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CEDOLARE SECCA: IL CODICE TRIBUTO PER PAGARE IL PREZZO DEL “SILENZIO”

[A cura di: FiscoOggi – Agenzia delle Entrate]
È “1511” il codice tributo per pagare – attraverso il modello “F24 Versamenti con elementi identificativi” – la sanzione dovuta in caso di mancata comunicazione di proroga o risoluzione del contratto di locazione immobiliare soggetto a cedolare secca.
Ad annunciarlo, la risoluzione 30/E del 10 marzo 2017 dell’Agenzia delle entrate.
“La mancata presentazione della comunicazione relativa alla proroga del contratto non comporta la revoca dell’opzione esercitata in sede di registrazione del contratto di locazione qualora il contribuente abbia mantenuto un comportamento coerente con la volontà di optare per il regime della cedolare secca, effettuando i relativi versamenti e dichiarando i redditi da cedolare secca nel relativo quadro della dichiarazione dei redditi. In caso di mancata presentazione della comunicazione relativa alla proroga, anche tacita, o alla risoluzione del contratto di locazione per il quale è stata esercitata l’opzione per l’applicazione della cedolare secca, entro trenta giorni dal verificarsi dell’evento, si applica la sanzione nella misura fissa pari a euro 100, ridotta a euro 50 se la comunicazione è presentata con ritardo non superiore a trenta giorni”.
È questa la disposizione normativa (articolo 7-quater, comma 24, del Dl 193/2016 – collegato fiscale alla legge di bilancio 2017) da cui origina l’istituzione del codice tributo in esame. Nella sezione “Contribuente” del modello F24 Elide, si dovranno inserire i dati anagrafici e il codice fiscale di chi effettua il versamento nonché i dati anagrafici e il codice fiscale della controparte (o di una delle controparti), riportando il codice “63” nel campo “codice identificativo”.
Inoltre, nella sezione “Erario ed altro”, andranno specificati: 
* nel campo “tipo”, la lettera “F” (identificativo registro);
* nel campo “elementi identificativi”, il codice identificativo (composto da 17 caratteri) del contratto, reperibile nella copia del modello di richiesta di registrazione del contratto restituito dall’ufficio o, per i contratti registrati in via telematica, nella ricevuta di registrazione. Se il codice identificativo non è disponibile, vanno espressi 16 caratteri: da 1 a 3, il codice ufficio presso il quale è stato registrato il contratto; da 4 a 5, le ultime due cifre dell’anno di registrazione; da 6 a 7, la serie di registrazione (in caso di numero inferiore, completare gli spazi, a partire da sinistra, con gli zeri); da 8 a 13, il numero di registrazione (in caso di numero inferiore, completare gli spazi, a partire da sinistra, con gli zeri); da 14 a 16, il sottonumero di registrazione (se assente, “000”);
* nel campo “anno di riferimento”, l’anno della data di inizio proroga ovvero di risoluzione. Nessun valore va immesso nei campi “codice ufficio” e “codice atto”.
Con la risoluzione 31/E del 10 marzo 2017, invece, sono stati istituiti i codici tributo per versare le somme dovute a seguito delle comunicazioni inviate ai sensi dell’articolo 36-bis del Dpr 600/1973, qualora si intenda pagare solo una quota dell’importo complessivamente richiesto.
Riguardano il credito d’imposta a favore dei soggetti danneggiati dal sisma del 20 e 29 maggio 2012 (articolo 67-octies del Dl 83/2012 – istanze presentate nel 2014): “906C” (imposta), “907C”(interessi), “908C” (sanzioni).
In tali circostanze, deve essere predisposto un modello F24, in cui i codici istituiti vanno esposti nella sezione “Erario”, in corrispondenza delle somme indicate nella colonna “importi a debito versati”, riportando anche, nei campi specificamente denominati, il codice atto e l’anno di riferimento indicati nella comunicazione. 

CONDOMINIO E PARTI COMUNI: VALE IL CRITERIO DEL PREUSO O QUELLO DEL PARI USO?

[A cura di: Mauro Simone – vice segret. Naz. Alac]
Se un condomino realizza legittimamente per primo un’opera su una parte comune dell’edificio traendo una determinata utilità può “lasciare fuori” un altro condomino dal beneficio di servirsi anch’egli della cosa comune allo scopo di ricavare una determinata o la stessa utilità parimente lecita, però confliggente con quella realizzata per prima? Per risolvere questo problema si ricorre al principio del cosiddetto “preuso”. La norma codicistica, infatti, riserva tutela all’interesse del condomino che ha realizzato per prima l’opera.
Su questa linea si colloca anche l’orientamento della Corte di Cassazione (sent. n. 2769/71) la quale ha affermato che un’opera lecita al momento in cui viene realizzata da uno dei partecipanti alla collettività condominiale non può essere messa in non cale da una utilizzazione successiva pretesa da un altro partecipante alla comunione. Pertanto, se l’opera è legittima quando viene ad esistenza non può diventare illegittima o illecita successivamente, solo perché incompatibile con le pretese di un altro condomino. Però questa interpretazione, come numerose altre in materia di condominio, soggiace alla opinabilità degli interpreti.
Infatti un diverso e contrario orientamento propende non per il criterio della priorità d’uso bensì per quello dell’equo contemperamento dei contrapposti interessi. Su questa linea infatti si pone la sentenza n. 2170 del 1963 della Cassazione, secondo la quale il contrasto fra due condòmini che intendano giovarsi del maggior godimento di una parte comune si risolve non col criterio della priorità ma con quello dell’equo contemperamento. 
È di indubbia evidenza la rilevanza del problema. Il giudicante eventualmente investito della questione avrebbe tra le mani il problema di dover trovare soluzione al conflitto dei condòmini tra loro in contrasto. Non è improbabile che si pervenga ad una soluzione di equo compromesso, anche a mente dell’art 1102 comma 1 c.c., secondo il quale ciascun partecipante può servirsi della casa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti parimenti uso, ma non un uso specifico, particolare ed identico, secondo il loro diritto. La soluzione deve essere individuata caso per caso. Se sia possibile adottare sempre il criterio del “pari uso” va visto di volta in volta, considerato che i casi possibili in materia di tutela del cosiddetto “criterio del preuso”, possono riguardare nei rapporti di vicinato le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti o simili propagazioni provenienti dal fondo del vicino oppure il diritto al passaggio di cavi cassiali TV nelle tubazioni verticali condominiali del vano scale, eccetera.

TASSE SULLA CASA, PIAGA ANCHE IN ISRAELE: DAL TERZO ALLOGGIO IN SU SCATTA LA PATRIMONIALE

[A cura di: Vito Rossi – FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]

Novità per i contribuenti israeliani proprietari di immobili: dallo scorso primo gennaio, ogni contribuente che risulti proprietario di più di due case sul territorio nazionale è tenuto a pagare un’imposta su tutti i suoi appartamenti a partire dal terzo.  La legge che istituisce la “tassa sul terzo appartamento”, come è già stata battezzata dai media del Paese, è stata approvata dalla Knesset, il Parlamento monocamerale di Israele, a fine 2016, dopo un lungo e acceso confronto. Saranno i cittadini a scegliere quale degli appartamenti tassare e quali due lasciare fuori dal perimetro del nuovo tributo. In altre parole, i proprietari di tre o più appartamenti saranno responsabili di imposta solo per ogni ulteriore appartamento di proprietà a partire dal terzo, in base alla percentuale di proprietà detenuta.

