importo o, se la maggiore imposta dovuta è superiore a 50.000 euro, in un massimo di 16 rate trimestrali. In entrambi i casi, il versamento della prima o unica rata deve essere effettuato entro il termine previsto per la presentazione del ricorso (60 giorni dalla notifica dell’avviso). Le rate successive alla prima, invece, devono essere versate entro l’ultimo giorno di ciascun trimestre. Considerata l’importanza di versare le rate in maniera corretta, sia per quanto riguarda l’importo sia per quanto concerne le scadenze, è consigliabile contattare l’ufficio che ha emanato l’avviso per la predisposizione del piano di rateazione.

LA LEGITTIMAZIONE ATTIVA E PASSIVA DELL’AMMINISTRATORE A STARE IN GIUDIZIO

[A cura di: prof. avv. Rodolfo Cusano]
Il problema della legittimazione dell’amministratore a stare in giudizio senza la ratifica assembleare nelle cause di impugnativa delle delibere assembleari affligge prima gli amministratori per la loro responsabilità, ma anche gli avvocati che hanno l’obbligo di avvertire il cliente della necessità o meno di portare la citazione per l’impugnativa all’attenzione dell’assemblea ed ottenere la ratifica del mandato qualora necessario. Anche se occorre ricordare che, in seguito all’introduzione dell’obbligo preventivo di mediazione, l’amministratore deve comunque portare all’attenzione dell’assemblea l’istanza di mediazione ed ottenere o meno l’autorizzazione a costituirsi nella relativa procedura con l’assistenza dell’avvocato. Tale adempimento preventivo potrebbe essere, quindi, utilizzato per risolvere a monte il problema, richiedendo contemporaneamente all’assemblea anche l’autorizzazione a costituirsi nel successivo giudizio. 
Il problema si incentra sulla corretta interpretazione del dettato di cui all’art. 1131 c.c.
ART. 1131 C.C. 
Nei limiti delle attribuzioni stabilite dall’articolo 1130 o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea, l’amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condòmini sia contro i terzi. 
Può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio; a lui sono notificati i provvedimenti dell’autorità amministrativa che si riferiscono allo stesso oggetto. 
Qualora la citazione o il provvedimento abbia un contenuto che esorbita dalle attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all’assemblea dei condòmini. 
L’amministratore che non adempie a quest’obbligo può essere revocato ed è tenuto al risarcimento dei danni. 
Commento
L’articolo 75, ultimo comma, c.p.c. prevede che “Le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto. Le associazioni e i comitati, che non sono persone giuridiche, stanno in giudizio per mezzo delle persone indicate negli articoli 36 e seguenti del codice civile”. Tale norma non prevede la figura dell’amministratore del condominio cui la rappresentanza del condominio è, invece, attribuita ex articolo 1131 c.c.
È, infatti, proprio l’articolo 1131 c.c., come modificato dalla L. 220/2012, a stabilire che: “Nei limiti delle attribuzioni stabilite dall’articolo 1130, o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea, l’amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condòmini sia contro i terzi”. L’articolo è da considerarsi inderogabile in virtù dell’espressa previsione di cui all’articolo 1138, quarto comma, sicché né l’assemblea dei condòmini, né il regolamento di condominio potrebbero legittimamente ridurre i poteri di rappresentanza attribuiti all’amministratore dalla legge.
Secondo la giurisprudenza, ricorrerebbe nella fattispecie un’ipotesi di rappresentanza volontaria originata dal mandato conferito all’amministratore dal condominio. La dottrina, invece, è divisa: per alcuni la rappresentanza è legale perché ha fonte nella legge; per altri è volontaria in quanto fondata sul mandato; per altri ancora non è né legale né volontaria, trattandosi piuttosto di un rapporto sui generis; per chi, infine, qualifica l’amministratore come organo del condominio, trattasi di rappresentanza organica.
La legittimazione attiva ex art. 1131, I comma, c.c.
In ogni caso, l’amministratore del condominio è dunque legittimato, senza la necessità di una specifica deliberazione assembleare, ad agire in giudizio nei confronti dei singoli condòmini e dei terzi al fine di: 
a) eseguire le deliberazioni dell’assemblea dei condòmini; 
b) disciplinare l’uso delle cose comuni così da assicurare il godimento a tutti i partecipanti al condominio; 
c) riscuotere dai condòmini i contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea; 
d) compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio 
La legittimazione passiva ex art. 1131, II e III comma, c.c.
Fino a poco tempo fa, e cioè prima di Cass. SS.UU. nn. 18331 e 18332/2010, era ritenuto che la rappresentanza processuale dell’amministratore del condominio dal lato passivo non incontrasse limiti. Ciò stava a significare che l’amministratore non necessitava di alcuna autorizzazione dell’assemblea per resistere in giudizio e per proporre le impugnazioni che si rendessero necessarie. 
Per cui la rappresentanza processuale dell’amministratore del condominio, mentre dal lato attivo coincideva con i limiti delle sue attribuzioni, salvi i maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea, dal lato passivo non incontrava limiti. La stessa inosservanza dell’obbligo di informare i condòmini della esistenza di un procedimento contro il condominio aveva rilevanza puramente interna senza incidere sui poteri di rappresentanza processuale dell’amministratore stesso.
