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MOROSITÀ IN CONDOMINIO: MEGLIO AGIRE CON LE BUONE O FORZARE LA MANO?

Le spese condominiali, il consuntivo della gestione passata, il preventivo per quella nuova, la morosità arretrata. Argomenti sempre più protagonisti delle riunioni di condominio quelli oggetto di una richiesta di parere legale inviata a Italia Casa da un amministratore, che spiega: “Nell’ultima assemblea condominiale sono stati approvati il consuntivo 2016 e il preventivo 2017. come devo regolarmi relativamente alle quote del 2016 non versate dai condòmini morosi? Io intendo ripartirle equamente sulle loro quote di spettanza del preventivo 2017, ma il timore di molti condòmini è che, così facendo, non si addiverrà mai a un recupero definitivo dei crediti nei confronti dei morosi. È corretta questa lettura? Qual è l’iter più giusto da seguire?
Secondo l’avvocato Emanuele Bruno, “il credito del condominio verso un condomino deve essere regolamentato al pari di ogni altro credito dell’ente condominiale, quindi, occorre provvedere al recupero. Se non viene fatto nulla per il recupero, dell’inadempienza risponde l’amministratore. L’amministratore, ove non vi siano condizioni straordinarie da sottoporre all’assemblea, può avviare autonomamente iniziative – giudiziarie e stragiudiziarie – finalizzate al recupero delle somme (Trib. Milano Sez. XIII, 27/02/2015). L’accordo non giudiziale, con pagamento dilazionato, potrebbe essere soluzione utile a recuperare le somme con temporaneo sacrificio economico a carico degli altri condòmini. Il recupero giudiziale necessita invece di anticipazione delle spese di procedura da parte del condominio. La scelta da preferire deve essere individuata in ragione del caso concreto: entità del debito, cause della morosità, volontà effettiva del condomino di pagare. Se si preferisce un accordo non giudiziale, potrebbe essere utile predisporre un piano di rientro che responsabilizzi il moroso e consenta di monitorare il rientro stesso. È escluso, invece, che si possa effettuare il semplice trasferimento di debito in capo agli altri condòmini, a meno che tale ultima possibilità venga espressamente discussa ed approvata dall’assemblea”. 
Sulla questione, l’avvocato Massimiliano Bettoni aggiunge: “Il primo comma dell’art. 63 disp. att. c.c. prevede che, per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea, l’amministratore possa ottenere un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo contro i condòmini morosi. La norma sopra riportata è da leggere in combinato disposto con l’art. 1130, comma 1, n. 3, c.c., secondo cui si impone all’amministratore di riscuotere fra i condòmini i contributi per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio e per l’esercizio dei servizi comuni. Dunque, la soluzione, più veloce e consona per recuperare i canoni non corrisposti da parte dei condòmini morosi è quella di proporre all’organo competente ricorso per decreto ingiuntivo. Il soggetto legittimato a proporre tale ricorso è l’amministratore di condominio; lo stesso è autorizzato, ai sensi dell’art. 1131, comma 1, c.c., ad agire in giudizio senza il preventivo consenso dell’assemblea di condominio. Il credito del condominio, inoltre, gode di una tutela particolare: il regolamento di condominio non potrà mai derogare – secondo quanto previsto dal legislatore – alla disposizione dell’art. 63, co. 1, disp. att. c.c..
Prima di procedere, però, alla redazione del ricorso, è necessario procedere con una formale messa in mora dei condòmini morosi secondo quanto previsto ai sensi dell’art. 1219 c.c., nonostante l’art. 63, co. 1, disp. att., non preveda espressamente tale preliminare adempimento; in realtà, la scelta qui prospettata è data da una ragione di economia processuale, in quanto tale comportamento può essere valutato ai fini della condanna alla spese del giudizio di opposizione. Concludendo, l’amministratore di condominio, successivamente all’aver predisposto e notificato mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, potrà – sulla base dell’ultimo piano di riparto approvato – ottenere un decreto ingiuntivo di pagamento, contro i condòmini morosi.

STALKING CONDOMINIALE: BASTANO LE DICHIARAZIONI DELLA PERSONA OFFESA

[A cura di: Corrado Sforza Fogliani – pres. Centro studi Confedilizia]
Il reato di “atti persecutori”, noto come stalking (previsto dall’art. 612-bis c.p. e consistente nel fatto di chi, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita) scatta anche in danno dei vicini di casa. 
Tale principio è stato di recente confermato dalla Cassazione nella sentenza n. 26878 del 28.6.2016, nella quale i giudici hanno colto l’occasione per ricordare che le dichiarazioni della persona offesa possono essere anche da sole poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità, se sottoposte a vaglio critico positivo circa l’attendibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva di quanto riferito. La Corte ha sottolineato che a tali dichiarazioni (come già chiarito dalla sentenza n. 41461/2012 delle Sezioni Unite) “non si applicano le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. (tale articolo dispone che «le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’articolo 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità»)” in quanto le dichiarazioni in questione “possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone”.

LA MEDIAZIONE IN CONDOMINIO: I COSTI, LA PROCEDURA E IL FATTORE TEMPO

[A cura di: avv. Rodolfo Cusano]

La mediazione è uno strumento innovativo ed efficace per la gestione delle controversie in condominio. Grazie all’ausilio di un terzo neutrale – il mediatore-, le parti possono giungere ad una soluzione della lite accettabile e soddisfacente per entrambe. 

I VANTAGGI DELLA MEDIAZIONE

Caratteristica dell’istituto è l’individuazione di soluzioni in grado di soddisfare i bisogni di tutte le parti della controversia, non solo di alcune; ciò consente di ripristinare e rafforzare le relazioni (commerciali, economiche…) intercorse tra i protagonisti della lite.

I tempi infiniti del nostro sistema giudiziario e, in particolare, del processo civile, lento e inefficiente, non in grado di dare risposte con la necessaria solerzia, rappresentano per le imprese un rilevante danno. Spesso, poi, i costi sono notevoli ed i risultati concreti, incerti. I vantaggi dell’istituto sono molteplici sia sotto il profilo dei tempi, sia sotto il profilo economico e fiscale, fino a giungere anche a una soluzione del contenzioso che dia una risposta celere, valida, efficiente, proficua, ed a “costo zero”.

