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CRONACA FLASH DALLA CASA E DAL CONDOMINIO

Finto tecnico “beccato”

dal vero poliziotto

Truffa finita male per un malvivente di 51 anni, che aveva tentato di introdursi in casa di un’anziana, residente in un condominio di Catania. L’uomo, che sosteneva di essere un tecnico elettricista mandato dall’amministratore per riparare i citofoni, era riuscito a farsi aprire la porta, ma non aveva fatto i conti con la presenza, in casa, del figlio della proprietaria, agente della Digos. Questi, insospettito dalla conversazione, si era recato all’ingresso per verificare quanto stesse accadendo. Il tempo necessario per registrare il volto del truffatore prima che si dileguasse. Scattato l’allarme, il 51enne è stato fermato da una volante della polizia e denunciato in stato di libertà.

Coppia di giovani ladri

arrestati grazie alla vicina

Due giovani ladri d’appartamento, di 18 e 20 anni, sono stati arrestati mentre tentavano di introdursi in un alloggio di un condominio di Ferrara, grazie alla segnalazione di un’inquilina. L’attenta vicina, vedendo i due armeggiare davanti alla porta della dirimpettaia, aveva deciso di chiamare la polizia, raccontando in diretta quanto stava accadendo. All’arrivo degli agenti, i ladri si sono rifugiati sul terrazzo del condominio, fingendo di trovarsi lì per fumare. I poliziotti però non hanno creduto al racconto e li hanno condotti in Questura per poi arrestarli con l’accusa di tentato furto.

Droga e armi in casa

Arrestato spacciatore

Pericoloso spacciatore individuato e arrestato nell’alloggio di un condominio di Brescia, adibito a “ufficio”. A fare la soffiata alle forze dell’ordine una telefonata anonima, probabilmente di un residente del condominio, che aveva notato movimenti sospetti in quell’appartamento. Gli agenti sono entrati in azione qualche minuto dopo la segnalazione, presentandosi in borghese alla porta dello spacciatore. Una volta entrati, hanno rinvenuto nella casa del 31enne, oltre a 850 euro e 4 chili di droga, circa 600 proiettili, due revolver e una Beretta scacciacani, appoggiata sul comodino.

Finta vendita immobiliare:

nei guai pure l’acquirente

Senza dubbio una truffa molto ben congeniata. È quella messa a segno da un uomo che, usando atti e sigilli notarili falsificati, è riuscito a farsi dare la procura di una casa in provincia di Treviso, che ha poi venduto a terzi, all’insaputa dei due imprenditori proprietari. Per il momento, dalle indagini è emerso che le firme apportate sulla procura sono del tutto false e che erano stati usati i sigilli di un notaio insospettabile della zona. Da chiarire, infine, la posizione di un uomo di Pordenone, acquirente della casa.

RIMBORSI DELL’IMU VERSATA ERRONEAMENTE: TEMPI E MODALITÀ PER OTTENERLI

Possono partire i rimborsi ai contribuenti delle quote Imu che, erroneamente, hanno preso la direzione sbagliata, confluendo nelle casse dello Stato anziché in quelle dei Comuni. Il decreto 26 ottobre 2016 del ministero dell’Economia e delle Finanze, ora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, ne definisce la procedura di restituzione ai cittadini, valida per tutti i tributi locali.

I rimborsi arrivano una volta conclusa l’apposita istruttoria con cui l’amministrazione locale ha verificato la sussistenza del diritto alla restituzione delle somme. Il Dipartimento delle finanze dispone i mandati sulla base delle liste predisposte con procedura automatizzata dai Comuni, nelle quali sono indicati, per ogni singolo beneficiario, generalità, importo spettante e Iban del conto corrente bancario o postale. In particolare, il Dipartimento emette ordini di pagamento collettivi e, contestualmente, invia alla Banca d’Italia gli estremi per versare le somme sui conti dei singoli destinatari. Nel caso in cui non siano state segnalate le coordinate bancarie o postali per l’accreditamento dei rimborsi, saranno emessi mandati di pagamento individuali e il rimborso avverrà:

* per importi non superiori a mille euro, in contanti presso gli uffici postali, entro il secondo mese successivo a quello di esigibilità;

* per importi superiori a mille euro, con vaglia cambiario non trasferibile della Banca d’Italia.