A questo indirizzo maggioritario se ne contrapponeva un altro secondo cui la ratio dell’articolo 1131 c.c., comma 2, – che consente di convenire in giudizio l’amministratore del condominio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio – era quella di favorire il terzo il quale voglia iniziare un giudizio nei confronti del condominio, consentendogli di poter notificare la citazione al solo amministratore anziché a tutti i condòmini. Nulla, invece, nella stessa norma, giustificava la conclusione secondo cui l’amministratore sarebbe anche legittimato a resistere in giudizio e a impugnare senza essere a tanto autorizzato dall’assemblea .
Inoltre, secondo tale indirizzo, poiché l’autorizzazione dell’assemblea a resistere in giudizio in sostanza altro non è che un mandato all’amministratore a conferire la procura ad litem al difensore che la stessa assemblea ha il potere di nominare, l’amministratore, in definitiva, non svolge che una funzione di mero nuncius e tale autorizzazione non può valere che per il grado di giudizio in relazione al quale viene rilasciata. Deriva, da quanto precede, pertanto, che era inammissibile il ricorso per cassazione, avverso sentenza sfavorevole al condominio, proposto dall’amministratore senza espressa autorizzazione dell’assemblea .
A comporre tale contrasto sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte, con le sentenze del 2010 già citate, le quali hanno ritenuto che (così come dal lato attivo) la norma abilita l’amministratore del condominio, relativamente alle liti passive, a costituirsi in giudizio e ad impugnare la sentenza eventualmente sfavorevole, senza necessità di autorizzazione da parte dell’assemblea, soltanto se l’oggetto della controversia è compreso nei limiti delle sue attribuzioni, limiti ed attribuzioni previsti dall’articolo 1130 c.c. Mentre hanno pure rilevato che, qualora il Giudice adito ritenga versarsi in materia sottratta ai poteri dell’amministratore, possa ordinare il deposito della ratifica del mandato ex art. 182 comma 2 c.p.c., ma non è questo il caso in esame.
Per completezza di disamina occorre pure rilevare che, a distanza di appena due mesi dalle ricordate sentenze n. 18331 e 18332/2010, la stessa Corte di Cassazione è ritornata sui suoi passi più volte e ha riaffermato che la legittimazione passiva dell’amministratore non incontra limiti e sussiste anche in ordine alle azioni di natura reale relative alle parti comuni dell’edificio, promosse contro il condominio da terzi o anche dal singolo condomino (Cass. sentenza del 4-10-2012, n. 16901). 
Comunque, il dubbio se il compito di eseguire le deliberazioni dell’assemblea dei condòmini, che è demandato dall’articolo 1130 c.c., n. 1) all’amministratore, includa, in ipotesi, anche quello di propugnarne in giudizio la legittimità, quale che sia il loro oggetto così come previsto dall’art. 1131 II e II comma, può ritenersi non più sussistente. 
Infatti, non solo la stessa Suprema Corte con le famose sentenze del 2010 rese a SS.UU. ha stabilito che il limite della legittimazione passiva dell’amministratore è stabilito proprio dai poteri di cui all’art. 1130 c.c. tra cui rientra appunto l’esecuzione delle delibere assembleari, per cui il dato letterale è talmente chiaro da non permettere diverse interpretazioni, ma anche tutta la giurisprudenza successiva è conforme a tale indirizzo. 
Da ultimo, la recentissima sentenza del 16 febbraio 2017 n. 4183 della Corte di Cassazione, testualmente: “In tema di impugnativa di delibere assembleari relative all’individuazione del criterio di ripartizione delle spese, per proporre appello non occorre alcuna autorizzazione assembleare ai sensi dell’art. 1130 n. 1 e 3 c.c., in quanto tali controversie rientrano nelle normali attribuzioni dell’amministratore di condominio”.
Per completezza di informazione si riporta testualmente il ragionamento della Suprema Corte.
LA CASSAZIONE
In base al disposto degli articoli 1130 e 1131 c.c., l’amministratore del condominio è legittimato ad agire in giudizio per l’esecuzione di una deliberazione assembleare o per resistere all’impugnazione della delibera stessa da parte del condomino senza necessità di una specifica autorizzazione assembleare, trattandosi di una controversia che rientra nelle sue normali attribuzioni, con la conseguenza che in tali casi egli neppure deve premunirsi di alcuna autorizzazione dell’assemblea per proporre le impugnazioni nel caso di soccombenza del condominio (Cass. 15 maggio 1998 n. 4900; Cass. 20 aprile 2005 n. 8286). A questa conclusione non è di ostacolo il principio, enunciato dalle Sezioni Unite (sentenza 6 agosto 2010 n. 18331), secondo cui l’amministratore del condominio, potendo essere convenuto nei giudizi relativi alle parti comuni ma essendo tenuto a dare senza indugio notizia all’assemblea della citazione e del provvedimento che esorbiti dai suoi poteri, ai sensi dell’articolo 1131 c.c., commi 2 e 3, può bensì costituirsi in giudizio e impugnare la sentenza sfavorevole senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, ma deve, in tale ipotesi, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea stessa, per evitare la pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione. L’ambito applicativo del dictum delle Sezioni Unite – con la regola, da esse esplicitata, della necessità dell’autorizzazione assembleare, sia pure in sede di successiva ratifica – si riferisce, espressamente, a quei giudizi che esorbitano dai poteri dell’amministratore ai sensi dell’articolo 1131 c.c., commi 2 e 3. Ma non è questo il caso di specie, posto che eseguire le deliberazioni dell’assemblea e difendere le stesse dalle impugnative giudiziali del singolo condomino rientra nelle attribuzioni proprie dell’amministratore.