MEDIAZIONE IN CONDOMINIO

In condominio, dove la salvaguardia dei rapporti tra amministratore (visto come condominio) e condòmini soffre di condizioni veramente avverse, la mediazione costituisce il primo interesse di una risoluzione delle controversie celere oltre che bonaria. In estrema sintesi, i principali benefici possono essere così riassunti: 

  1. 1. innanzitutto, il procedimento di mediazione, da proporre dinanzi ad un Organismo di mediazione accreditato presso il Ministero della Giustizia, terzo ed imparziale e soggetto a controlli sulla propria attività, ha una durata massima di tre mesi dal deposito della domanda e non è soggetto a sospensione feriale. Il tentativo di conciliazione può essere proposto anche in relazione ad un giudizio in corso.
  2. 2. La clausola di mediazione o conciliazione può essere prevista dal contratto o dallo statuto ovvero dall’atto costitutivo, e la domanda è presentata davanti all’organismo indicato dalla clausola. Ad esempio prevedendolo espressamente con apposita delibera a modifica del regolamento di condominio.
  3. 3. Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale ed impedisce la decadenza, e lo svolgimento della mediazione non preclude la concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari, né la trascrizione della domanda giudiziale.
  4. 4. Entro 30 giorni dal deposito della domanda di mediazione, sarà effettuato un primo incontro nel corso del quale il mediatore illustrerà alle parti, assistite dai propri avvocati, la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione, invitando poi le parti ed i loro avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura e, nel caso positivo, procederà con lo svolgimento del procedimento, adoperandosi affinché le parti raggiungano un accordo amichevole di definizione della controversia, anche formulando una proposta conciliativa non vincolante e che le parti saranno libere di accettare o meno.
  5. 5. Il procedimento avrà luogo senza formalità presso la sede dell’Organismo o presso altro luogo eventualmente concordato con le parti, e può svolgersi anche con modalità on-line.
  6. 6. Se, in occasione del primo incontro, le parti dovessero esprimersi negativamente sulla possibilità di iniziare la procedura, nessun compenso sarà dovuto per l’organismo di mediazione, salvo le spese di avvio e, quando la mediazione è prevista quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, la condizione si considera avverata.
  7. 7. È previsto l’obbligo di riservatezza per chiunque presti la propria opera o il proprio servizio nell’ambito del procedimento di mediazione rispetto alle informazioni rese ed alle informazioni acquisite durante il procedimento e le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento medesimo non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale eventualmente iniziato, riassunto o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione.
  8. 8. Se è raggiunto un accordo amichevole, il testo dell’accordo è allegato al processo verbale e l’accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dai loro avvocati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna o rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, l’esecuzione in forma specifica, per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.
  9. 9. L’accordo raggiunto, anche a seguito della proposta da parte del mediatore, può prevedere il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza degli obblighi stabiliti ovvero per il ritardo nel loro adempimento.
  10. 10. Tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di mediazione sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni spesa tassa o diritto di qualsiasi specie e natura.
  11. 11. Il verbale di accordo è esente dall’imposta di registro entro il limite di valore di 50.000 euro, altrimenti l’imposta è dovuta per la parte eccedente.
  12. 12. I costi sono predeterminati sin dall’inizio. Le spese di avvio della mediazione sono fisse (40 euro oltre IVA) e le spese di mediazione (comprensive del compenso del mediatore) sono previste da tabelle redatte dal Ministero della Giustizia.
  13. 13. Quando la mediazione è condizione di procedibilità, le indennità previste dalle tabelle sono ridotte Nell’ipotesi in cui la parte chiamata in mediazione non aderisca all’invito, le spese di mediazione si riducono alla misura fissa di 50 euro oltre IVA.
  14. 14. I costi della mediazione (compresi quelli per i consulenti) sono deducibili.
  15. 15. Alle parti che corrispondono l’indennità agli Organismi, inoltre, è riconosciuto un credito di imposta commisurato all’indennità stessa, fino a concorrenza di euro 500 in caso di successo della mediazione, ridotto della metà in caso di insuccesso.

LE MATERIE PREVISTE

In materia condominiale, il nuovo art. 71-quater disp. att. c.c. recita “Per controversie in materia di condominio, ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, si intendono quelle derivanti dalla violazione o dall’errata applicazione delle disposizioni del libro III, titolo VII, capo II, del codice e degli articoli da 61 a 72 delle presenti disposizioni per l’attuazione del codice. La domanda di mediazione deve essere presentata, a pena di inammissibilità, presso un organismo di mediazione ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale il condominio è situato. Al procedimento è legittimato a partecipare l’amministratore, previa delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all’articolo 1136, secondo comma, del codice. Se i termini di comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere la delibera di cui al terzo comma, il mediatore dispone, su istanza del condominio, idonea proroga della prima comparizione. La proposta di mediazione deve essere approvata dall’assemblea con la maggioranza di cui all’articolo 1136, secondo comma, del codice. Se non si raggiunge la predetta maggioranza, la proposta si deve intendere non accettata. Il mediatore fissa il termine per la proposta di conciliazione di cui all’articolo 11 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, tenendo conto della necessità  per l’amministratore di munirsi della delibera assembleare”. 

LA PROCEDURA DA SEGUIRE

Per cui l’amministratore che si vedrà notificato un tentativo di conciliazione dovrà indire un’apposita assemblea, che dovrà non solo autorizzare o meno l’amministratore a partecipare alla mediazione, ma indicare quali saranno i limiti per cui sarà autorizzato a trattare nonché dovrà dare mandato ad un avvocato, così come disposto dalle modifiche al D.L. 69/2013. Nel caso in cui non ci fossero i termini per la convocazione dell’assemblea per assumere la delibera di cui sopra, il mediatore dispone, su istanza dell’amministratore, idonea proroga della prima comparizione.