L’imposta, promossa dall’attuale ministro delle Finanze, Moshe Kachlon, fa parte del pacchetto di misure approvate con la legge di Bilancio 2017. Nelle intenzioni del ministro, la nuova tassa dovrebbe calmierare il mercato degli affitti del Paese e abbassare il costo delle case. Secondo la legge, l’aliquota dell’1 per cento al mese si applicherà sul valore stimato di ogni casa o appartamento di proprietà, a partire dalla terza, fino ad un limite massimo di 1.500 NIS (shekel israeliano) al mese (poco meno di 400 euro). Pertanto, i contribuenti potranno pagare al massimo 18.000 NIS all’anno per appartamento.

ESENZIONI

In base alla legge nessuna imposta sarà dovuta nel caso in cui due delle proprietà immobiliari del contribuente saranno valutate meno di 1,15 milioni di NIS (equivalenti a circa 300mila dollari). Poiché in molte città di Israele il valore medio delle case supera il milione e mezzo di NIS, si prevede che la maggior parte degli israeliani coinvolti dalla nuova imposta pagherà l’importo massimo previsto. Il bacino ipotizzato sarebbe quindi di 50mila contribuenti per un totale di 180mila case. Il valore dell’appartamento verrà determinato in base alle dimensioni per metro quadro ed a una serie di indicatori economici, sociali e relativi all’area geografica in cui si trova. Nel caso di appartamenti in comproprietà, l’imposta si applicherà quando un soggetto possiede quote superiori al 249% dei vari appartamenti residenziali considerati. Sono esclusi dall’applicazione della norma, tra gli altri, gli appartamenti posseduti dagli enti senza scopo di lucro, quelli affittati alle classi sociali protette dalle legge e quelli ottenuti in eredità.

DICHIARAZIONE

Per il primo anno di applicazione, entro il 31 marzo 2017 ogni contribuente dovrà presentare una dichiarazione all’Agenzia delle Entrate nazionale (la Israel Tax Authority), in cui vengono indicati i dati di dettaglio di tutti gli appartamenti residenziali detenuti. A partire dal periodo d’imposta successivo, invece, sarà l’Amministrazione finanziaria a inviare una comunicazione ai cittadini, specificando gli appartamenti per cui è dovuta l’imposta e l’importo da versare all’Erario. I contribuenti avranno 30 giorni di tempo dalla ricezione della lettera del Fisco per esprimere la scelta su quali appartamenti sottoporre a tassazione e quali no.

Il pagamento dell’imposta avverrà in due rate semestrali: una rata di acconto entro il 30 giugno e un versamento a saldo entro il 31 dicembre di ogni anno. 

TERREMOTO E DANNI SUBITI DAL CONDOMINIO: CONDANNATO IL COMUNE CHE RITARDA I CONTRIBUTI

[A cura di: avv. Rosario Dolce – accademia Confamministrare]

L’articolo 2 bis, 1º comma, della Legge n. 241 del 1990 riconosce che anche il tempo è un “bene della vita” per il cittadino, sicché il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un “costo”, dal momento che il fattore tempo costituisce un’essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di un qualsiasi piano o programma da parte del privato interessato alla conclusione del procedimento. Tale principio, secondo il Tar Abruzzo (sentenza 703/2016) è quanto mai attuale e risulta applicabile in quei casi in cui gli enti locali sono tenuti a dare delle risposte immediate ai cittadini, in tema di erogazione dei contributi per la ricostruzione degli immobili danneggiati dal sisma.

IL FATTO

A seguito del sisma del 06.04.2009 che ha interessato la città di L’Aquila, un condominio locale, in persona del suo amministratore, ha presentato avanti al comune locale domanda di contributo ai sensi dell’articolo 2 Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri (d’ora in avanti O.P.C.M. n. 3790/2009), per la copertura degli oneri relativi alla riparazione, con miglioramento sismico, delle parti comuni danneggiate. L’ente locale ha liquidato il contributo in favore del condominio soltanto in data 23 ottobre 2012, quando il termine di conclusione del procedimento, fissato in 60 giorni dall’articolo 2 dell’O.P.C.M. n. 3790/2009 era già scaduto in data 28 agosto 2011. 

Sulla scorta di tali premesse è stato istruito un procedimento giudiziale avanti al TAR locale che si è concluso con la condanna del Comune a risarcire il danno arrecato alla compagine; quantificato, nello specifico, nella differenza negativa tra quanto avrebbe ottenuto, in caso di risposta alla propria istanza nei termini scanditi dalla legge di riferimento (n. 60 gg), e quanto invece ha poi ottenuto a causa del predetto ritardo.

LA SENTENZA

L’articolo 2, comma 6, dell’O.P.C.M. n. 3790 del 9.7.2009 prevede espressamente che il Sindaco del Comune, entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, “autorizza anche dettando prescrizioni gli interventi di riparazione con miglioramento sismico, o ricostruzione, (…) e determina la spettanza del contributo indicandone l’ammontare in relazione alle spese giudicate ammissibili, dandone immediata comunicazione agli interessati”.

Secondo la consolidata giurisprudenza del TAR Abruzzo (cfr. fra le tante, nn. 532 del 2013 e 182 del 2013), l’inerzia nel provvedere, protratta dal Comune dell’Aquila oltre i 60 giorni previsti dall’art. 6 dell’OPCM 3790/09, integra la fattispecie del silenzio-rifiuto a carico di quell’Ente, senza che in contrario rilevi l’inefficienza istruttoria della cosiddetta filiera, costituita da enti strumentali necessari per gli accertamenti tecnici del caso (si pensi all’analisi preliminare che deve rendere il Genio Civile), di cui il Comune si avvale per l’istruttoria delle pratiche.

L’adozione tardiva del provvedimento è stata così valutata – dai predetti giudici amministrativi – come un illecito civile, per violazione colpevole del termine di conclusione del procedimento normativamente stabilito, in violazione dell’articolo 2 bis, comma 1, della Legge n. 241/1990. Quest’ultima norma, in particolare, conferma e rafforza la tutela del privato nei confronti dei ritardi dell’amministrazione, avendo stabilito che quest’ultima è tenuta al ristoro del danno ingiusto derivante dall’illecito permanente costituito dall’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento (cfr. TAR Abruzzo, L’Aquila, 21 novembre 2011, n. 548; Cons. Stato, sez. V, 28 febbraio 2011, n. 1271; 21 marzo 2011, n. 1739). 

In conclusione, il pregiudizio patrimoniale subito da parte del condominio ricorrente è stato ritenuto sussistente e valutato, nello specifico, nella differenza tra la somma che avrebbe ottenuto il condominio, qualora l’amministrazione locale avesse adottato tempestivamente il provvedimento ( 50.846,19), e la somma che poi gli è stata effettivamente liquidata a causa del ritardo posto in essere dalla Pubblica Amministrazione, pur in applicazione della normativa sopravvenuta.

CRONACA FLASH DALLA CASA E DAL CONDOMINIO

Il padrone di casa muore

soffocato nella rapina

Potrebbe essere spirato in pochi attimi il gioielliere di 63 anni residente in un piccolo comune della provincia di Nuoro, vittima nella propria abitazione di una rapina da parte di un gruppo di malviventi. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, l’uomo avrebbe risposto negativamente alla richiesta di mostrare l’ubicazione della cassaforte. A quel punto, i banditi lo avrebbero legato ad una sedia e imbavagliato. Proprio le corde troppo strette e il nastro applicato sul volto del gioielliere ne avrebbero causato la repentina morte. Resisi conto del delitto, i ladri si sono allontanati dalla casa della vittima, adiacente alla gioielleria e collegata ad essa da una semplice porta. Non si esclude che a lanciare l’allarme tramite telefonata anonima, siano stati gli stessi aggressori.