In siffatta direzione è indirizzata la giurisprudenza (Cass. 25 ottobre 2010 n. 21841), quando riconosce che l’amministratore di condominio, essendo tenuto a curare l’osservanza del regolamento di condominio (articolo 1130 c.c., comma 1, n. 1), è legittimato ad agire e a resistere in giudizio per ottenere che un condomino non adibisca la propria unità immobiliare ad attività vietata dal regolamento condominiale contrattuale, senza la necessità di una specifica deliberazione assembleare assunta con la maggioranza prevista dall’articolo 1136 c.c., comma 2, la quale è richiesta soltanto per le liti attive e passive esorbitanti dalle incombenze proprie dell’amministratore stesso.
Pur non essendo mancato un orientamento di segno diverso, per avere talora ritenuto, sulla scorta di una lettura ampia della pronuncia delle Sezioni Unite, che, anche nell’ambito della propria sfera di competenza, l’amministratore debba premunirsi di apposita autorizzazione dell’assemblea, avendo, in mancanza, l’onere di far ratificare il proprio operato dall’assemblea, pena la inammissibilità della costituzione da lui autonomamente effettuata, o la inammissibilità dell’impugnazione da lui proposta: e cosi – in controversia riguardante l’impugnazione di delibera assembleare da parte del condomino – si è assegnato (cfr. Cass. 25 febbraio 2011 n. 4733) un termine al condominio controricorrente, ai sensi dell’articolo 182 c.p.c., comma 2, al fine di consentirgli la produzione dell’autorizzazione dell’assemblea, considerata necessaria per la valida costituzione del condominio stesso.
Il Collegio è invece dell’avviso che, nella propria sfera di competenze (ordinarie o incrementate dall’assemblea), l’amministratore è munito di poteri di rappresentanza processuale ad agire e resistere senza necessità di alcuna autorizzazione. Sarebbe, infatti, veramente defatigatorio, nell’ottica di un assurdo “iperassemblearismo”, che l’amministratore fosse costretto a convocare ogni volta i condòmini al fine di ottenere il nulla osta, ad esempio, per agire o resistere al monitorio sul pagamento degli oneri condominiali, o al giudizio per far osservare il regolamento, o all’impugnativa di una statuizione assembleare, oppure al fine di sperare nella ratifica riguardo ad un procedimento cautelare volto a conservare le parti comuni dello stabile (v. in termini Cass. 23 gennaio 2014 n. 1451).
GIURISPRUDENZA
1. Cassazione civile sez. III del 06/05/2015, n. 8998 – Amministratore, attribuzioni e provvedimenti.
In tema di controversie condominiali, la legittimazione dell’amministratore del condominio dal lato attivo coincide con i limiti delle sue attribuzioni (art. 1131 c.c.), mentre dal lato passivo non incontra limiti e sussiste in ordine ad ogni azione, anche di carattere reale o possessorio, concernente le parti comuni dell’edificio. In tale contesto l’amministratore ha la facoltà di proporre tutti i gravami che successivamente si rendano necessari in conseguenza della vocatio in ius.
2. Cassazione civile sez. II del 23/04/2015, n. 8309 – Legittimazione dell’amministratore. 
In tema di legittimazione processuale del condominio, l’amministratore può resistere all’impugnazione della delibera assembleare e può gravare la relativa decisione del giudice, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell’assemblea, giacché l’esecuzione e la difesa delle deliberazioni assembleari rientrano fra le attribuzioni proprie dello stesso, nell’esercizio delle sue funzioni (fattispecie relativa all’impugnazione di una delibera nella parte in cui veniva approvata l’esecuzione dei lavori di manutenzione del tetto di copertura).
3. Cassazione penale sez. IV del 12/12/2014, n. 3320 – Legittimazione all’azione civile. 
L’amministratore di condominio può esercitare nel giudizio penale l’azione civile per il risarcimento dei danni subiti dal condominio, senza che sia all’uopo necessario uno specifico mandato assembleare, giacché egli è titolare ex lege di un potere rappresentativo comprendente tutte le azioni volte a realizzare la tutela dei diritti sulle parti comuni dell’edificio.
4. Cassazione civile sez. II del 04/12/2014, n. 25634 – Legittimazione dell’amministratore. 
In tema di azioni giudiziali nelle quali il condominio è convenuto in giudizio, la legittimazione a resistere dell’amministratore non incontra limiti, sicché deve considerarsi correttamente instaurato il contradditorio anche se l’attore o opponente nel giudizio per opposizione a decreto ingiuntivo, in via riconvenzionale, propongano domanda di accertamento della proprietà di una parte dell’edificio.
5. Cassazione civile sez. II del 22/09/2014, n. 19909 – Legittimazione dell’amministratore.
Ai sensi dell’art. 1131, comma 2, c.c., la legittimazione passiva dell’amministratore del condominio a resistere in giudizio ha portata generale in quanto estesa ad ogni interesse condominiale e sussiste, pertanto, anche un ordine ad azioni di natura reale relative alle parti comuni dell’edificio, promosse contro il condominio, senza che sia necessaria la partecipazione al giudizio di tutti i condòmini.
6. Cassazione civile sez. II del 23/01/2014, n. 1451 – Legittimazione dell’amministratore a resistere all’impugnazione della delibera assembleare e a gravare la sentenza – Sussistenza – Autonomia – Fondamento. 
In tema di condominio negli edifici, l’amministratore può resistere all’impugnazione della delibera assembleare e può gravare la relativa decisione del giudice, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell’assemblea, giacché l’esecuzione e la difesa delle deliberazioni assembleari rientra fra le attribuzioni proprie dello stesso.