L’eventuale accordo raggiunto dovrà essere approvato in assemblea con le maggioranze di cui all’art. 1136 secondo comma, diversamente, se tale quorum non è raggiunto, per un qualsiasi motivo, la proposta si deve intendere come non accettata. 

GLI ASPETTI CRITICI

Aspetti critici di questa procedura sono i tempi. Infatti, specialmente in materia di impugnativa di delibera assembleare, il termine dei trenta giorni previsto dall’art. 1137 c.c. a pena di decadenza 1, impone l’avvio della procedura di mediazione entro lo stesso termine dei trenta giorni. Salvo poi essere sospeso, per poi iniziare a decorrere nuovamente dalla chiusura della mediazione. 

La prima questione che si pone riguarda il momento in cui il termine per l’impugnativa si sospende. Sul punto, l’art. 5 comma 6 stabilisce: “Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. Dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’articolo 11 presso la segreteria dell’organismo”.

Detta norma va letta in uno a quella di cui all’art. 8 comma 1 del D. Lgs. n. 28/2010: “All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta giorni dal deposito della domanda. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante.

In questi casi si può verificare che la domanda di mediazione sia depositata prima dei 30 giorni previsti per l’impugnativa ma che venga comunicata, a cura dell’ufficio di mediazione, alle altre parti, oltre detto termine. In tale evenienza la parte incolpevole si trova nell’impossibilità di impugnare poi la delibera in sede giudiziale per essersi verificata la decadenza che come abbiamo appena detto è sospesa solo quando viene effettuata la comunicazione alla controparte della domanda di mediazione. All’attualità è pacifico il ritenere non solo che in questi casi si verifichi la decadenza, ma che il termine vero di interruzione è quello in cui l’istanza di mediazione giunge a conoscenza della controparte. Quindi l’alea non è solo quella relativa ai tempi dell’ufficio di mediazione (dal deposito all’invio della domanda) ma anche quella relativa al mezzo usato per la comunicazione ad esempio raccomandata postale. Insomma, l’istanza a causa di un vero e proprio errore-carenza normativa subisce un danno quasi certo non fosse altro per l’incertezza del sistema così congegnato.

Non solo. A voler porre un rimedio a tutto ciò ci sarebbe da consigliare alla parte istante di inviare direttamente l’istanza di mediazione alla controparte oltre che di depositarla. In questo caso la prima alea dei tempi dell’ufficio verrebbe meno. Però tale rimedio comunque non risolverebbe il problema quando l’istanza di mediazione viene fatta partire l’ultimo giorno (dei 30) utile per l’impugnativa. Infatti, sia che venga depositata sia che venga inviata a mezzo posta è inverosimile che possa giungere a conoscenza della controparte nello stesso giorno. Sul punto non vi è molto da fare ci si auspica solo che il legislatore intervenga con ogni urgenza risolvendo il problema. 

Pur trovandosi in una procedura diversa da quella giudiziale, perché non applicare anche ad essa il dettato della Corte Costituzionale in tema di termini per la notifica, distinguendo quelli a favore della parte istante e quelli a favore della parte convenuta? Solo così potrebbe veramente risolversi il problema. Ma appunto trattandosi non di procedura giudiziale il discorso di applicazione per analogia non può essere perseguito. 

ANNOTAZIONI

Due precisazioni in calce. Innanzitutto le riflessioni di cui sopra fanno riferimento alle sole delibere annullabili e non a quelle nulle, che come tali possono essere impugnate in ogni tempo.

In secondo battuta, non mancano in diritto (Ruvolo) opinioni già espresse nell’immediatezza della riforma di ritenere in questi casi applicabile la giurisprudenza di legittimità di cui alla sentenza della Cass. n. 14087/2006, con la quale la Suprema Corte ebbe a stabilire che in ordine all’impugnativa di licenziamento tale atto non necessita di giungere a conoscenza dell’interessato ma il termine dei 60 giorni ivi previsto è considerato rispettato con il deposito dell’istanza obbligatoria di conciliazione.

CEDOLARE SECCA: IL CODICE TRIBUTO PER PAGARE IL PREZZO DEL “SILENZIO”

[A cura di: FiscoOggi – Agenzia delle Entrate]
È “1511” il codice tributo per pagare – attraverso il modello “F24 Versamenti con elementi identificativi” – la sanzione dovuta in caso di mancata comunicazione di proroga o risoluzione del contratto di locazione immobiliare soggetto a cedolare secca.
Ad annunciarlo, la risoluzione 30/E del 10 marzo 2017 dell’Agenzia delle entrate.
“La mancata presentazione della comunicazione relativa alla proroga del contratto non comporta la revoca dell’opzione esercitata in sede di registrazione del contratto di locazione qualora il contribuente abbia mantenuto un comportamento coerente con la volontà di optare per il regime della cedolare secca, effettuando i relativi versamenti e dichiarando i redditi da cedolare secca nel relativo quadro della dichiarazione dei redditi. In caso di mancata presentazione della comunicazione relativa alla proroga, anche tacita, o alla risoluzione del contratto di locazione per il quale è stata esercitata l’opzione per l’applicazione della cedolare secca, entro trenta giorni dal verificarsi dell’evento, si applica la sanzione nella misura fissa pari a euro 100, ridotta a euro 50 se la comunicazione è presentata con ritardo non superiore a trenta giorni”.
È questa la disposizione normativa (articolo 7-quater, comma 24, del Dl 193/2016 – collegato fiscale alla legge di bilancio 2017) da cui origina l’istituzione del codice tributo in esame. Nella sezione “Contribuente” del modello F24 Elide, si dovranno inserire i dati anagrafici e il codice fiscale di chi effettua il versamento nonché i dati anagrafici e il codice fiscale della controparte (o di una delle controparti), riportando il codice “63” nel campo “codice identificativo”.
Inoltre, nella sezione “Erario ed altro”, andranno specificati: 
* nel campo “tipo”, la lettera “F” (identificativo registro);
* nel campo “elementi identificativi”, il codice identificativo (composto da 17 caratteri) del contratto, reperibile nella copia del modello di richiesta di registrazione del contratto restituito dall’ufficio o, per i contratti registrati in via telematica, nella ricevuta di registrazione. Se il codice identificativo non è disponibile, vanno espressi 16 caratteri: da 1 a 3, il codice ufficio presso il quale è stato registrato il contratto; da 4 a 5, le ultime due cifre dell’anno di registrazione; da 6 a 7, la serie di registrazione (in caso di numero inferiore, completare gli spazi, a partire da sinistra, con gli zeri); da 8 a 13, il numero di registrazione (in caso di numero inferiore, completare gli spazi, a partire da sinistra, con gli zeri); da 14 a 16, il sottonumero di registrazione (se assente, “000”);
* nel campo “anno di riferimento”, l’anno della data di inizio proroga ovvero di risoluzione. Nessun valore va immesso nei campi “codice ufficio” e “codice atto”.
Con la risoluzione 31/E del 10 marzo 2017, invece, sono stati istituiti i codici tributo per versare le somme dovute a seguito delle comunicazioni inviate ai sensi dell’articolo 36-bis del Dpr 600/1973, qualora si intenda pagare solo una quota dell’importo complessivamente richiesto.
Riguardano il credito d’imposta a favore dei soggetti danneggiati dal sisma del 20 e 29 maggio 2012 (articolo 67-octies del Dl 83/2012 – istanze presentate nel 2014): “906C” (imposta), “907C”(interessi), “908C” (sanzioni).
In tali circostanze, deve essere predisposto un modello F24, in cui i codici istituiti vanno esposti nella sezione “Erario”, in corrispondenza delle somme indicate nella colonna “importi a debito versati”, riportando anche, nei campi specificamente denominati, il codice atto e l’anno di riferimento indicati nella comunicazione. 