Le somme relative a bonifici e vaglia non andati a buon fine o non riscosse entro il secondo mese successivo a quello di esigibilità dovranno essere riversate sull’apposito conto corrente aperto presso la Tesoreria centrale, per la riemissione del pagamento a favore del contribuente creditore.

CASA, CONFEDILIZIA: “SU 50 MILIARDI DI TASSE BASTEREBBE ELIMINARNE 700 MILIONI”

Casa, carissima casa. A fare il punto sulla fiscalità immobiliare e sulle maggiori urgenze del settore è stata, nelle scorse settimane, Confedilizia, che ha stimato in 50,8 miliardi di euro, per il 2016, il gettito dei tributi gravanti sul comparto immobiliare. Un patrimonio ingente, così suddiviso: 9,2 miliardi di tributi reddituali (Irpef, Ires, cedolare secca); 22 miliardi di tributi patrimoniali (Imu, Tasi); 9 miliardi di tributi indiretti sui trasferimenti (Iva, imposta di registro, imposta di bollo, imposte ipotecarie e catastali, imposta sulle successioni e donazioni); 1 miliardo di tributi indiretti sulle locazioni (imposta di registro, imposta di bollo); 9,6 miliardi di altri tributi (Tari, tributo provinciale per l’ambiente, contributi ai Consorzi di bonifica).

Spicca, tra queste cifre, la tassazione patrimoniale che – con Imu e Tasi, nonostante l’eliminazione dell’imposizione sulla “prima casa” – rappresenta un carico di quasi il 150 per cento più alto di quello che era dato dall’Ici, in vigore fino al 2011. In questo quadro e in vista della legge di bilancio, Confedilizia – pur ribadendo che ciò che occorrerebbe, per ragioni di equità e per esigenze di sviluppo, è una riduzione della pressione fiscale sugli immobili dell’ordine di diversi miliardi di euro – ha indicato alcuni interventi specifici mirati ad attenuare le conseguenze più gravi prodotte da questo eccesso di imposizione. Interventi che, qualora messi in atto, avrebbero un onere per l’Erario di circa 700 milioni di euro, corrispondenti a poco più dell’1 per cento del gettito totale dei tributi gravanti sul settore immobiliare.

Le misure proposte sono le seguenti: 

1. Introduzione di una cedolare secca per le locazioni commerciali, con avvio sperimentale per nuove attività aperte in locali sfitti o per i “negozi di vicinato”; 

2. Equiparazione del trattamento fiscale dei canoni di locazione abitativi e non abitativi non percepiti; 

3. Previsione di un limite del 4 per mille alla somma delle aliquote Imu-Tasi per i contratti di locazione a canone calmierato (“concordati” e per studenti universitari); 

4. Proroga per un quadriennio della cedolare secca al 10 per cento per i contratti di locazione a canone calmierato; 

5. Ripristino della deduzione Irpef del 15 per cento per i redditi da locazione; 

6. Soppressione dell’Irpef sugli immobili non locati.

“Il settore immobiliare – ha dichiarato il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa – è gravato da un macigno fiscale, soprattutto di tipo patrimoniale, che colpisce tutte le tipologie di immobili: quelli locati (abitazioni, negozi, uffici, tanto che gli inquilini paghino quanto che siano morosi), quelli che non si riescono neppure ad affittare, le case di villeggiatura, quelle ereditate e lasciate deperire per mancanza di risorse. È un macigno che continua a determinare conseguenze disastrose per l’economia: impoverendo le famiglie, comprimendo i consumi, deprimendo il Pil, condizionando l’occupazione, strozzando il commercio, impedendo l’accesso all’abitazione da parte dei soggetti più deboli. La proprietà diffusa svolge in Italia una funzione economica e sociale che non ha eguali: con l’attività di locazione di abitazioni e locali commerciali, così come con la cura quotidiana di un patrimonio che è interesse di tutti mantenere vivo, sicuro, decoroso. Si tratta di famiglie che investono nel nostro Paese e che sono ricambiate con una tassazione punitiva. Al Parlamento e al Governo chiediamo di impiegare, nell’ambito di una manovra da 27 miliardi, 700 milioni in un settore, quello immobiliare, vitale per la crescita e per lo sviluppo”.