LAVORO E BONUS PRIMA CASA: COSA SUCCEDE SE VIENE A MANCARE IL REQUISITO?

A cura di: Marcello Maiorino – FiscoOggi, Agenzia delle Entrate] Con la risoluzione 53/E del 27 aprile 2017, l’Agenzia delle Entrate fornisce chiarimenti su una questione relativa alle agevolazioni prima casa. In particolare, il documento di prassi trae spunto dal caso di un contribuente che ha chiesto il beneficio, dichiarando di svolgere la propria attività prevalente nel comune in cui è situata l’abitazione oggetto del trattamento fiscale di favore. Tuttavia, le aspettative lavorative in tale luogo sono state disattese. Il contribuente, pertanto, chiede se può conservare i benefici fruiti integrando la dichiarazione resa nell’atto di acquisto e impegnandosi a fissare la propria residenza nello stesso comune in cui è ubicato l’immobile.
Al riguardo, si fa presente che il godimento delle agevolazioni per l’acquisto della prima casa (applicazione dell’imposta di registro nella misura del 2% e delle imposte ipotecaria e catastale nella misura fissa di 50 euro ciascuna) spettano in presenza delle condizioni stabilite dalla nota II-bis all’articolo 1 della tariffa, parte prima, allegata al Testo unico dell’imposta di registro (Dpr 131/1986). In particolare, secondo la lettera a), si può beneficiare delle agevolazioni “prima casa” a condizione, tra l’altro, “che l’immobile sia ubicato nel territorio del comune in cui l’acquirente ha o stabilisca entro 18 mesi dall’acquisto la propria residenza, o, se diverso, in quello in cui l’acquirente svolge la propria attività (…). La dichiarazione di voler stabilire la residenza nel comune ove è ubicato l’immobile acquistato deve essere resa, a pena di decadenza, dall’acquirente nell’atto di acquisto; (…)”. 
Tra i presupposti per godere dello sconto d’imposta, il legislatore ha, quindi, previsto che l’acquirente risieda nel comune in cui è sito l’immobile o si impegni a trasferirvi la residenza entro i successivi 18 mesi, ovvero che svolga la propria attività nel predetto municipio. Si tratta, comunque, di condizioni alternative tra loro, e il contribuente, in sede di acquisto, dichiara per quale di queste ipotesi chiede il trattamento di favore.
Nella fattispecie esaminata, l’istante aveva dichiarato di svolgere la propria attività prevalente nel comune dell’abitazione acquistata. In realtà, le aspettative lavorative del contribuente non si erano concretizzate e lo stesso aveva comunicato al proprio ordine professionale che l’attività non era stata intrapresa. Tale circostanza, chiarisce l’Agenzia delle Entrate, esclude che possa ritenersi assolto il requisito dichiarato dal contribuente. Tenuto conto, tuttavia, che la lettera a) della nota II-bis consente, in via alternativa, di beneficiare delle agevolazioni anche nel caso in cui l’acquirente si impegni a trasferire, entro 18 mesi dall’acquisto, la residenza nel municipio della nuova abitazione, si ritiene che, nel caso in cui tale termine sia ancora pendente, il contribuente possa dichiarare di voler beneficiare delle agevolazioni assumendo l’impegno a trasferirsi entro 18 mesi dall’acquisto.
L’atto, redatto secondo le medesime formalità giuridiche del documento originario, deve essere prodotto per la registrazione presso l’ufficio in cui è stato registrato il precedente. La rettifica può essere effettuata dal contribuente anche in data successiva alla registrazione dell’acquisto, a condizione che non venga arrecato pregiudizio all’attività di controllo svolta dall’ufficio. L’integrazione, pertanto, potrà avvenire sempre che l’ufficio delle Entrate, con apposito avviso di liquidazione, non abbia già disconosciuto le agevolazioni, rilevando la mancanza del presupposto dello svolgimento dell’attività lavorativa nel comune in cui è situato l’immobile acquistato.