CONDOMINIO E PARTI COMUNI: VALE IL CRITERIO DEL PREUSO O QUELLO DEL PARI USO?

[A cura di: Mauro Simone – vice segret. Naz. Alac]
Se un condomino realizza legittimamente per primo un’opera su una parte comune dell’edificio traendo una determinata utilità può “lasciare fuori” un altro condomino dal beneficio di servirsi anch’egli della cosa comune allo scopo di ricavare una determinata o la stessa utilità parimente lecita, però confliggente con quella realizzata per prima? Per risolvere questo problema si ricorre al principio del cosiddetto “preuso”. La norma codicistica, infatti, riserva tutela all’interesse del condomino che ha realizzato per prima l’opera.
Su questa linea si colloca anche l’orientamento della Corte di Cassazione (sent. n. 2769/71) la quale ha affermato che un’opera lecita al momento in cui viene realizzata da uno dei partecipanti alla collettività condominiale non può essere messa in non cale da una utilizzazione successiva pretesa da un altro partecipante alla comunione. Pertanto, se l’opera è legittima quando viene ad esistenza non può diventare illegittima o illecita successivamente, solo perché incompatibile con le pretese di un altro condomino. Però questa interpretazione, come numerose altre in materia di condominio, soggiace alla opinabilità degli interpreti.
Infatti un diverso e contrario orientamento propende non per il criterio della priorità d’uso bensì per quello dell’equo contemperamento dei contrapposti interessi. Su questa linea infatti si pone la sentenza n. 2170 del 1963 della Cassazione, secondo la quale il contrasto fra due condòmini che intendano giovarsi del maggior godimento di una parte comune si risolve non col criterio della priorità ma con quello dell’equo contemperamento. 
È di indubbia evidenza la rilevanza del problema. Il giudicante eventualmente investito della questione avrebbe tra le mani il problema di dover trovare soluzione al conflitto dei condòmini tra loro in contrasto. Non è improbabile che si pervenga ad una soluzione di equo compromesso, anche a mente dell’art 1102 comma 1 c.c., secondo il quale ciascun partecipante può servirsi della casa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti parimenti uso, ma non un uso specifico, particolare ed identico, secondo il loro diritto. La soluzione deve essere individuata caso per caso. Se sia possibile adottare sempre il criterio del “pari uso” va visto di volta in volta, considerato che i casi possibili in materia di tutela del cosiddetto “criterio del preuso”, possono riguardare nei rapporti di vicinato le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti o simili propagazioni provenienti dal fondo del vicino oppure il diritto al passaggio di cavi cassiali TV nelle tubazioni verticali condominiali del vano scale, eccetera.

TASSE SULLA CASA, PIAGA ANCHE IN ISRAELE: DAL TERZO ALLOGGIO IN SU SCATTA LA PATRIMONIALE

[A cura di: Vito Rossi – FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]

Novità per i contribuenti israeliani proprietari di immobili: dallo scorso primo gennaio, ogni contribuente che risulti proprietario di più di due case sul territorio nazionale è tenuto a pagare un’imposta su tutti i suoi appartamenti a partire dal terzo.  La legge che istituisce la “tassa sul terzo appartamento”, come è già stata battezzata dai media del Paese, è stata approvata dalla Knesset, il Parlamento monocamerale di Israele, a fine 2016, dopo un lungo e acceso confronto. Saranno i cittadini a scegliere quale degli appartamenti tassare e quali due lasciare fuori dal perimetro del nuovo tributo. In altre parole, i proprietari di tre o più appartamenti saranno responsabili di imposta solo per ogni ulteriore appartamento di proprietà a partire dal terzo, in base alla percentuale di proprietà detenuta.

L’imposta, promossa dall’attuale ministro delle Finanze, Moshe Kachlon, fa parte del pacchetto di misure approvate con la legge di Bilancio 2017. Nelle intenzioni del ministro, la nuova tassa dovrebbe calmierare il mercato degli affitti del Paese e abbassare il costo delle case. Secondo la legge, l’aliquota dell’1 per cento al mese si applicherà sul valore stimato di ogni casa o appartamento di proprietà, a partire dalla terza, fino ad un limite massimo di 1.500 NIS (shekel israeliano) al mese (poco meno di 400 euro). Pertanto, i contribuenti potranno pagare al massimo 18.000 NIS all’anno per appartamento.