“Topi di stagione”:

rubano turbina spalaneve

Cambiano le stagioni e con esse le refurtive dei ladri di appartamento. Così, nell’inverno della città di Sassuolo, alcuni malviventi si sono introdotti in un condominio per rubare una turbina utilizzata dai residenti per spalare la neve dalle parti comuni e dei viali di accesso all’edificio. I ladri hanno agito di notte, riuscendo a scardinare la porta dello scantinato dove si trovava la pesante macchina, senza produrre alcun rumore. La mattina seguente l’amara scoperta fatta dai condòmini, che si sono recati, quindi, alla stazione dei carabinieri di Modena per la denuncia.

Furto in villa: bottino

di mezzo milione di euro

Sabato sera redditizio per un commando di ladri d’appartamento attivi nell’hinterland di Torino, che sono riusciti a portare via da una villa di Moncalieri, comune limitrofo alla città capoluogo, un bottino di circa 500mila euro. I banditi sono entrati in azione di notte, rompendo una finestra e approfittando dell’assenza della proprietaria, una donna di 70 anni. Con un flessibile hanno aperto la cassaforte e hanno trafugato gioielli, pietre preziose, argenteria e orologi di pregio. Quindi, non contenti, sono andati alla ricerca di altri oggetti da rubare, mettendo a soqquadro la casa. Il colpo, sul quale stanno indagando i carabinieri, è il secondo nella zona nel giro di pochi giorni.

Sente i ladri in cucina

Viene aggredito in camera

Si è conclusa con tanto spavento e la sottrazione di un cellulare l’aggressione ai danni di un uomo di 77 anni che vive da solo in un appartamento in provincia di Pisa. Erano da poco passate le 20 quando l’anziano, che si trovava in camera da letto, ha sentito dei rumori provenire dalla cucina e, pensando si trattasse della donna delle pulizie, ha acceso la luce e l’ha chiamata. A quel punto i ladri lo hanno raggiunto in camera e lo hanno avvolto con un lenzuolo, mettendogli le mani al collo. Il tempo necessario per disorientare il malcapitato, rubargli il cellulare e fuggire. Secondo le testimonianze raccolte dalla polizia, i ladri tenevano sotto controllo la casa dell’anziano: a dimostrarlo i frequenti passaggi di un auto sospetta, notati da una vicina, e il taglio della recinzione metallica che separa la proprietà dall’argine del fiume

AGEVOLAZIONE PRIMA CASA: CONTA LA CATEGORIA. MA SOLO DAL 2014 IN POI

[A cura di: Nunziata Masiello – FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]

In tema di imposta di registro, per i trasferimenti immobiliari antecedenti al 1° gennaio 2014, i presupposti della revoca dell’agevolazione “prima casa”, per gli immobili considerati di lusso sulla base dei parametri stabiliti dal Dm 2 agosto 1969, permangono anche alla luce dello ius superveniens di cui all’articolo 10, primo comma, lettera a), del Dlgs 23/2011, il quale, nel sostituire il secondo comma dell’articolo 1 della parte prima della tariffa allegata al Dpr 131/1986, ha previsto che l’esclusione dall’agevolazione non dipende dalle caratteristiche qualitative e di superficie (individuate sulla base del suddetto Dm) quanto dalla circostanza che la casa di abitazione sia iscritta in categoria catastale Al, A8 o A9. Il nuovo regime, infatti, trova applicazione ai trasferimenti imponibili realizzati successivamente al 1° gennaio 2014.

Una diversa soluzione s’impone, tuttavia, relativamente alle sanzioni. Lo ius superveniens induce al parziale accoglimento dei ricorsi limitatamente alla non debenza delle sanzioni irrogate e tale soluzione interpretativa di favore può essere attuata anche d’ufficio in ogni ordine e grado del giudizio, quindi, anche in sede di legittimità. Questi i principi statuiti dalla Corte di cassazione con le sentenze nn. 3360, 3361 e 3362 dell’8 febbraio 2017.

LA DECISIONE

Vengono impugnate tre sentenze emesse dalla Ctr del Lazio, con le quali, in riforma delle decisioni di prime cure, i giudici di secondo grado hanno ritenuto legittimi gli avvisi di liquidazione e irrogazione di sanzioni emessi dall’Agenzia delle Entrate in revoca delle agevolazioni “prima casa” fruite in relazione a trasferimenti di unità immobiliari ricompresi in aree destinate dagli strumenti urbanistici a ville, parchi privati, costruzioni qualificate come abitazioni di lusso ai sensi dell’articolo 1 del Dm 2 agosto 1969. In tutti e tre i giudizi, la suprema Corte ha ritenuto corretta la “ratio decidendi del giudice di appello (peraltro basata su considerazioni fattuali, per loro natura insindacabili in questa sede); ratio decidendi affermativa della legittimità della revoca dell’agevolazione vertendosi, nel caso concreto, di immobile di lusso secondo i menzionati parametri tipologici ex artt.5 e 6 D.M. 2 agosto 1969”.

Sulla questione, i giudici hanno altresì chiarito che i presupposti della revoca dell’agevolazione secondo i criteri previsti dal citato Dm 2 agosto 1969 restano fermi anche alla luce delle modifiche normative introdotte dall’articolo 10, primo comma, lettera a), Dlgs 23/2011. Infatti, detta norma ha previsto il superamento del criterio di individuazione dell’immobile di lusso, come tale escluso dal beneficio “prima casa”, sulla base dei parametri del decreto ministeriale del 1969, solo per i trasferimenti immobiliari realizzati a partire dal 1° gennaio 2014. Al riguardo, i giudici hanno specificato che, in forza della disposizione sopravvenuta, “l’esclusione dalla agevolazione non dipende più dalla concreta tipologia del bene e dalle sue intrinseche caratteristiche qualitative e di superficie (…), bensì dalla circostanza che la casa di abitazione oggetto di trasferimento sia iscritta in categoria catastale Al, A8 ovvero A9 (rispettivamente: abitazioni di tipo signorile; abitazioni in ville; castelli e palazzi con pregi artistici o storici)”. Senonché “il nuovo regime trova applicazione ai trasferimenti imponibili realizzati successivamente alla modificazione legislativa; e, in particolare, successivamente al 1° gennaio 2014, come espressamente disposto dall’art.10 co.5 d.lgs.23/11 cit.”.

Sulla base delle sopra esposte considerazioni, hanno ritenuto legittime le revoche dell’agevolazione prima casa indebitamente fruite, poiché i trasferimenti dedotti nei tre giudizi erano antecedenti al “discrimine temporale” del 1° gennaio 2014 e, pertanto, disciplinati sulla base della previgente normativa. Fermo restando, dunque, il pregresso regime impositivo sostanziale, gli stessi giudici hanno ritenuto di adottare una diversa linea interpretativa per le sanzioni applicate con l’atto impugnato. Infatti, in applicazione del principio del favor rei, hanno statuito per la non debenza delle sanzioni irrogate. Al riguardo, hanno ravvisato esistenti i presupposti per l’applicazione dell’articolo 3, comma 2, del Dlgs 472/1997, ai sensi del quale “salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato”.

Nei casi di specie, la ricorrenza del principio di legalità e di favor rei in materia tributaria si impone: tali sanzioni vennero inflitte per avere il contribuente dichiarato che l’immobile acquistato possedeva, contrariamente al vero, qualità intrinseche “non di lusso” secondo i parametri ministeriali; quindi, per aver reso una dichiarazione che, tuttavia, per effetto della modifica normativa, attualmente non ha più alcuna rilevanza per l’ordinamento. In altri termini, il mendacio contestato – costituente l’espresso fondamento della sanzione – non potrebbe più realizzarsi, in quanto caduto su un elemento (caratteristiche non di lusso dell’immobile) espunto dalla fattispecie agevolativa.