DICHIARAZIONE DEI REDDITI: TUTTE LE AGEVOLAZIONI FISCALI SULLA CASA

[A cura di: Chiara Bianchi – SoloAffitti.it]

Siamo arrivati come ogni anno al periodo in cui raccogliere le idee, ma soprattutto le fatture e le ricevute delle spese effettuate durante i 12 mesi passati, da presentare in sede di dichiarazione dei redditi per poter usufruire delle relative agevolazioni fiscali. Ricordiamo che, per chi deve presentare il 730, la parte da compilare con gli oneri dell’anno precedente è il Quadro E, mentre per chi presenta il Modello Unico è il Quadro RP. Di seguito, un sintetico prospetto dei costi per casa e affitto deducibili o detraibili nella dichiarazione 2017.

* CANONI D’AFFITTO. Gli inquilini possono portare in detrazione le spese sostenute per il pagamento dei canoni di affitto, con importi diversi a seconda del tipo di contratto e della finalità con la quale si affitta l’immobile. I titolari di contratto libero 4+4 che affittano un’abitazione destinata ad essere prima casa possono detrarre una somma pari a 300 euro se il reddito complessivo non supera 15.493,71 euro, o una somma pari a 150 euro per redditi imponibili compresi tra 15.493,71 e 30.987,41 euro. Per chi ha stipulato un contratto di affitto a canone concordato, invece, la detrazione è pari a 495,80 euro se il reddito complessivo non supera 15.493,71 euro, e a 247,90 euro per redditi compresi tra 15.493,71 e 30.987,41 euro.

* GIOVANI E LOCAZIONI. la detrazione per i canoni d’affitto versati da giovani tra i 20 e i 30 anni su contratti ad uso abitativo soggetti alla legge 431/1998 è prevista nella misura massima di 991,60 euro se il reddito non supera i 15.493,71 euro, a patto che la casa sia adibita ad abitazione principale.

* STUDENTI FUORI SEDE. Si possono detrarre al 19% le spese sostenute per i canoni di affitto di alloggi per gli studenti universitari iscritti a un ateneo ubicato in un Comune diverso da quello di residenza, a patto che si trovi a una distanza di almeno 100 km e comunque in una diversa provincia da quella di provenienza. La detrazione spetta, naturalmente, anche se le spese sono state sostenute per i figli a carico; l’importo massimo da detrarre non può comunque essere superiore a 2.633 euro.

* LAVORATORI TRASFERTISTI. I lavoratori dipendenti che si trasferiscono per motivi di lavoro possono portare in detrazione i canoni di affitto nella misura di 991,60 euro per redditi complessivi non superiori a 15.493,71 euro, e 495,80 euro per redditi tra i 15.493,71 euro e i 30.987,41 euro. I requisiti per poter accedere a tale detrazione prevedono però che il trasferimento avvenga in un comune ad almeno 100 km di distanza dal precedente e comunque fuori dalla propria regione, e che la residenza nel nuovo comune sia stata trasferita da non più di 3 anni dalla richiesta di detrazione.

* ALLOGGI SOCIALI. Naturalmente non possono mancare detrazioni per gli inquilini che alloggiano, a titolo di abitazione principale, in immobili destinati all’housing sociale, ovvero quelli concessi a famiglie o individui disagiati. In questo caso la detrazione è pari a 900,00 euro se il reddito complessivo non supera i 15.493,71, euro e 450,00 euro se il reddito complessivo supera i 15.493,71 euro ma non i 30.987,41 euro.