ESENZIONI

In base alla legge nessuna imposta sarà dovuta nel caso in cui due delle proprietà immobiliari del contribuente saranno valutate meno di 1,15 milioni di NIS (equivalenti a circa 300mila dollari). Poiché in molte città di Israele il valore medio delle case supera il milione e mezzo di NIS, si prevede che la maggior parte degli israeliani coinvolti dalla nuova imposta pagherà l’importo massimo previsto. Il bacino ipotizzato sarebbe quindi di 50mila contribuenti per un totale di 180mila case. Il valore dell’appartamento verrà determinato in base alle dimensioni per metro quadro ed a una serie di indicatori economici, sociali e relativi all’area geografica in cui si trova. Nel caso di appartamenti in comproprietà, l’imposta si applicherà quando un soggetto possiede quote superiori al 249% dei vari appartamenti residenziali considerati. Sono esclusi dall’applicazione della norma, tra gli altri, gli appartamenti posseduti dagli enti senza scopo di lucro, quelli affittati alle classi sociali protette dalle legge e quelli ottenuti in eredità.

DICHIARAZIONE

Per il primo anno di applicazione, entro il 31 marzo 2017 ogni contribuente dovrà presentare una dichiarazione all’Agenzia delle Entrate nazionale (la Israel Tax Authority), in cui vengono indicati i dati di dettaglio di tutti gli appartamenti residenziali detenuti. A partire dal periodo d’imposta successivo, invece, sarà l’Amministrazione finanziaria a inviare una comunicazione ai cittadini, specificando gli appartamenti per cui è dovuta l’imposta e l’importo da versare all’Erario. I contribuenti avranno 30 giorni di tempo dalla ricezione della lettera del Fisco per esprimere la scelta su quali appartamenti sottoporre a tassazione e quali no.

Il pagamento dell’imposta avverrà in due rate semestrali: una rata di acconto entro il 30 giugno e un versamento a saldo entro il 31 dicembre di ogni anno. 

TERREMOTO E DANNI SUBITI DAL CONDOMINIO: CONDANNATO IL COMUNE CHE RITARDA I CONTRIBUTI

[A cura di: avv. Rosario Dolce – accademia Confamministrare]

L’articolo 2 bis, 1º comma, della Legge n. 241 del 1990 riconosce che anche il tempo è un “bene della vita” per il cittadino, sicché il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un “costo”, dal momento che il fattore tempo costituisce un’essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di un qualsiasi piano o programma da parte del privato interessato alla conclusione del procedimento. Tale principio, secondo il Tar Abruzzo (sentenza 703/2016) è quanto mai attuale e risulta applicabile in quei casi in cui gli enti locali sono tenuti a dare delle risposte immediate ai cittadini, in tema di erogazione dei contributi per la ricostruzione degli immobili danneggiati dal sisma.

IL FATTO

A seguito del sisma del 06.04.2009 che ha interessato la città di L’Aquila, un condominio locale, in persona del suo amministratore, ha presentato avanti al comune locale domanda di contributo ai sensi dell’articolo 2 Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri (d’ora in avanti O.P.C.M. n. 3790/2009), per la copertura degli oneri relativi alla riparazione, con miglioramento sismico, delle parti comuni danneggiate. L’ente locale ha liquidato il contributo in favore del condominio soltanto in data 23 ottobre 2012, quando il termine di conclusione del procedimento, fissato in 60 giorni dall’articolo 2 dell’O.P.C.M. n. 3790/2009 era già scaduto in data 28 agosto 2011. 

Sulla scorta di tali premesse è stato istruito un procedimento giudiziale avanti al TAR locale che si è concluso con la condanna del Comune a risarcire il danno arrecato alla compagine; quantificato, nello specifico, nella differenza negativa tra quanto avrebbe ottenuto, in caso di risposta alla propria istanza nei termini scanditi dalla legge di riferimento (n. 60 gg), e quanto invece ha poi ottenuto a causa del predetto ritardo.

LA SENTENZA

L’articolo 2, comma 6, dell’O.P.C.M. n. 3790 del 9.7.2009 prevede espressamente che il Sindaco del Comune, entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, “autorizza anche dettando prescrizioni gli interventi di riparazione con miglioramento sismico, o ricostruzione, (…) e determina la spettanza del contributo indicandone l’ammontare in relazione alle spese giudicate ammissibili, dandone immediata comunicazione agli interessati”.

Secondo la consolidata giurisprudenza del TAR Abruzzo (cfr. fra le tante, nn. 532 del 2013 e 182 del 2013), l’inerzia nel provvedere, protratta dal Comune dell’Aquila oltre i 60 giorni previsti dall’art. 6 dell’OPCM 3790/09, integra la fattispecie del silenzio-rifiuto a carico di quell’Ente, senza che in contrario rilevi l’inefficienza istruttoria della cosiddetta filiera, costituita da enti strumentali necessari per gli accertamenti tecnici del caso (si pensi all’analisi preliminare che deve rendere il Genio Civile), di cui il Comune si avvale per l’istruttoria delle pratiche.

L’adozione tardiva del provvedimento è stata così valutata – dai predetti giudici amministrativi – come un illecito civile, per violazione colpevole del termine di conclusione del procedimento normativamente stabilito, in violazione dell’articolo 2 bis, comma 1, della Legge n. 241/1990. Quest’ultima norma, in particolare, conferma e rafforza la tutela del privato nei confronti dei ritardi dell’amministrazione, avendo stabilito che quest’ultima è tenuta al ristoro del danno ingiusto derivante dall’illecito permanente costituito dall’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento (cfr. TAR Abruzzo, L’Aquila, 21 novembre 2011, n. 548; Cons. Stato, sez. V, 28 febbraio 2011, n. 1271; 21 marzo 2011, n. 1739). 