Per i giudici, è vero che la modifica normativa non ha abolito né l’imposizione né le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla falsa dichiarazione; tuttavia, è proprio l’oggetto di quest’ultima, costituente elemento normativo della fattispecie, a essere stato cancellato dall’ordinamento. Tanto che, in base al regime sopravvenuto, l’agevolazione ben potrebbe sussistere (in assenza di iscrizione nelle categorie catastali ostative) anche in capo a immobili abitativi in ipotesi connotati dalle caratteristiche la cui mancata o falsa dichiarazione ha costituito il motivo della sanzione. Ed è proprio questo aspetto che rende del tutto peculiare la presente fattispecie rispetto a quelle con riguardo alle quali è stato affermato che – in difetto di “abolitio criminis” – permane a carico del contribuente tanto l’obbligo del versamento dell’imposta dovuta prima della modificazione normativa quanto quello sanzionatorio (Cassazione 25754/2014, 25053/2006).

I giudici, quindi, concludono affermando che “l’amministrazione finanziaria mantiene, come detto, la potestà di revocare l’agevolazione in questione per il solo fatto del carattere di lusso rivestito – al momento del trasferimento, e sulla base della disciplina all’epoca applicabile (…) senza però avere titolo per applicare delle sanzioni conseguenti a comportamenti che, dopo la riforma legislativa, non sono più rilevanti; non certo in quanto tali (false dichiarazioni), ma in quanto riferiti a parametri normativi non più vigenti”.

Dette statuizioni sono suscettibili di essere attuate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio; e, quindi, anche in sede di legittimità (tra le altre: Cassazione 1856/2013, 4616/2016, 16679/2016, 13235/2016).

OSSERVAZIONI

L’articolo 1 della tariffa, parte prima, allegata al Dpr 131/1986, come modificato dall’articolo 10 del Dlgs 23/2011, prevede l’applicazione dell’aliquota agevolata, ai fini dell’imposta di registro, del 2% per i trasferimenti che hanno per oggetto “case di abitazione, ad eccezione di quelle di categoria catastale A1, A8 e A9, ove ricorrano le condizioni di cui alla nota II-bis)”. Prima delle citate modifiche normative, introdotte con decorrenza dal 1° gennaio 2014, l’aliquota fissata nella misura del 3% riguardava i trasferimenti che avevano per oggetto “case di abitazione non di lusso secondo i criteri di cui al decreto del Ministro dei Lavori Pubblici 2 agosto 1969 (…), ove ricorrano le condizioni di cui alla nota II-bis)”. Con decorrenza dal 1° gennaio 2014, per l’individuazione dell’immobile agevolabile occorre fare riferimento unicamente alla categoria catastale di appartenenza dell’immobile stesso (A/l, A/8 o A/9); antecedentemente, la concreta tipologia del bene e le sue intrinseche caratteristiche qualitative e di superficie erano individuate sulla base del suddetto Dm.

Al fine di allineare allo stesso criterio dell’imposta di registro anche l’agevolazione “prima casa” attribuita con aliquota Iva ridotta, il legislatore è poi intervenuto con l’articolo 33 del Dlgs 175/2014 che, nel modificare il n. 21 della tabella A, parte II, allegata al Dpr 633/1972, ha espressamente richiamato il “criterio catastale”; con il risultato che anche l’agevolazione Iva è esclusa (indipendentemente dalla sussistenza di tutti gli altri requisiti) per gli immobili rientranti in una delle suddette categorie.

Stante il quadro normativo sopra rappresentato, sull’efficacia temporale delle nuove disposizioni, la suprema Corte ha dunque chiarito (vedasi anche Cassazione 13235/2016) che l’agevolazione prima casa spettante sulla base dei nuovi parametri non trova applicazione per gli atti negoziali anteriori a gennaio 2014; ciò, tuttavia, non impedisce alle stesse norme di spiegare effetti ai fini sanzionatori, con la conseguente applicazione anche alla materia tributaria del principio del favor rei, a condizione che il provvedimento sanzionatorio non sia divenuto definitivo.

Non in linea con il suddetto orientamento di legittimità si pongono dunque le sentenze di merito che, al contrario, riconoscono la prevalenza della nuova categoria catastale sulle vecchie regole del 1969. Ad esempio, si richiama la sentenza n. 275/1/16 della Ctp di Pisa, con la quale i giudici hanno affermato che, a seguito dell’innovazione della norma in tema di benefici da prima casa, le nuove regole si applicano anche per il passato, laddove l’abitazione acquistata, da un punto di vista catastale, rientra pacificamente nella categoria non di lusso, indipendentemente dal computo dei mq. Negli stessi termini si era espressa anche la Ctr del Lazio con la sentenza n. 4449/1/15, depositata il 29 luglio 2015.

L’ASSEMBLEA CONDOMINIALE APPROVA IL PREVENTIVO PIÙ COSTO: È ECCESSO DI POTERE?

[A cura di: Giuseppe Simone – vice segretario nazionale Appc]
Prendiamo spunto da una recentissima impugnazione di una delibera assembleare da parte di un signore – ad un tempo condomino, avvocato e giudice di pace – attinente la decisione della maggioranza dei condòmini di far cadere la loro preferenza sul preventivo più costoso fra quelli presentati in assemblea, per soffermarci sul significato di “eccesso di potere” in condominio. 
Cominciamo col porci la domanda: il giudice può sindacare, per esempio in tema di scelta dell’offerta per prestazione professionale di tecnici in materia di capitolato e computo metrico, entrando nel merito della congruità del costo della prestazione? È noto che il sindacato del giudice, in sede di impugnativa delle delibere di assemblee attiene solo alla legittimità di queste (e quindi alla violazione della legge o del regolamento) con preclusione dell’esame del merito e cioè dei motivi che possono aver indotto la maggioranza dei condòmini a scegliere un preventivo piuttosto che un altro. E, tuttavia, il contenuto di opportunità e convenienza può essere sindacato dall’autorità giudiziaria a parere della Corte di Cassazione del 1978 sent. n. 3177, allorquando i condòmini abbiano deliberato travalicando i limiti di legge per eccesso di potere. 
La nozione di eccesso di potere in ambito di diritto civile condominiale non è prevista espressamente da una norma specifica; è invece frutto di elaborazione giurisprudenziale, siccome è di origine strettamente amministrativa appartenendo solo al campo del diritto pubblico. La Corte di Cassazione nel 1968 e nel 1978 – rispettivamente con sentenze n. 1865 e n. 3177 – statuì che non può essere dedotto a motivo di annullamento di una delibera di assemblea l’apprezzamento di fatto da parte della maggioranza dei condòmini degli argomenti trattati in assemblea, salvo che la causa del provvedimento adottato sia falsamente deviata dal suo normale modo di essere, cioè la decisione della maggioranza sia viziata da eccesso di potere. 
In vero, la nozione di eccesso di potere non è ben definita nei suoi contorni neanche in giurisprudenza e neppure dalla dottrina. In via prevalente si ritiene che l’eccesso di potere dell’assemblea si ricolleghi a una grave lesione dell’interesse della comunione, alla stregua dell’art.1109 1°co. Codice civile. Sicché, quando la delibera di assemblea violi la legge, l’eccesso di potere non si configura come vizio autonomo identificabile con una falsa deviazione della causa del provvedimento, ma si identifica con la violazione di legge. E, dunque, tutte le volte che una delibera assembleare crei un pregiudizio grave all’amministrazione della cosa comune sussisterà il vizio di eccesso di potere. Occorre però dare prova concreta che la deliberazione è gravemente pregiudizievole alla cosa comune, attraverso, per esempio – nel caso di due preventivi di prestazione tecnica presentati da due distinti tecnici, un ingegnere e un geometra – la disamina anche comparativa dei costi e delle prestazioni offerte con i costi e le prestazioni di altri tecnici. 
In tema di eccesso di potere, la Cassazione del 2001, sent. n. 5889 ha puntualizzato che il sindacato dell’Autorità giudiziaria deve limitarsi al riscontro della legittimità che, oltre ad avere riguardo alle norme di legge o del regolamento di condominio, deve comprendere anche l’eccesso di potere, ravvisabile quando la decisione sia deviata dal suo modo di essere, perché in tal caso il giudice non controlla l’opportunità o la convenienza della soluzione adottata dalla delibera impugnata, ma deve stabilire solo che essa sia o meno il risultato del legittimo esercizio del potere discrezionale dell’assemblea. 
Il Tribunale di Busto Arsizio, nel 2000, ha sentenziato che il sindacato dell’Autorità non può estendersi alla valutazione del merito e al controllo della discrezionalità dell’organo deliberante e del legittimo esercizio del suo potere discrezionale. Nello specifico, il Tribunale ha respinto l’impugnativa di un condomino con la quale si contestava la decisione dell’assemblea di preferire un preventivo più costoso rispetto ad un altro più vantaggioso. Sulla stessa linea si colloca l’ordinanza del Tribunale di Venezia del 18/03/2014, riferendosi a quanto affermato dalla Corte di Cassazione, sez.2, sent.10199 del 20/06/2012. 