BONUS MOBILI GIOVANI COPPIE. Da quest’anno le giovani coppie, di cui almeno uno dei componenti sia under 35, possono detrarre il 50% delle spese sostenute per l’acquisto di mobili destinati all’arredo dell’abitazione principale acquistata nel 2015 o nel 2016. In questo caso, il tetto massimo di spesa è di 16mila euro, ripartiti in dieci rate annuali di pari importo. Per usufruire dell’agevolazione è necessario che siano rispettati i seguenti requisiti: che la coppia sia coniugata nell’anno 2016, oppure che sia una coppia di fatto, convivente da almeno 3 anni al 2016.

* LEASING PRIMA CASA. È possibile portare in detrazione al 19% anche i canoni di leasing pagati nel 2016 per l’acquisto dell’abitazione principale e i relativi oneri accessori. Le detrazioni valgono nel caso in cui il contribuente non abbia un reddito superiore a 55mila euro alla data di stipula del contratto; il limite massimo rispetto all’importo da detrarre è di 8000 euro l’anno se alla data di stipula del contratto di leasing il contribuente aveva meno di 35 anni, mentre in caso contrario il limite scende a 4.000 euro.

* LOCAZIONE E PROPRIETARI. Questa volta l’agevolazione è rivolta ai proprietari. Per chi stipula un contratto di locazione a canone concordato, il reddito da tassare è dato, come in quello a regime libero, dal valore più alto tra la rendita catastale, rivalutata del 5%, e il canone di locazione (aggiornato con le rivalutazioni Istat), ridotto del 15%. Tuttavia, nel caso in cui l’immobile sia situato in uno dei comuni ad alta densità abitativa, la riduzione prevista è di un ulteriore 30%. Dalla dichiarazione dei redditi 2017 (che richiama l’anno d’imposta 2016) non è più necessario indicare nella dichiarazione gli estremi di registrazione del contratto di affitto, a meno che non siano intervenuti dei cambiamenti.

* IMU E TASI. Un’ulteriore agevolazione per i proprietari che concedono in affitto il proprio immobile con un contratto a canone concordato è l’aliquota Imu e Tasi ridotta al 75%.

* IMPOSTA DI REGISTRO. Nel caso in cui l’immobile affittato si trovi in un comune ad alta densità abitativa e sia un immobile a destinazione residenziale, il proprietario ha diritto alla riduzione del 30% sul corrispettivo annuo.

* IMU PER COMODATI. Per la casa concessa in comodato ai parenti in linea retta entro il primo grado che la utilizzano come abitazione principale è prevista la riduzione al 50% dell’Imu.

* CASE EFFICIENTI. È prevista una detrazione Iva del 50% per la spesa sostenuta nel 2016 per l’acquisto di immobili in Classe A o B a destinazione residenziale. La detrazione viene ripartita in 10 rate annuali di pari importo, ma è limitata all’Iva versata all’impresa costruttrice entro il 31 dicembre 2016.

* DOMOTICA. Tra le novità 2017, è stato introdotto un ecobonus per le spese destinate all’acquisto di impianti domotici e all’installazione di dispositivi multimediali per il controllo da remoto degli impianti di riscaldamento, produzione di acqua calda e climatizzazione delle case. La detrazione è pari al 65% e in questo caso non è previsto un massimale di spesa; lo sconto è diviso in dieci rate annuali.

* MUTUO PRIMA CASA. Lo sconto fiscale è pari al 19% e comprende i relativi oneri accessori, per un importo massimo di 4mila euro.

* INTERMEDIAZIONE IMMOBILIARE. È possibile scaricare questo tipo di spesa nella misura del 19% su un importo massimo di 1000 euro.

* ECOBONUS E BONUS RISTRUTTURAZIONI. Gli interventi di ristrutturazione finalizzati alla riqualificazione energetica degli edifici possono essere portati in detrazione nell’ordine del 65% grazie alla proroga del 2016, mentre per le ristrutturazioni edilizie il risparmio è del 50%. Il tetto di spesa è di 96mila euro rimborsabili in 10 rate annuali.

* MOBILI ED ELETTRODOMESTICI. Per queste spese la detrazione Irpef ammonta al 50% con un tetto massimo di 10 mila euro. Ricordiamo che gli elettrodomestici agevolabili sono quelli in classe energetica A+ (A per i forni).