In conclusione, il pregiudizio patrimoniale subito da parte del condominio ricorrente è stato ritenuto sussistente e valutato, nello specifico, nella differenza tra la somma che avrebbe ottenuto il condominio, qualora l’amministrazione locale avesse adottato tempestivamente il provvedimento ( 50.846,19), e la somma che poi gli è stata effettivamente liquidata a causa del ritardo posto in essere dalla Pubblica Amministrazione, pur in applicazione della normativa sopravvenuta.

CRONACA FLASH DALLA CASA E DAL CONDOMINIO

Il padrone di casa muore

soffocato nella rapina

Potrebbe essere spirato in pochi attimi il gioielliere di 63 anni residente in un piccolo comune della provincia di Nuoro, vittima nella propria abitazione di una rapina da parte di un gruppo di malviventi. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, l’uomo avrebbe risposto negativamente alla richiesta di mostrare l’ubicazione della cassaforte. A quel punto, i banditi lo avrebbero legato ad una sedia e imbavagliato. Proprio le corde troppo strette e il nastro applicato sul volto del gioielliere ne avrebbero causato la repentina morte. Resisi conto del delitto, i ladri si sono allontanati dalla casa della vittima, adiacente alla gioielleria e collegata ad essa da una semplice porta. Non si esclude che a lanciare l’allarme tramite telefonata anonima, siano stati gli stessi aggressori.

“Topi di stagione”:

rubano turbina spalaneve

Cambiano le stagioni e con esse le refurtive dei ladri di appartamento. Così, nell’inverno della città di Sassuolo, alcuni malviventi si sono introdotti in un condominio per rubare una turbina utilizzata dai residenti per spalare la neve dalle parti comuni e dei viali di accesso all’edificio. I ladri hanno agito di notte, riuscendo a scardinare la porta dello scantinato dove si trovava la pesante macchina, senza produrre alcun rumore. La mattina seguente l’amara scoperta fatta dai condòmini, che si sono recati, quindi, alla stazione dei carabinieri di Modena per la denuncia.

Furto in villa: bottino

di mezzo milione di euro

Sabato sera redditizio per un commando di ladri d’appartamento attivi nell’hinterland di Torino, che sono riusciti a portare via da una villa di Moncalieri, comune limitrofo alla città capoluogo, un bottino di circa 500mila euro. I banditi sono entrati in azione di notte, rompendo una finestra e approfittando dell’assenza della proprietaria, una donna di 70 anni. Con un flessibile hanno aperto la cassaforte e hanno trafugato gioielli, pietre preziose, argenteria e orologi di pregio. Quindi, non contenti, sono andati alla ricerca di altri oggetti da rubare, mettendo a soqquadro la casa. Il colpo, sul quale stanno indagando i carabinieri, è il secondo nella zona nel giro di pochi giorni.

Sente i ladri in cucina

Viene aggredito in camera

Si è conclusa con tanto spavento e la sottrazione di un cellulare l’aggressione ai danni di un uomo di 77 anni che vive da solo in un appartamento in provincia di Pisa. Erano da poco passate le 20 quando l’anziano, che si trovava in camera da letto, ha sentito dei rumori provenire dalla cucina e, pensando si trattasse della donna delle pulizie, ha acceso la luce e l’ha chiamata. A quel punto i ladri lo hanno raggiunto in camera e lo hanno avvolto con un lenzuolo, mettendogli le mani al collo. Il tempo necessario per disorientare il malcapitato, rubargli il cellulare e fuggire. Secondo le testimonianze raccolte dalla polizia, i ladri tenevano sotto controllo la casa dell’anziano: a dimostrarlo i frequenti passaggi di un auto sospetta, notati da una vicina, e il taglio della recinzione metallica che separa la proprietà dall’argine del fiume

AGEVOLAZIONE PRIMA CASA: CONTA LA CATEGORIA. MA SOLO DAL 2014 IN POI

[A cura di: Nunziata Masiello – FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]

In tema di imposta di registro, per i trasferimenti immobiliari antecedenti al 1° gennaio 2014, i presupposti della revoca dell’agevolazione “prima casa”, per gli immobili considerati di lusso sulla base dei parametri stabiliti dal Dm 2 agosto 1969, permangono anche alla luce dello ius superveniens di cui all’articolo 10, primo comma, lettera a), del Dlgs 23/2011, il quale, nel sostituire il secondo comma dell’articolo 1 della parte prima della tariffa allegata al Dpr 131/1986, ha previsto che l’esclusione dall’agevolazione non dipende dalle caratteristiche qualitative e di superficie (individuate sulla base del suddetto Dm) quanto dalla circostanza che la casa di abitazione sia iscritta in categoria catastale Al, A8 o A9. Il nuovo regime, infatti, trova applicazione ai trasferimenti imponibili realizzati successivamente al 1° gennaio 2014.

Una diversa soluzione s’impone, tuttavia, relativamente alle sanzioni. Lo ius superveniens induce al parziale accoglimento dei ricorsi limitatamente alla non debenza delle sanzioni irrogate e tale soluzione interpretativa di favore può essere attuata anche d’ufficio in ogni ordine e grado del giudizio, quindi, anche in sede di legittimità. Questi i principi statuiti dalla Corte di cassazione con le sentenze nn. 3360, 3361 e 3362 dell’8 febbraio 2017.

LA DECISIONE

Vengono impugnate tre sentenze emesse dalla Ctr del Lazio, con le quali, in riforma delle decisioni di prime cure, i giudici di secondo grado hanno ritenuto legittimi gli avvisi di liquidazione e irrogazione di sanzioni emessi dall’Agenzia delle Entrate in revoca delle agevolazioni “prima casa” fruite in relazione a trasferimenti di unità immobiliari ricompresi in aree destinate dagli strumenti urbanistici a ville, parchi privati, costruzioni qualificate come abitazioni di lusso ai sensi dell’articolo 1 del Dm 2 agosto 1969. In tutti e tre i giudizi, la suprema Corte ha ritenuto corretta la “ratio decidendi del giudice di appello (peraltro basata su considerazioni fattuali, per loro natura insindacabili in questa sede); ratio decidendi affermativa della legittimità della revoca dell’agevolazione vertendosi, nel caso concreto, di immobile di lusso secondo i menzionati parametri tipologici ex artt.5 e 6 D.M. 2 agosto 1969”.