PRESTITO VITALIZIO IPOTECARIO: COME FUNZIONA IN CASO DI UNIONI CIVILI

[A cura di: Confappi]

Il prestito vitalizio è uno speciale finanziamento bancario e delle finanziarie dedicato a chi ha più di 60 anni, con possibilità di ricevere il prestito a tranche mensili e rimborso integrale in unica soluzione alla morte del soggetto debitore, oppure anche prima del decesso se la casa viene venduta o ipotecata o se il valore dell’immobile subisce una riduzione significativa. 

La restituzione in unica soluzione non è l’unica opzione. La legge prevede rimborsi rateali. Le banche sono comunque garantite da ipoteca di primo grado. Se entro un anno il finanziamento non è restituito dagli eredi o dal debitore, la casa viene venduta al prezzo di mercato e il ricavato viene usato per il rimborso del credito. La Legge 44/2015 ha rinviato la disciplina di dettaglio al DM 226/2015. Ora gli ulteriori chiarimenti. 

Il contratto di prestito vitalizio deve essere firmato anche dal compagno dell’unione civile, che può prendere la residenza nella casa senza far estinguere il prestito. La banca, per recuperare il credito, dopo la morte del beneficiario, può vendere la casa senza necessità di autorizzazione degli eredi. Alle unioni civili si applicano tutte le previsioni della legge e del decreto ministeriale applicabili ai coniugi. Quindi non è possibile per la banca chiedere il rimborso quando, dopo la stipula del finanziamento, prenda la residenza nell’immobile il compagno dell’unione civile, il quale stipulerà il contratto di finanziamento. In caso di separazione, il rapporto coniugale non è ancora cessato. Pertanto il soggetto finanziato, anche se legalmente separato, risulta ancora coniugato fino all’intervenuto divorzio. Ai fini dell’obbligo di cointestazione del finanziamento rileva sia il rapporto di coniugio che il fatto che nell’immobile risiedano entrambi i coniugi.

CASE NON DI LUSSO: L’IVA È AL 10% SE È PROVATO L’IMPIEGO ABITATIVO

[A cura di: Assonime]

Come noto, il regime Iva delle cessioni immobiliari è diversamente disciplinato a seconda che si tratti di fabbricati abitativi o strumentali (distinzione che deve essere operata facendo riferimento alla classificazione catastale dei fabbricati, a prescindere dal loro effettivo utilizzo – circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 27/2006) ovvero di terreni.

Con specifico riferimento alle cessioni di fabbricati abitativi (vale a dire le unità immobiliari urbane classificate o classificabili nelle categorie del gruppo A, eccetto gli A/10), l’articolo 10, comma 1, n. 8-bis del Dpr 633/1972 (nel dato testuale attualmente vigente) prevede che le medesime sono, in linea di principio, esenti da imposta, fatta eccezione per le seguenti ipotesi: 

* cessioni di fabbricati abitativi operate dall’impresa costruttrice o ristrutturatrice, quando i lavori di costruzione o ristrutturazione sono ultimati non oltre cinque anni prima della data di cessione;

* cessioni di fabbricati abitativi operate dall’impresa di costruzione o ristrutturazione oltre cinque anni dopo la conclusione dell’intervento o della costruzione, in presenza di opzione per l’imponibilità espressamente manifestata in atto dal cedente;

* cessioni di alloggi sociali, da chiunque effettuate, in presenza di opzione per l’imponibilità espressamente manifestata in atto dal cedente.

La fattispecie esaminata dalla suprema Corte con la sentenza 15620/2016 ha a oggetto la cessione di un fabbricato abitativo non di lusso (non qualificabile come un alloggio sociale), posta in essere da un soggetto diverso dall’impresa di costruzione o ristrutturazione.

Detta operazione (che oggi sconterebbe un regime Iva di esenzione), in base alla disciplina normativa applicabile ai fatti di causa (articolo 10, comma 8-bis, Dpr n. 633/1972 nel testo vigente prima delle modifiche apportate dall’articolo 35, comma 8, lettera a), del Dl 223/2006) rientrava fra le operazioni imponibili e, pertanto, comportava la necessità di individuare l’aliquota d’imposta applicabile, tenuto conto del fatto che le cessioni immobiliari Iva imponibili scontano l’imposta attraverso tre diverse aliquote: il 4%, se oggetto di cessione è un’abitazione “prima casa” (n. 21 della tabella A, parte II, allegata al Dpr n. 633/1972); il 10%, se oggetto di cessione è un’abitazione non di lusso diversa dalla “prima casa” (n. 127-undecies della tabella A, parte III, allegata al Dpr n. 633/1972); l’aliquota ordinaria in tutte le altre ipotesi.