APPROVAZIONE RENDICONTO CONSUNTIVO E RICONOSCIMENTO DEL DEBITO EX AMMINISTRATORE

[A cura di: Maurizio Zichella – membro Acap e vice presidente nazionale ARCO, Associazione Revisori Contabili Condominiali]
La sentenza che si vuole segnalare è del Tribunale di Roma, V. Sez Civile., n. 4438/2017 nella quale vengono richiamati alcuni principi in tema di approvazione del rendiconto di gestione e di anticipi richiesti dall’amministratore uscente.
Il fatto consiste nella citazione effettuata nei confronti del condominio da parte dell’ex amministratore “per ottenere il rimborso di anticipazioni effettuate in costanza di rapporto, svoltosi per tutto l’anno 2009 e fino al 13.10.2010, data in cui è stato nominato il nuovo amministratore”.
L’amministratore uscente richiedeva i compensi tutti fatturati nel corso del 2010 e le anticipazioni maturate, a suo giudizio, dopo l’approvazione del rendiconto consuntivo 2009. L’attore del procedimento dimostrava che il rendiconto consuntivo relativo all’anno 2009 era stato approvato all’unanimità dell’assemblea tenuta il 13.10.2010, e che con tale approvazione il condominio aveva accettato e riconosciuto il debito nei suoi confronti pari a 6.992,92 euro tra anticipazioni e compenso maturato.
Il condominio costituitosi in giudizio, contestava la domanda e ne richiedeva il rigetto, sostenendo che l’assemblea a cui si faceva riferimento esprimeva una riserva sugli importi del rendiconto del 2009, e che non aveva riconosciuto alcun credito per le anticipazioni effettuate dall’ex amministratore, ma al contrario, aveva chiesto al nuovo amministratore , contestualmente nominato, di verificare i giustificativi di spesa e gli importi rappresentati nel documento contabile dell’amministratore uscente.
Dopo l’espletamento della CTU contabile richiesta dal giudice la domanda è stata parzialmente accolta.
In primo luogo, perché nella lettura e nell’interpretazione della delibera assembleare del 13.10.2010, con cui veniva approvato all’unanimità il rendiconto del 2009, il condominio riconosceva ed accettava la chiusura del documento contabile con un disavanzo di cassa registrato ed approvato, nel quale veniva evidenziato il credito dell’ex amministratore per i suoi compensi non riscossi e tale delibera e da intendersi come ricognizione di debito giuridicamente vincolante.
Il giudice richiama la sentenza della Cassazione 10153 del 9.5.2011, nella quale viene fissato il seguente principio di diritto: “in materia di deliberazioni di assemblea condominiale, l’approvazione del rendiconto ha valore di riconoscimento del debito in relazione alle sole poste passive specificatamente indicate. Pertanto, l’approvazione di un rendiconto di cassa che presenti un disavanzo tra uscite ed entrate, non implica che, per via deduttiva, possa ritenersi riconosciuto il fatto che la differenza sia stata versata dall’amministratore utilizzando denaro proprio, atteso che la ricognizione di debito richiede pur sempre un atto di volizione su di un oggetto specificatamente sottoposto all’esame dell’organo collettivo, chiamato a pronunciarsi su di esso”.
Richiamando tale principio, il giudice ha riconosciuto il debito riferito ai compensi professionali maturati ed indicati nel rendiconto approvato, alla luce anche del fatto che tale delibera non è stata impugnata dal alcun condomino ai sensi dell’art. 1137 co.3, ritenendo irrilevante l’approvazione del rendiconto con riserva di far verificare al nuovo amministratore alcune voci di bilancio, atteso che il nostro ordinamento non contempla, in materia condominiale, l’istituto dell’approvazione di una delibera assembleare con riserva.
Per la parte riguardante le eventuali anticipazioni effettuate e pretese dall’ex amministratore , il giudice rileva che tale richiesta viene fatta in base alla documentazione contabile condominiale, ma non è stata prodotta in giudizio la relativa documentazione giustificativa, non allegata al verbale, ne consegnata al nuovo amministratore, dalla quale è possibile rilevare gli esborsi effettuati, per mancanza di cassa, dall’amministratore con fondi propri.
Pertanto la richiesta non trova accoglimento.
Dall’esame di questa sentenza possiamo concludere che, non è possibile approvare un bilancio con riserva, ma la sua approvazione determina il riconoscimento delle poste attive e passive in esso indicate, e che eventuali contestazioni possono essere fatte valere solo con l’impugnazione della delibera stessa.
Non è inoltre, possibile conferire all’amministratore subentrante l’incarico di verificare una contabilità, comunque approvata, ma che non può essere “revisionata” dal nuovo amministratore a seguito di due principi tipici dell’istituto delle revisione: quello dell’indipendenza e dell’imparzialità del revisore.
Le tante “famose” e ricorrenti anticipazioni dell’amministratore vanno documentate con l’evidenza contabile di utilizzo di fondi propri: non è sufficiente giustificarle e motivarle con una prevalenza delle uscite rispetto alle somme introitate, che non vengono evidenziate in nessun documento contabile ovvero in una voce specifica relativo all’importo che il condominio dovrebbe riconoscere come anticipazione.