DELIBERE APPROVATE IN ASSEMBLEA: L’AMMINISTRATORE HA POTERE DI SINDACATO?

[A cura di: Mauro Simone – pres. Appc-Alac Bari e vice segr. naz. Alac]

Una questione raramente trattata dalla pubblicistica condominiale è quella relativa ai poteri di sindacato dell’amministratore sulle delibere assembleari. Il legislatore neppure in occasione della novella del 2012 ha ritenuto di soffermarsi ad esaminare e definire chiaramente tale aspetto. A mente del nuovo art.1130 c.c. 1° co. l’amministratore deve eseguire le deliberazioni dell’assemblea, convocarla annualmente per l’approvazione del rendiconto condominiale di cui all’art.1130 bis e curare l’osservanza del regolamento di condominio. 

In dottrina ci si chiede se l’amministratore debba comunque e sempre eseguire le delibere o deve astenersi dal dare esecuzione alle delibere assembleari se non sono prese con le maggioranze prescritte dall’art.1136 c.c., e quindi per qualsiasi deliberazione, debba comportarsi come mero esecutore delle decisioni della maggioranza o se abbia il potere/dovere di verificarne la legittimità. La posizione di dottrina e giurisprudenza non è uniforme su questa questione. Le opinioni sono contraddittorie. 

Per alcuni autori, l’amministratore deve obbligatoriamente eseguire solo le delibere legittime, perfette e regolari nella forma. Per la Cassazione n. 2668 dell’8/10/63 l’amministratore è tenuto ad eseguire le deliberazioni con la diligenza del buon padre di famiglia ed in virtù di tale dovere può solo soprassedere per ragioni di opportunità dal dare esecuzione ad una delibera a rischio di possibile revoca o modificazione. Secondo altri autori all’amministratore è riconosciuto il potere di interpretare le decisioni e anche di controllare la validità delle deliberazioni.

Il Visco sosteneva l’impossibilità per l’amministratore di sindacare le decisioni dell’assemblea, l’unica facultata ad assumere decisioni viziate. Per il Terzago non vi sarebbe l’obbligo di mettere in esecuzione le manifestazioni di volontà della maggioranza ove la messa in esecuzione delle delibere comporti la violazione di norme imperative ovvero delibere nulle o inesistenti in spregio di norme imperative.

Dall’esame delle varie teorie si ritiene di poter condividere la tesi che riconosce all’amministratore un potere di sindacare le deliberazioni anche in considerazione che all’evidenza di violazione di legge l’amministratore può essere considerato responsabile, anche se l’assemblea ha deliberato di eseguire l’opera illegittima o di assumere decisioni comportanti gravi irregolarità. Sarebbe auspicabile un chiaro e definito intervento del legislatore che definisca i poteri dell’amministratore, magari limitando la responsabilità dell’amministratore ai soli atti in cui è consentito un effettivo sindacato. 

IL CONDOMINIO: NESSO INDISSOLUBILE TRA BENI IN COMUNE E PROPRIETÀ SINGOLE

[A cura di: avv. Rodolfo Cusano]

La corretta impostazione della ricerca di quale sia il concetto di “istituto condominiale” secondo la recente legge di riforma del condominio, non può che partire dall’analisi del dato testuale di cui all’art. 1117 c.c. Infatti, è appunto attraverso questa analisi che giungeremo a definire “il condominio” come l’istituto caratterizzato da un nesso di strumentalità tra beni in comune e proprietà singole, legame necessario per la sua stessa esistenza. A dirlo con le parole del Terzago: “il condominio si caratterizza per il nesso indissolubile che lega i beni in comune alle proprietà singole”. 

IL C.C. DEL 1942

Nel codice civile del 1942, ( R.D. 16 marzo 1942 n. 262) il primo articolo del Titolo VII, Capo II, dedicato al condominio negli edifici e intitolato “Parti comuni dell’edificio”, aveva questa formulazione:

Art. 1117 – Parti comuni dell’edificio. Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo:

1) il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d’ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e in genere tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune;

2) i locali per la portineria e l’alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune;

3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere che servono all’uso e al godimento comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli acquedotti e inoltre le fognature e i canali di scarico, gli impianti per l’acqua, per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento e simili, fino al punto di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condòmini.

DOPO LA RIFORMA

Il legislatore della riforma, attesa la fondamentale importanza di tale disposizione ha pensato di ampliarne la specificità suddividendola in quattro diversi articoli di cui il primo è il seguente:

Art. 1117 – Parti comuni dell’edificio. Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo:

1) tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate;

2) le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l’alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune;

3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche.

QUALI NOVITÀ

Al primo comma si nota che non si fa più riferimento al piano (o porzione di piano) dell’edificio ma alle “singole unità immobiliari”: è questa una mera innovazione stilistica che non muta il significato sostanziale della locuzione ma risulta certamente apprezzabile poiché, anche nell’uso comune, si fa sempre esclusivamente riferimento alle singole unità immobiliari, anche se il concetto ne risulta ampliato a tutte le fattispecie possibili anche se al di fuori di quella del fabbricato, strettamente inteso. 

La seconda innovazione posta al primo comma consiste nella specificazione “anche se aventi diritto a godimento periodico”: in questo caso l’innovazione è tutt’altro che felice, poiché sembra riferirsi al contenuto tipico dei diritti reali di godimento1 mentre probabilmente il legislatore intendeva riferirsi al condomino in multiproprietà ex artt.69 ss. Dlgs.206/20052 ma, in tal caso, sarebbe stato meglio specificarlo onde evitare confusioni3: in ogni caso4 l’estensione dell’applicazione a tutti i detti soggetti non era posta in dubbio né dalla dottrina né dalla giurisprudenza, per cui tale specificazione non risultava affatto necessaria.

Al numero 1) sono stati aggiunti i riferimenti ai pilastri, alle travi portanti ed alle facciate5 che sono specificazioni certamente corrette, ma che nulla aggiungono alle interpretazioni che portavano ad includervi tali parti in maniera estensiva: tanto è vero che rimane il generico riferimento a “tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune”, il quale è stato portato all’inizio del testo, cosa che amplifica il carattere esemplificativo e non esaustivo di tale norma, e che non vieta ma anzi consente e stimola ulteriori futuri ampliamenti e specificazioni.