Con la sentenza citata, la Corte di cassazione è dunque chiamata a delineare l’esatto ambito di applicazione dell’aliquota agevolata del 10%, operante in relazione alle cessioni di fabbricati abitativi non di lusso, privi dei requisiti per essere considerati “prima casa”. In proposito, la suprema Corte ha evidenziato che l’aliquota ridotta del 10% si applica sia alla vendita di una o, contestualmente, di due o più case di abitazione non di lusso da parte di qualsiasi soggetto Iva, sia alla vendita da parte del costruttore di fabbricati o di loro porzioni (comprensivi, oltre che di unità abitative non di lusso, anche di locali commerciali, quali negozi o uffici).

In entrambe le ipotesi, tuttavia, affinché operi la cennata agevolazione, è necessario che sia provato, dopo la vendita, l’effettivo e concreto impiego abitativo dell’unità immobiliare compravenduta, elemento che non può dirsi integrato dal mero dato catastale dell’immobile compravenduto.

Secondo la Corte, infatti, il n. 127-undecies della tabella A, parte III, allegata al Dpr n. 633/1972, si deve interpretare conformemente alla sua “ratio legis”, che è quella di favorire l’acquisto della proprietà del cespite da destinare a esigenze abitative e, indirettamente, di incentivare lo sviluppo dell’edilizia abitativa.

Ne consegue che, in mancanza di detta prova da parte dell’acquirente, è legittimo il recupero a tassazione operato dall’Amministrazione finanziaria, mediante applicazione dell’aliquota Iva ordinaria (in senso conforme: Cassazione n. 11169/2014).

AFFITTI E FISCALITÀ: LE DOMANDE DI CONTRIBUENTI E LE RISPOSTE DELLE ENTRATE

Affitti e fiscalità. Vertono su questo complesso rapporto diverse delle lettere di chiarimento inviate dai contribuenti alla rubrica di “FiscoOggi”: l’organo ufficiale di informazione dell’Agenzia delle Entrate. Di seguito, tre quesiti e le relative risposte forniti dall’esperto, Gianfranco Mingione.

Locazione cointestata: chi può detrarla?

D. Il contratto di affitto dell’appartamento in cui vivo con il mio compagno è intestato a entrambi. La detrazione non trova capienza nella mia imposta lorda. Può beneficiarne lui?

R. Per i contratti di locazione di unità immobiliari adibite ad abitazione principale, stipulati o rinnovati a norma della legge 431/1998, all’inquilino spetta una detrazione di 300 euro, se il reddito complessivo non supera 15.493,71 euro, ovvero di 150 euro, se il reddito complessivo è superiore a 15.493,71 ma non a 30.987,41 euro. Oltre tale ultimo importo, non spetta alcuna detrazione. Lo sconto di imposta deve essere rapportato ai giorni durante i quali l’unità locata è stata effettivamente destinata ad abitazione principale e va ripartito tra gli aventi diritto. In caso di incapienza, cioè qualora la detrazione spettante sia di ammontare superiore all’imposta lorda diminuita nell’ordine delle detrazioni previste dagli articoli 12 e 13 del Tuir, spetta un credito di ammontare pari alla quota di detrazione che non ha trovato capienza nella predetta imposta (articolo 16, comma 1-sexies, Tuir). Pertanto, in caso di contratto di locazione stipulato da due persone, una sola delle quali capiente, quest’ultima non può essere ammessa a beneficiare della detrazione per l’intero importo (circolare 34/2008, paragrafo 9.4).

Affitti e agevolazioni nei comuni alluvionati 

D. Nel mio comune, colpito dall’alluvione del 2014, non sono stati stipulati accordi locali tra proprietari e inquilini per parametrare la locazione a canone concordato. Come applicare le agevolazioni del “Decreto casa”?