ACQUISTA LA CASA CON I SOLDI DI PAPÀ: LA DONAZIONE DEVE ESSERE DIMOSTRATA

[A cura di: Emiliano Marvulli – FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]

Se il contribuente deduce che la spesa effettuata per l’acquisto di un immobile è frutto di una liberalità da parte dei propri genitori, la presunzione per la determinazione sintetica del reddito può essere superata solo con la produzione di documentazione idonea a dimostrare anche l’entità e la permanenza nel tempo del possesso del relativo reddito.

Il giudice di merito deve sempre rifarsi a tali prove documentali, non potendosi limitare ad argomentare che le donazioni a favore dei figli non necessitano di una prova documentale perché è altamente probabile che un genitore intervenga con donazioni di fatto per la partecipazione alle spese di gestione della vita familiare dei figli. Questo, in sintesi, il contenuto della sentenza della Corte di cassazione n. 7256 del 22 marzo 2017.

IL FATTO

La controversia ha ad oggetto il ricorso proposto da un contribuente avverso l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate con cui è stato determinato in via sintetica il maggior reddito imponibile del ricorrente inerente l’acquisto di un’autovettura e di un immobile.

Il ricorso è stato accolto parzialmente dalla Commissione tributaria provinciale, la quale ha ridotto del 50% il reddito derivante dall’immobile perché detto bene era nella disponibilità anche della moglie del contribuente, titolare di autonomo reddito.

Avverso la decisione di primo grado il contribuente ha proposto appello, accolto in toto dalla Commissione tributaria regionale, che ha disposto l’annullamento dell’atto impositivo perché gli elementi addotti dal ricorrente, secondo cui l’incremento patrimoniale derivava da una liberalità dei genitori, parevano idonei a vincere la presunzione derivante dall’applicazione del redditometro. Contro la suddetta decisione, l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione. La Corte suprema ha ritenuto fondate nel merito le doglianze dell’amministrazione finanziaria e ha deciso per la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla Ctr in diversa composizione.

LA DECISIONE

Con i principali motivi di ricorso, l’Agenzia delle Entrate ha censurato la sentenza di secondo grado, sia sotto il profilo della violazione di legge che del vizio di motivazione, perché gli elementi addotti dal contribuente sono stati ritenuti idonei a superare la presunzione correlata alle risultanze dell’accertamento sintetico.

Oggetto della controversia riguarda, pertanto, il corretto inquadramento del cosiddetto accertamento sintetico nei confronti delle persone fisiche, che trova il suo fondamento giuridico nell’articolo 38 del Dpr 600/1973, e delle prove necessarie al superamento della presunzione prevista da tale specifico strumento accertativo.

La norma richiamata prevede una specifica modalità accertativa, comunemente nota come “redditometro”, per cui l’amministrazione finanziaria può determinare sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per “incrementi patrimoniali” (ad esempio, acquisto di un immobile o di un’autovettura). Per espressa previsione normativa, si presume che la spesa sia stata sostenuta con redditi conseguiti in quote costanti nell’anno in cui è stata effettuata e nei quattro precedenti. È onere del contribuente dimostrare che il reddito sinteticamente determinato dall’Agenzia delle Entrate è costituito, totalmente o parzialmente, da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o che esso possa essere giustificato sulla base di altri fatti e circostanze documentabili.

Nel caso di specie, il controllo da parte dell’ufficio finanziario è scaturito dalle operazioni di acquisto di un immobile e di un’autovettura, effettuate dal contribuente con un esborso non coerente con la propria situazione reddituale e patrimoniale. A parere dei giudici d’appello, il contribuente avrebbe assolto all’onere della prova previsto dall’articolo 38 “sia per la documentazione prodotta che per la circostanza che è altamente probabile che sia intervenuta una donazione di fatto da parte dei genitori”. La Ctr ha altresì affermato “che pare eccessivo pretendere una prova documentale di tali singole donazioni”, perché rientrerebbero in una pratica comune secondo cui i genitori spesso concorrono alle spese di gestione della vita familiare dei figli.

La decisione impugnata dall’Amministrazione finanziaria è in contrasto con il consolidato orientamento della Corte di cassazione espresso in materia di accertamento sintetico in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali. A parere dei giudici di legittimità, infatti, nell’ipotesi in cui si deduca che la spesa oggetto di analisi (acquisto di un immobile e di un’autovettura) sia frutto di liberalità, “la prova della liberalità medesima deve essere fornita dal contribuente con la produzione di documenti, ai quali la motivazione della sentenza deve fare preciso riferimento” (così Cassazione, 24597/2010).

In tempi recenti, inoltre, la Corte ha precisato che, qualora il contribuente deduca che l’incremento patrimoniale sia frutto di liberalità, è sempre tenuto “a fornire la prova con documentazione idonea a dimostrare l’entità e la permanenza nel tempo del possesso del relativo reddito” (in tal senso cfr. Cassazione, 916/2016).