Al numero 2) sono stati eliminati i riferimenti ai locali per il riscaldamento mentre sono stati aggiunti i riferimenti alle aree destinate a parcheggio ed ai sottotetti: molto opportuna soprattutto la prima inclusione relativa ai parcheggi cui, come noto, il legislatore ha nel corso degli anni dedicato una notevole mole di norme anche se, per entrambe le dette innovazioni, deve ripetersi che erano già state incluse tra le parti comuni con opinione concordante di dottrina e giurisprudenza. 

Al numero 3) è stato eliminato il riferimento al “godimento” che certamente era pleonastico in quanto già compreso nel riferimento all’uso comune che correttamente resta nella nuova formulazione. Inoltre, rilievo soltanto stilistico, senza alcuna valenza contenutistica, sono “gli impianti idrici e fognari” al posto dei vecchi acquedotti, fognature e canali di scarico; altrettanto dicasi per tutti gli impianti e sistemi centralizzati cui si aggiungono ora quelli “per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo” del tipo dei collegamenti internet6: la norma ora è più specifica poiché distingue correttamente tra impianti unitari e comuni ma in sostanza non detta nuove regole in materia. 

Una notazione a parte va fatta per gli impianti per la ricezione radiotelevisiva, estremamente presenti in Italia, il cui riferimento va collegato con l’attuale art.1112 bis che introduce un vero e proprio favor per gli impianti televisivi centralizzati per apprezzabili fini: difatti con gli impianti centralizzati si hanno maggiori possibilità di risparmio, di miglioramento qualitativo del segnale e, soprattutto, di minor impatto ambientale. L’ultimo inciso relativo alle normative in tema di reti pubbliche sebbene opportuno è comunque anodino in quanto la prevalenza di tali leggi speciali era, e resta, in re ipsa.

I SOGGETTI

Al fine di meglio chiarire la portata dell’art. 1117 bis del codice civile e, quindi determinare a chi si applicano le norme di cui al Libro III della proprietà, Titolo VII della comunione, Capo II “Del condominio negli edifici” occorre precisare che trattasi di quell’istituto, avente regole sue proprie, diverse da quelle che regolano la comunione. Istituto che disciplina tutti i casi in cui: “più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti in comune ai sensi dell’art. 1117 c.c.” 

L’allargamento dell’originaria previsione data dall’art. 1117 c.c. (vecchio testo) solo ad un fabbricato composto da più piani, è servita al legislatore ad eliminare le incertezze applicative che sussistevano in ordine all’applicazione delle regole condominiali nei casi di: condominio orizzontale, supercondominio, condominio minimo, ecc. L’esigenza di certezza è evidente allorché dal testo dell’art. 1117 c.c. la legge di riforma ha eliminato il riferimento al fabbricato e sostituito lo stesso con il riferimento alle singole unità immobiliari dell’edificio. 

Così facendo, da un lato si è mantenuto il riferimento all’edificio, dall’altro si è estesa l’applicazione dell’istituto condominiale a tutti quei casi (molteplici nella pratica) in cui uno o più unità immobiliari o edifici abbiano parti comuni ai sensi dell’art. 1117 c.c.

Da ciò che l’interprete non dovrà più far fatica nello stabilire a chi applicare l’istituto:

a) quando vi è un’espressa previsione normativa; e mi riferisco all’ipotesi di un solo edificio e della multiproprietà indicate espressamente dall’art. 1117 c.c.;

b) quando pur in mancanza di un preciso riferimento normativo, si verifichino e sussistano le condizioni di cui all’art. 1117 bis e cioè che tra più unità immobiliari o edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici sussistano parti in comune ai sensi dell’art. 1117 c.c.

Ciò sta a significare che dall’originario edificio, oggi si è passati ad una platea di soggetti più ampia, che comprende qualsiasi unità immobiliare, sopra terra o addirittura sottoterra. Si immagini ad esempio delle grotte aventi accesso comune ed altri servizi in comune, quali: la guardiania, l’illuminazione, il cancello di ingresso, ecc. È stata quindi ampliata l’applicazione anche alle villette ad un solo piano, ai garages sopra o sotto terra, ma cosa più importante di tutte: la scelta nell’applicabilità della disciplina della comunione ovvero quella sul condominio deve seguire l’unico principio dell’esistenza o meno dei cd. beni in comune.

Premesso che, anche nella nuova versione, nell’art. 1117 c.c. è rimasto il riferimento ai proprietari ed all’edificio, occorre considerare che:

a) per aversi condominio occorrono più proprietari e quindi almeno due persone (da ciò che la nascita del condominio si fa risalire al primo atto di vendita in cui il costruttore aliena il primo appartamento);

b) che su detto edificio deve, conseguentemente, sussistere la proprietà separata o superficiaria su piani o su appartamenti ovvero secondo la riforma su singole unità immobiliari. 

Infatti, in generale qualora si costruisca su di un terreno, in virtù del principio dell’accessione (art. 934 c.c.) tutto ciò che si è costruito diventa automaticamente del proprietario del suolo. Questa presunzione però può essere vinta mediante il titolo. Tale titolo è proprio il rogito notarile di compravendita tra un terzo ed il proprietario del terreno dal quale si evince che il primo abbia acquistato la proprietà di una costruzione già esistente ovvero il diritto di farne una nuova. Si tratta quindi di una proprietà superficiaria ovvero distinta su cose sovrapposte. Qualora il proprietario del terreno invece mantenga la proprietà dei primi piani, parleremo allora di proprietà separata.7

Da tale coesistenza di più proprietà separate deriva l’esigenza di imporre limiti nel godimento delle cose di cui ciascuno ha la proprietà esclusiva nonché quella di disciplinare l’uso ed il godimento delle parti comuni dell’edificio.

BENI IN COMUNE

Da queste preliminari considerazioni scaturisce la primaria necessità di individuare quali siano i beni in comune cui ci riferiamo: 

a) di essi l’art. 1117 c.c. fornisce un elenco non tassativo;

b) in virtù dell’art. 1123 terzo comma non è vero che tutti i beni appartengono a tutti i condòmini, ma è vero invece che nel caso in condominio esistano, più scale, più tetti, più cortili, ecc. detti beni appartengono solo a chi li usa. Tale principio meglio chiamato del “condominio parziale” è ormai di pacifica applicazione sia in dottrina che in giurisprudenza. 

A questo punto possiamo introdurre il ragionamento logico per capire se siamo in presenza o meno di un bene in comune. La coesistenza di beni accessori a beni in proprietà singola è stata la discriminante usata nelle parole del prof. Terzago8 per attribuire al condominio la particolarità di essere una disciplina autonoma, sia pure generata dalla comunione. Egli definiva appunto il condominio come caratterizzato dal: “nesso indissolubile tra proprietà singola e proprietà comune”. Tale considerazione, come abbiamo appena detto, è vieppiù confermata dai principi cui si è ispirata la recente riforma. 

La presunzione che i beni siano in comune si fonda sul presupposto che il bene stesso sia destinato o serva all’uso comune. Tale presunzione non può nemmeno essere superata dal diritto di accessione posto che, in condominio, deve necessariamente esserci un titolo inteso come negozio giuridico ovvero un’usucapione, che appunto impediscono l’operare dell’accessione. 

Essa presunzione può invece essere vinta da un’espressa previsione contraria indicata nel titolo costitutivo del condominio, nel senso che ove nel rogito notarile di vendita del primo appartamento il proprietario non operi un’espressa riserva di proprietà di quelli che sono i beni accessori, essi si considerano in comune ai sensi dell’art. 1117 c.c.9 

Chiarita quale sia la portata della disposizione normativa appena citata, per completezza di disamina occorre precisare che i beni accessori sono tali perché servono i beni principali (unità immobiliari), oppure possono essere accessori anche per destinazione prevista nel titolo. Ciò accade quando, anche se strumentalmente non appaiono collegati, in quanto ad utilità, alle singole unità, essi comunque sono destinati a servirle per espressa volontà delle parti. Tale previsione può essere inserita nel regolamento contrattuale di condominio e poi questo, a sua volta, recepito nel primo rogito notarile di vendita ovvero direttamente in questo ultimo.