Sulla questione, i giudici hanno altresì chiarito che i presupposti della revoca dell’agevolazione secondo i criteri previsti dal citato Dm 2 agosto 1969 restano fermi anche alla luce delle modifiche normative introdotte dall’articolo 10, primo comma, lettera a), Dlgs 23/2011. Infatti, detta norma ha previsto il superamento del criterio di individuazione dell’immobile di lusso, come tale escluso dal beneficio “prima casa”, sulla base dei parametri del decreto ministeriale del 1969, solo per i trasferimenti immobiliari realizzati a partire dal 1° gennaio 2014. Al riguardo, i giudici hanno specificato che, in forza della disposizione sopravvenuta, “l’esclusione dalla agevolazione non dipende più dalla concreta tipologia del bene e dalle sue intrinseche caratteristiche qualitative e di superficie (…), bensì dalla circostanza che la casa di abitazione oggetto di trasferimento sia iscritta in categoria catastale Al, A8 ovvero A9 (rispettivamente: abitazioni di tipo signorile; abitazioni in ville; castelli e palazzi con pregi artistici o storici)”. Senonché “il nuovo regime trova applicazione ai trasferimenti imponibili realizzati successivamente alla modificazione legislativa; e, in particolare, successivamente al 1° gennaio 2014, come espressamente disposto dall’art.10 co.5 d.lgs.23/11 cit.”.

Sulla base delle sopra esposte considerazioni, hanno ritenuto legittime le revoche dell’agevolazione prima casa indebitamente fruite, poiché i trasferimenti dedotti nei tre giudizi erano antecedenti al “discrimine temporale” del 1° gennaio 2014 e, pertanto, disciplinati sulla base della previgente normativa. Fermo restando, dunque, il pregresso regime impositivo sostanziale, gli stessi giudici hanno ritenuto di adottare una diversa linea interpretativa per le sanzioni applicate con l’atto impugnato. Infatti, in applicazione del principio del favor rei, hanno statuito per la non debenza delle sanzioni irrogate. Al riguardo, hanno ravvisato esistenti i presupposti per l’applicazione dell’articolo 3, comma 2, del Dlgs 472/1997, ai sensi del quale “salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato”.

Nei casi di specie, la ricorrenza del principio di legalità e di favor rei in materia tributaria si impone: tali sanzioni vennero inflitte per avere il contribuente dichiarato che l’immobile acquistato possedeva, contrariamente al vero, qualità intrinseche “non di lusso” secondo i parametri ministeriali; quindi, per aver reso una dichiarazione che, tuttavia, per effetto della modifica normativa, attualmente non ha più alcuna rilevanza per l’ordinamento. In altri termini, il mendacio contestato – costituente l’espresso fondamento della sanzione – non potrebbe più realizzarsi, in quanto caduto su un elemento (caratteristiche non di lusso dell’immobile) espunto dalla fattispecie agevolativa.

Per i giudici, è vero che la modifica normativa non ha abolito né l’imposizione né le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla falsa dichiarazione; tuttavia, è proprio l’oggetto di quest’ultima, costituente elemento normativo della fattispecie, a essere stato cancellato dall’ordinamento. Tanto che, in base al regime sopravvenuto, l’agevolazione ben potrebbe sussistere (in assenza di iscrizione nelle categorie catastali ostative) anche in capo a immobili abitativi in ipotesi connotati dalle caratteristiche la cui mancata o falsa dichiarazione ha costituito il motivo della sanzione. Ed è proprio questo aspetto che rende del tutto peculiare la presente fattispecie rispetto a quelle con riguardo alle quali è stato affermato che – in difetto di “abolitio criminis” – permane a carico del contribuente tanto l’obbligo del versamento dell’imposta dovuta prima della modificazione normativa quanto quello sanzionatorio (Cassazione 25754/2014, 25053/2006).

I giudici, quindi, concludono affermando che “l’amministrazione finanziaria mantiene, come detto, la potestà di revocare l’agevolazione in questione per il solo fatto del carattere di lusso rivestito – al momento del trasferimento, e sulla base della disciplina all’epoca applicabile (…) senza però avere titolo per applicare delle sanzioni conseguenti a comportamenti che, dopo la riforma legislativa, non sono più rilevanti; non certo in quanto tali (false dichiarazioni), ma in quanto riferiti a parametri normativi non più vigenti”.

Dette statuizioni sono suscettibili di essere attuate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio; e, quindi, anche in sede di legittimità (tra le altre: Cassazione 1856/2013, 4616/2016, 16679/2016, 13235/2016).

OSSERVAZIONI

L’articolo 1 della tariffa, parte prima, allegata al Dpr 131/1986, come modificato dall’articolo 10 del Dlgs 23/2011, prevede l’applicazione dell’aliquota agevolata, ai fini dell’imposta di registro, del 2% per i trasferimenti che hanno per oggetto “case di abitazione, ad eccezione di quelle di categoria catastale A1, A8 e A9, ove ricorrano le condizioni di cui alla nota II-bis)”. Prima delle citate modifiche normative, introdotte con decorrenza dal 1° gennaio 2014, l’aliquota fissata nella misura del 3% riguardava i trasferimenti che avevano per oggetto “case di abitazione non di lusso secondo i criteri di cui al decreto del Ministro dei Lavori Pubblici 2 agosto 1969 (…), ove ricorrano le condizioni di cui alla nota II-bis)”. Con decorrenza dal 1° gennaio 2014, per l’individuazione dell’immobile agevolabile occorre fare riferimento unicamente alla categoria catastale di appartenenza dell’immobile stesso (A/l, A/8 o A/9); antecedentemente, la concreta tipologia del bene e le sue intrinseche caratteristiche qualitative e di superficie erano individuate sulla base del suddetto Dm.