R. Il Dl 47/2014 (“Decreto casa”) ha esteso la cedolare secca, con aliquota ridotta al 10%, per gli anni 2014-17, anche ai contratti di locazione stipulati nei comuni per i quali è stato deliberato lo stato di emergenza a seguito di calamità naturali nei cinque anni precedenti il 27 maggio 2014, data di entrata in vigore della legge di conversione del Dl. Qualora in tali comuni non siano stati definiti accordi tra le organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori per la determinazione del canone, è possibile fare riferimento, ai fini dell’applicazione dell’aliquota ridotta, all’accordo vigente nel comune demograficamente omogeneo di minore distanza territoriale, anche situato in altra regione (circolare 12/2016).

Locazione e mutuo: no alla doppia detrazione

D. Sono titolare di un contratto di locazione di un immobile nello stesso comune in cui ho acquistato la mia prima casa. Oltre alla detrazione Irpef sugli interessi del mutuo, posso detrarre anche la quota per canone di affitto?

R. La detrazione degli interessi passivi pagati relativamente a un mutuo stipulato per l’acquisto della casa è ammessa a condizione che l’unità immobiliare, entro un anno, sia adibita ad abitazione principale e che l’acquisto sia avvenuto nell’anno antecedente o successivo alla data di stipula del mutuo (articolo 15, comma 1, lettera b, del Tuir). Il diritto al beneficio si perde, a partire dal periodo d’imposta successivo all’evento, se l’immobile non è più utilizzato come abitazione principale. Anche la detrazione a favore dei titolari di contratti di locazione di unità immobiliari spetta a condizione che le stesse siano adibite ad abitazione principale (articolo 16 del Tuir). Conseguentemente, le due agevolazioni sono alternative.

LOCAZIONI E NON SOLO: LA DISCIPLINA GIURIDICA DEI CONTRATTI

[A cura di: avv. Gian Vincenzo Tortorici]

Una fonte delle obbligazioni, disciplinate nel libro quarto del codice civile, è il contratto che, come stabilito dall’art. 1321 cod. civ., è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere un loro rapporto giuridico di natura patrimoniale. 

I requisiti del contratto per la sua validità, ai sensi del secondo comma dell’art. 1325 cod. civ., sono: 

a) l’accordo delle parti; 

b) la causa; 

c) l’oggetto; 

d) la forma, se prescritta dalla legge sotto pena di nullità (Cass. civ., Sez. I, 11 aprile 2016, n. 7068; Cass. civ., Sez. II, 19 aprile 2012, n. 6130).

L’accordo delle parti è rappresentato da una proposta di una parte e dall’accettazione dell’altra. La causa del contratto è definita dalla giurisprudenza e dalla dottrina, in mancanza di una indicazione legislativa, lo scopo socio-economico che ha determinato le parti a concluderlo. L’oggetto del contratto si identifica nella prestazione che deve essere eseguita dalle parti e, conseguentemente, nelle obbligazioni da loro assunte. Il contratto ha natura sinallagmatica, per cui a fronte di una prestazione si deve effettuare una controprestazione, sempre valutabile economicamente.

Il legislatore ha previsto, altresì, che il contratto possa essere: 

a) sottoposto a condizione sospensiva o risolutiva; 

b) simulato. 

In entrambe le fattispecie ha dettato una precisa normativa finalizzata a ridurre le possibili controversie che sarebbero insorte tra le parti, inerenti alla concreta esecuzione. Si è rilevato che il contratto è valido in presenza dei requisiti ut supra dedotti; l’invalidità del contratto è costituita dalla sua nullità o dalla sua annullabilità.

La nullità, che è imprescrittibile, può inerire all’intero contratto o a sue singole clausole. In questa seconda ipotesi, il contratto è nullo se risulti che le parti non lo abbiano concluso in assenza di queste; se, viceversa, la clausola nulla possa essere sostituita ex lege da una norma imperativa, il contratto è valido con questa sostituzione ex art. 1419 cod. civ. (Cass. civ., Sez. V, 22 aprile 2016, n. 8220; Cass. civ., Sez. III, 21 marzo 2011, n. 6364).

L’annullabilità del contratto, che è prescrittibile, è causata: 

1) dall’incapacità di una parte; 

2) da errore, violenza o dolo subiti da un contraente; in quest’ultima ipotesi, il legislatore stabilisce dettagliatamente quando questi vizi del consenso siano talmente rilevanti da determinare l’inefficacia del contratto.