Per esempio: in assenza di volontà contraria, gli spazi destinati a parcheggio vengono a ricadere – per effetto del vincolo pertinenziale di cui si è detto – fra le parti comuni di cui all’art. 1117 c.c.. In proposito, è appena il caso di ricordare che il diritto di condominio su un bene comune presuppone la relazione di accessorietà strumentale e funzionale che collega i piani o le porzioni di piano di proprietà esclusiva agli impianti o ai servizi di uso comune, rendendo il godimento del bene comune strumentale al godimento del bene individuale e non suscettibile di autonoma utilità, come avviene invece nella comunione. 

ATTO E TITOLO

Al fine di stabilire se siano stati o meno esclusi dal novero delle cose comuni previste dall’art. 1117 cod. civ. ovvero se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui alla norma citata, va fatto riferimento esclusivamente all’atto costitutivo del condominio, e, quindi, al primo atto di trasferimento di una unità immobiliare dell’originario unico proprietario dell’intero fabbricato – comportante il frazionamento della proprietà dell’edificio: peraltro, da tale atto devono risultare in modo chiaro ed inequivocabile elementi rivelatori della esclusione della condominialità del bene, non potendo tali beni, successivamente, essere sottratti alla loro destinazione comune10.

Ulteriore conseguenza di quanto disposto dall’art. 1117 c.c. è che, quando manca il titolo e non è disposto altrimenti, la norma dettata dall’art. 1117 c.c. disciplina l’attribuzione del diritto di condominio (non la semplice presunzione).

Infatti, diversamente da quanto è scritto nell’art. 880 c.c. (“il muro che serve di divisione tra edifici si presume comune”) e nell’art. 881 c.c. (“si presume che il muro divisorio tra i campi, cortili, giardini ed orti appartenga al proprietario …”), i quali disciplinano la cosiddetta presunzione relativa – ovverosia l’effetto preclusivo di grado inferiore – la formula dell’art. 1117 c.c. non parla di presunzione: dice che sono “oggetto di proprietà comune”. Non contempla un fatto di conoscenza, ma un fatto di attribuzione del diritto. Per cui possiamo dire che, quando il titolo non dispone altrimenti, il diritto di condominio nasce dalla legge11.

Nel caso di trasferimenti delle unità immobiliari site nell’edificio, se con l’atto negoziale non viene manifestata esplicitamente una diversa volontà, la legge riconduce alle parti accessorie – alle cose, agli impianti ed ai servizi di uso comune, individuati tramite il collegamento materiale e funzionale – gli effetti acquisitivi derivanti dagli atti concernenti i beni principali, cioè i piani o le porzioni di piano.

Dal codice, questi (i piani o le porzioni di piano) sono considerati come beni principali; gli altri (le cose, gli impianti ed i servizi di uso comune) come beni accessori. In virtù del collegamento strumentale – materiale e funzionale, configurato rispettivamente dalla necessità per l’esistenza o per l’uso, ovvero dalla destinazione all’uso o al servizio – l’efficacia del fatto traslativo riguardante i beni principali (i piani o le porzioni di piano) si propaga ai beni accessori (alle cose, gli impianti ed i servizi di uso comune), secondo il principio “accessorium sequitur principale”12.

DESTINAZIONE

Ultima precisazione è quella che per l’applicazione del regime condominiale non è importante la destinazione delle unità immobiliari. Nel senso che ciò che necessita è di essere in presenza di unità immobiliari. Poi, esse possono avere la più diversa destinazione: abitativa, deposito, negozio, centro commerciale, alberghiera, ecc. 

Per dimostrare la compatibilità del regime di condominio con la destinazione alberghiera ad esempio (quindi, per dimostrare che la destinazione alberghiera non impedisce il sorgere del regime del condominio e, viceversa, e quindi che il mutamento della destinazione non raffigura il presupposto necessario per la costituzione dell’assetto condominiale), basta considerare che in uno stesso edificio possono ben esistere più unità immobiliari soggette a proprietà esclusiva e a destinazioni diverse, e che in questi casi insorge il regime del condominio (per esempio, i primi piani sono destinati ad albergo, i piani alti destinati ad abitazione; oppure, nello stesso edificio possono essere collocati due alberghi distinti appartenenti a proprietari diversi).

Da questa considerazione particolare scaturisce una proposizione di ordine generale. Una cosa è la destinazione dell’uso; altra la coesistenza dei diritti di proprietà e di condominio. Le due situazioni giuridiche sono del tutto separate ed autonome. Il regime del condominio non dipende quindi dalla destinazione d’uso delle cose in proprietà esclusiva, sebbene dall’esistenza nello stesso edificio di più proprietà separate.

Per cui possiamo concludere dicendo con i principi già affermati dal Terzago che, anche secondo la recente riforma, è del tutto irrilevante la destinazione della proprietà, determinata dalle norme concernenti l’urbanistica, il paesaggio, l’ambiente etc., perché per l’esistenza del regime del condominio è necessaria e sufficiente l’esistenza – assieme a quella delle unità in proprietà esclusiva – di cose, impianti e servizi destinati all’uso comune. 

NOTE

1 Ma in questo caso o si è proprietario (titolare del diritto di piena proprietà che ha ovviamente anche diritto al godimento) oppure si è titolare di un diritto reale di godimento.

2 L’artt.69 ss. Dlgs.206/2005 definisce il condomino in multiproprietà come colui che ha diritto al godimento su uno o più alloggi per il pernottamento per più di un periodo di occupazione.

3 “Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, o di coloro che sulle medesime vantino un diritto ex art.69 lett. a) D.Lgs.206/20056, …”.

4 Un’ultima notazione riguarda il fatto che comunque il titolare di un tale diritto di godimento periodico non potrebbe avere la comproprietà sulla parte comune ma sulla stessa vanterebbe sempre il medesimo diritto (in comunione) e pertanto imprecisa appare la iniziale dizione “Sono oggetto di proprietà comune …”. 

5 Irrisolto resta il problema dei balconi che poteva essere definitivamente chiarito e sui quali l’opinione dominante propende per escluderli dalle parti comuni essendo parti soggette a proprietà individuale di ciascun condomino. 

6 Nuovo è il riferimento agli impianti per il condizionamento dell’aria divenuti nel corso degli anni molto comuni laddove, in pratica, non esistevano affatto all’epoca di emanazione del codice civile.

7 vedi Salis – Ed. 1959 – Il condominio negli edifici, pagg. 3 e 4.

8 per un approfondimento vedi Terzago, Celeste, Salciarini Il condominio Giuffrè 2015.

9 Cass. Sez. Un. del 7.7.93 n. 7449.

10 Cass. del 22.11.2013 n. 26253.

11 Cass. 29.01.2007 n. 1788.

12 art. 818 c.c., comma 1.

LA RESPONSABILITÀ PENALE OMISSIVA DELL’AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO

[A cura di: avv. Andrea Marostica]

La responsabilità penale in cui può incorrere l’amministratore di condominio è principalmente di carattere omissivo. Sono possibili a suo carico ipotesi di illecito penale di carattere commissivo – si pensi, ad esempio, all’ipotesi di appropriazione indebita aggravata ex art. 646, co. 3, c.p. -, ma l’amministratore, a causa della natura stessa del suo ufficio, è per lo più chiamato a rispondere di ciò che non ha fatto pur avendone l’obbligo. È pertanto opportuno, anzitutto, distinguere il reato omissivo da quello commissivo ed analizzarne la struttura, per poi considerare nello specifico la responsabilità omissiva dell’amministratore.