Al fine di allineare allo stesso criterio dell’imposta di registro anche l’agevolazione “prima casa” attribuita con aliquota Iva ridotta, il legislatore è poi intervenuto con l’articolo 33 del Dlgs 175/2014 che, nel modificare il n. 21 della tabella A, parte II, allegata al Dpr 633/1972, ha espressamente richiamato il “criterio catastale”; con il risultato che anche l’agevolazione Iva è esclusa (indipendentemente dalla sussistenza di tutti gli altri requisiti) per gli immobili rientranti in una delle suddette categorie.

Stante il quadro normativo sopra rappresentato, sull’efficacia temporale delle nuove disposizioni, la suprema Corte ha dunque chiarito (vedasi anche Cassazione 13235/2016) che l’agevolazione prima casa spettante sulla base dei nuovi parametri non trova applicazione per gli atti negoziali anteriori a gennaio 2014; ciò, tuttavia, non impedisce alle stesse norme di spiegare effetti ai fini sanzionatori, con la conseguente applicazione anche alla materia tributaria del principio del favor rei, a condizione che il provvedimento sanzionatorio non sia divenuto definitivo.

Non in linea con il suddetto orientamento di legittimità si pongono dunque le sentenze di merito che, al contrario, riconoscono la prevalenza della nuova categoria catastale sulle vecchie regole del 1969. Ad esempio, si richiama la sentenza n. 275/1/16 della Ctp di Pisa, con la quale i giudici hanno affermato che, a seguito dell’innovazione della norma in tema di benefici da prima casa, le nuove regole si applicano anche per il passato, laddove l’abitazione acquistata, da un punto di vista catastale, rientra pacificamente nella categoria non di lusso, indipendentemente dal computo dei mq. Negli stessi termini si era espressa anche la Ctr del Lazio con la sentenza n. 4449/1/15, depositata il 29 luglio 2015.

L’ASSEMBLEA CONDOMINIALE APPROVA IL PREVENTIVO PIÙ COSTO: È ECCESSO DI POTERE?

[A cura di: Giuseppe Simone – vice segretario nazionale Appc]
Prendiamo spunto da una recentissima impugnazione di una delibera assembleare da parte di un signore – ad un tempo condomino, avvocato e giudice di pace – attinente la decisione della maggioranza dei condòmini di far cadere la loro preferenza sul preventivo più costoso fra quelli presentati in assemblea, per soffermarci sul significato di “eccesso di potere” in condominio. 
Cominciamo col porci la domanda: il giudice può sindacare, per esempio in tema di scelta dell’offerta per prestazione professionale di tecnici in materia di capitolato e computo metrico, entrando nel merito della congruità del costo della prestazione? È noto che il sindacato del giudice, in sede di impugnativa delle delibere di assemblee attiene solo alla legittimità di queste (e quindi alla violazione della legge o del regolamento) con preclusione dell’esame del merito e cioè dei motivi che possono aver indotto la maggioranza dei condòmini a scegliere un preventivo piuttosto che un altro. E, tuttavia, il contenuto di opportunità e convenienza può essere sindacato dall’autorità giudiziaria a parere della Corte di Cassazione del 1978 sent. n. 3177, allorquando i condòmini abbiano deliberato travalicando i limiti di legge per eccesso di potere. 
La nozione di eccesso di potere in ambito di diritto civile condominiale non è prevista espressamente da una norma specifica; è invece frutto di elaborazione giurisprudenziale, siccome è di origine strettamente amministrativa appartenendo solo al campo del diritto pubblico. La Corte di Cassazione nel 1968 e nel 1978 – rispettivamente con sentenze n. 1865 e n. 3177 – statuì che non può essere dedotto a motivo di annullamento di una delibera di assemblea l’apprezzamento di fatto da parte della maggioranza dei condòmini degli argomenti trattati in assemblea, salvo che la causa del provvedimento adottato sia falsamente deviata dal suo normale modo di essere, cioè la decisione della maggioranza sia viziata da eccesso di potere. 
In vero, la nozione di eccesso di potere non è ben definita nei suoi contorni neanche in giurisprudenza e neppure dalla dottrina. In via prevalente si ritiene che l’eccesso di potere dell’assemblea si ricolleghi a una grave lesione dell’interesse della comunione, alla stregua dell’art.1109 1°co. Codice civile. Sicché, quando la delibera di assemblea violi la legge, l’eccesso di potere non si configura come vizio autonomo identificabile con una falsa deviazione della causa del provvedimento, ma si identifica con la violazione di legge. E, dunque, tutte le volte che una delibera assembleare crei un pregiudizio grave all’amministrazione della cosa comune sussisterà il vizio di eccesso di potere. Occorre però dare prova concreta che la deliberazione è gravemente pregiudizievole alla cosa comune, attraverso, per esempio – nel caso di due preventivi di prestazione tecnica presentati da due distinti tecnici, un ingegnere e un geometra – la disamina anche comparativa dei costi e delle prestazioni offerte con i costi e le prestazioni di altri tecnici. 
In tema di eccesso di potere, la Cassazione del 2001, sent. n. 5889 ha puntualizzato che il sindacato dell’Autorità giudiziaria deve limitarsi al riscontro della legittimità che, oltre ad avere riguardo alle norme di legge o del regolamento di condominio, deve comprendere anche l’eccesso di potere, ravvisabile quando la decisione sia deviata dal suo modo di essere, perché in tal caso il giudice non controlla l’opportunità o la convenienza della soluzione adottata dalla delibera impugnata, ma deve stabilire solo che essa sia o meno il risultato del legittimo esercizio del potere discrezionale dell’assemblea. 
Il Tribunale di Busto Arsizio, nel 2000, ha sentenziato che il sindacato dell’Autorità non può estendersi alla valutazione del merito e al controllo della discrezionalità dell’organo deliberante e del legittimo esercizio del suo potere discrezionale. Nello specifico, il Tribunale ha respinto l’impugnativa di un condomino con la quale si contestava la decisione dell’assemblea di preferire un preventivo più costoso rispetto ad un altro più vantaggioso. Sulla stessa linea si colloca l’ordinanza del Tribunale di Venezia del 18/03/2014, riferendosi a quanto affermato dalla Corte di Cassazione, sez.2, sent.10199 del 20/06/2012.