Può accadere che un contratto valido non sia adempiuto per colpa di una parte; in questo caso può essere chiesta la sua risoluzione dalla parte adempiente o che sia pronta ad adempiere. La risoluzione per inadempimento può essere giudiziale ex artt. 1453 e 1455 cod. civ. (Cass. civ., Sez. II, 4 marzo 2016, n. 4314; Cass. civ., Sez. VI, 23 giugno 2011, n. 13887) e di diritto ex  artt. 1454 (diffida ad adempiere [Cass. civ., Sez. II, 21 luglio 2016, n. 15070; Cass. civ., Sez. III, 18 agosto 2011, n. 17348]), art. 1456 (clausola risolutiva espressa [Cass. civ., Sez. VI, 11 marzo 2016, n. 4796]) e art. 1457 (termine essenziale [Cass. civ., Sez. III, 15 luglio 2016, n. 14426]) cod. civ..

La risoluzione del contratto può anche essere determinata dalla impossibilità sopravvenuta di eseguire la prestazione o dalla sua eccessiva onerosità risultante per il verificarsi di fatti straordinari e imprevedibili.

Analoga disciplina normativa è prevista per gli atti unilaterali che provengono da una sola parte e che producono effetti giuridici nella sfera giuridico-economica del destinatario; gli atti de quibus producono effetti dal momento che pervengono a conoscenza dell’altra parte (Cass. civ., Sez. I, 6 maggio 2015, n. 9127). 

FORMA DEL CONTRATTO

L’art. 1350 cod. civ., in combinato disposto con il n. 4) dell’art. 1325 cod. civ., stabilisce quali atti debbano essere redatti per atto pubblico o per scrittura privata, a pena di nullità. L’elencazione prevista nel suddetto articolo, non è tassativa poiché lo stesso legislatore, al n. 13), cita “gli altri atti specialmente indicati dalla legge”; da ultimo, si rammenta l’art. 1 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, in tema di contratti di locazione per immobili urbani, destinati a uso abitativo.

Mancando la forma scritta il contratto è nullo e, dunque, inefficace con la conseguenza che può non essere eseguito e neppure è convalidabile ex art. 1423 cod. civ.. Inoltre, il legislatore ha stabilito che alcuni contratti debbano essere provati esclusivamente per iscritto quale, ad esempio, la transazione disciplinata dall’art. 1965 cod. civ. (Cass. civ., Sez. III, 15 luglio 2016, n. 14432; Cass. civ., Sez. II, 4 maggio 2016, n. 8917).

L’articolo 1350 cod. civ. costituisce una eccezione alla regola generale per cui un contratto normalmente è stipulato con forma libera, in forza dell’autonomia delle parti contraenti, ex art. 1322 cod. civ..

L’art. 1350 cod. civ. prevede, quale forma scritta, l’atto pubblico e la scrittura privata; questa può essere anche “autenticata”. La differenza tra atto pubblico e scrittura privata autenticata è che il primo fa piena prova in quanto redatto dal pubblico ufficiale che attesta la provenienza di quanto le parti dichiarano ex  art. 2699 cod. civ., ma non la veridicità delle loro manifestazioni, mentre nella seconda il pubblico ufficiale si limita ad attestare che è avvenuta in sua presenza la sottoscrizione dell’atto ai sensi dell’art. 2701 cod. civ..

Ma, ut supra dedotto, il legislatore ha previsto sia la forma scritta ad substantiam, mancando la quale il contratto è nullo, sia la forma scritta ad probationem, in carenza della quale il contratto è sempre valido ed efficace, in quanto la forma incide esclusivamente ai fini della prova dell’esistenza del contratto stesso o di alcune sue singole clausole.

La dottrina ha ulteriormente individuato la forma ad regularitatem che non è essenziale per la validità del contratto, ma è necessaria per il conseguimento di altri scopi, soprattutto di pubblicità e/o di esigenze fiscali.

Le conseguenze di quanto sopra dedotto ineriscono alla prova di quanto asserito o contestato in giudizio nell’ipotesi di controversia inerente all’interpretazione o all’esecuzione del contratto stipulato. Nel caso un contratto sia stipulato con atto pubblico, questo fa piena prova, ex art. 2700 cod. civ., sino a querela di falso della provenienza del documento dal pubblico ufficiale; per contro, la scrittura privata fa piena prova ex art. 2702 cod. civ. sino a quella della falsità delle dichiarazioni in essa contenute (Cass. civ., Sez. I, 27 maggio 2016, n. 11028).