Reato commissivo e reato omissivo

Mentre la responsabilità commissiva si fonda sulla violazione di una norma-divieto (al soggetto è vietato tenere un certo comportamento ed il rimprovero che gli viene mosso è di avere tenuto quel comportamento vietato), la responsabilità omissiva si fonda sulla violazione di una norma-comando (al soggetto è fatto obbligo di tenere un certo comportamento ed il rimprovero che gli viene mosso è di non averlo tenuto, cioè di averlo omesso). A titolo di esempio, per il primo tipo di responsabilità si pensi al reato di ingiuria (art. 594 c.p.): il soggetto offende l’onore o il decoro di una persona tenendo un certo comportamento, siano parole, scritti, disegni; per il secondo tipo si guardi al reato di omissione di soccorso (art. 593 c.p.): il soggetto non soccorre una persona ferita o in pericolo.

Il reato omissivo: proprio ed improprio

I reati omissivi a propria volta si distinguono in omissivi propri ed omissivi impropri (o commissivi mediante omissione).

I primi sono reati di mera condotta: ai fini della sussistenza del reato non è necessario il verificarsi di un evento lesivo. Classico esempio è l’omissione di soccorso (art. 593 c.p.), dove non è richiesto l’evento (non è necessario che la persona bisognosa di soccorso muoia in seguito al mancato aiuto), il soggetto è punito per il solo fatto di non avere soccorso. Elementi costitutivi di questo tipo di reato sono: 

1) la situazione tipica, ovvero la situazione fattuale descritta dalla norma; 

2) la condotta omissiva del soggetto; 

3) la possibilità di agire dello stesso. 

Nell’esempio fatto: 

1) il rinvenimento di una persona ferita; 

2) non avere prestato soccorso; 

3) il soggetto era in grado di prestare soccorso.

I secondi sono reati ad evento: per l’integrazione della fattispecie è necessario il verificarsi di un evento lesivo. Esempio paradigmatico è l’omicidio per omissione (artt. 40, co. 2, 575 c.p.) – causato, si ponga, dalla baby sitter che non impedisce al neonato di cadere dal balcone -, dove è richiesto l’evento: il soggetto è punito solo se dalla sua condotta omissiva consegue la morte della vittima. 

Elementi costitutivi di questo tipo di reato sono: 

1) l’obbligo giuridico di impedire l’evento; 

2) la condotta omissiva del soggetto; 

3) la realizzazione dell’evento lesivo; 

4) la sussistenza del nesso causale tra condotta ed evento; 

5) la possibilità di agire del soggetto. 

Nell’esempio fatto: 

1) l’obbligo della baby sitter di vigilare affinché non capiti alcun male al neonato; 

2) non avere badato al neonato; 

3) la morte del neonato; 

4) la morte del neonato a causa della distrazione della baby sitter; 

5) la baby sitter era in grado di badare al neonato.

Mentre i reati omissivi propri sono previsti da apposite norme, collocate nella parte speciale del codice penale, i reati omissivi impropri sono punibili sulla base della combinazione dell’art. 40, co. 2, c.p. e delle singole fattispecie incriminatrici, che sono costruite sul modello del reato commissivo. In altre parole: l’art. 40, co. 2, c.p. converte i reati commissivi (non tutti, solo quelli suscettibili di essere convertiti) nelle rispettive versioni omissive. Per questa ragione l’art. citato può essere definito moltiplicatore di tipicità, in quanto rende penalmente rilevanti condotte non espressamente sanzionate.

A questo punto, è utile riportare il testo dell’art. 40, co. 2, c.p.: “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Questo è il nocciolo della responsabilità omissiva: esiste un soggetto che ha l’obbligo giuridico di impedire un evento e, poiché non lo impedisce, viene punito. La situazione del soggetto gravato da un obbligo giuridico di impedire un evento si chiama posizione di garanzia.

La responsabilità omissiva dell’amministratore di condominio

La giurisprudenza ritiene che l’obbligo giuridico di impedire l’evento possa nascere da qualunque ramo del diritto, e quindi anche dal diritto privato, e specificamente da una convenzione che da tale diritto sia prevista e regolata, come è nel rapporto di rappresentanza volontaria intercorrente tra il condominio e l’amministratore (Cass. Pen., 2012, 34147). Dunque la fonte della posizione di garanzia del mandatario nasce dal contratto concluso tra lui e la compagine condominiale.

L’amministratore è gravato di molteplici obblighi di attivarsi; a titolo esemplificativo, basti pensare alle ipotesi di omicidio colposo e di lesioni colpose per non aver rimosso fonti di rischio insite nelle parti comuni, ed alle ipotesi previste dal D.Lgs. 81/2008 in tema di sicurezza sul lavoro. In tutti questi casi il mandatario è ritenuto responsabile per non avere tenuto la condotta doverosa comandata dalla norma, per non avere cioè adempiuto all’obbligo giuridico di impedire l’evento lesivo.

Per quanto riguarda, in particolare, i reati di omicidio colposo e lesioni colpose verificatisi per cause insite nelle parti comuni dell’edificio, è opportuno sottolineare che la giurisprudenza di legittimità considera l’amministratore di condominio custode delle parti comuni. Si legga la massima di Cass. Civ., 2008, 25251: “In tema di condominio, la figura dell’amministratore nell’ordinamento non si esaurisce nell’aspetto contrattuale delle prerogative dell’ufficio. A tale figura il codice civile e le leggi speciali imputano doveri ed obblighi finalizzati ad impedire che il modo d’essere dei beni condominiali provochi danno ai terzi. In relazione a tali beni l’amministratore, in quanto ha poteri e doveri di controllo e poteri di influire sul loro modo d’essere, si trova nella posizione di custode, pertanto deve curare che i beni comuni non arrechino danni agli stessi condòmini od a terzi”.

Se è custode delle parti comuni, deve impedire che ne possano derivare eventi lesivi ai terzi (morte, lesioni personali); se omette di impedire ciò, può esserne chiamato a risponderne. Si precisa che è la stessa legge a prevedere in capo all’amministratore il potere di agire per evitare situazioni pericolose e di rischio: l’art. 1130, co. 1, lett. 4, c.c. elenca, tra le attribuzioni del mandatario, il compimento degli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio; l’art. 1135, co. 2, c.c. prevede la possibilità per l’amministratore di ordinare lavori di manutenzione straordinaria che rivestano carattere urgente.

In senso conforme a tale impostazione, valga l’insegnamento di Cass. Pen., 2012, 21223. La vicenda oggetto del pronunciamento riguarda l’omessa delimitazione e segnalazione, da parte dell’amministratore, del lucernario situato al centro del condominio nella parte esterna e ricoperto di neve. Si era verificato che un minore, a bordo del suo slittino, era andato a finire sul lucernario che si era frantumato facendo cadere lo stesso nelle sottostanti scale, con conseguenti lesioni. In giudizio veniva rilevato che il lucernario, ricoperto dalla neve, non era assolutamente visibile. La Cassazione ritiene indubbia la responsabilità dell’imputato amministratore, in forza della sua posizione di garanzia intesa ad evitare ogni pericolo per i frequentatori del condominio. In particolare, si afferma che egli era a conoscenza del fatto che i vetri del lucernario erano lesionati ed infatti aveva disposto di eliminare l’accumulo di neve formatosi, ma poi non aveva accertato che l’intervento fosse stato in concreto compiuto.

Ne risulta chiarito quanto sopra esposto: l’amministratore è stato ritenuto penalmente responsabile per non avere impedito un evento verificatosi a causa del modo d’essere delle parti comuni in custodia, per il quale esisteva dunque a suo carico l’obbligo giuridico impeditivo.