È ammessa la prova per testi, indifferentemente allorché sia richiesta la forma scritta ad substantiam o quella ad probationem, esclusivamente allorché il contraente interessato abbia senza sua colpa perso il documento contrattuale, ex art. 1324 cod. civ. (Cass. civ., Sez. I, 7 luglio 2016, n. 13857).

CONDOMINIO: QUALI SONO LE SPESE E CHI HA IL POTERE DI DISPORLE

[A cura di: avv. Andrea Marostica]

Oggetti della disciplina del condominio negli edifici sono le cose ed i servizi comuni alle parti in proprietà esclusiva. Il complesso delle disposizioni in materia ha come finalità la regolamentazione delle vicende giuridiche dei soggetti che con tali oggetti instaurano rapporti, che possono essere immediati – è il caso dei condòmini, in quanto proprietari delle parti esclusive e dunque comproprietari delle parti comuni, legati a queste ultime da obbligazioni propter rem – o mediati, ed è il caso dell’amministratore, che entra in rapporto con gli oggetti di cui sopra in virtù di una fonte contrattuale, ovvero nomina ed accettazione.

Le spese: classificazione

Tra le disposizioni in parola figurano quelle relative alle spese. Le locuzioni utilizzate dal legislatore in proposito sono quanto mai variegate: spese per la conservazione, per il godimento, per la manutenzione, per la riparazione, per la ricostruzione, per la fruizione, per l’esercizio.

Qui, dove il fine è individuare il perimetro del potere decisionale dell’amministratore nella disposizione di interventi relativi alle cose ed ai servizi comuni, viene adottata la seguente classificazione (peraltro suggerita dallo stesso codice civile): 

a) spese di manutenzione ordinaria delle cose; 

b) spese di esercizio dei servizi; 

c) spese di manutenzione straordinaria delle cose, a loro volta distinte in: (c1) non urgenti ed (c2) urgenti; 

d) spese relative ad innovazioni delle cose.

Le spese: tipologia.

Le spese di manutenzione ordinaria a) sono quelle necessarie a mantenere la cosa nella sua essenza e funzione, ad assicurarne dunque lo stato e la funzionalità che le sono propri, a fronte dell’inevitabile deperimento quotidiano. Ne sono esempi le riparazioni e le sostituzioni di lieve entità, la pulizia.

Le spese di esercizio dei servizi b) sono quelle necessarie a garantire la prestazione normale dei servizi in comune. Si pensi ai periodici controlli dell’ascensore.

Le spese di manutenzione straordinaria c) sono quelle necessarie al mantenimento dello stato di normalità della cosa, come quelle di manutenzione ordinaria, ma, a differenza di queste, presentano un carattere di eccezionalità (si veda Terzago, Il condominio, Trattato teorico-pratico, Giuffrè, 2010, pag. 460). Secondo alcuni, tale eccezionalità sta nella causa che rende necessario l’intervento: non il costante logorio della cosa, come nella manutenzione ordinaria, ma un evento imprevedibile. Secondo altri, eccezionale non è la causa dell’intervento, ma la sua entità e modalità: mentre nella manutenzione ordinaria l’entità è modesta e la modalità frequente, in quella straordinaria la prima è rilevante e la seconda infrequente.

Le spese di manutenzione straordinaria vengono distinte dal codice, sulla base della rapidità di intervento che la necessità esige, in non urgenti c1) ed urgenti c2): quali esempi, rispettivamente, la tinteggiatura della facciata e la sostituzione del vetro rotto del portoncino d’ingresso.

Le spese relative alle innovazioni d) sono quelle dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento della cosa. Il concetto di innovazione porta con sé quello di modifica della cosa, la quale diventa qualcosa di diverso da quello che era prima. Se la manutenzione è finalizzata alla conservazione dell’essenza della cosa, l’innovazione ha come presupposto l’individuazione di una nuova o comunque diversa essenza potenziale della cosa e come risultato la realizzazione di tale novità o diversità. Si pensi alla installazione di un ascensore nel vano scale.

Disciplina dei poteri decisionali

La disciplina del condominio ha cura di specificare, per ciascun tipo di spesa, a chi competa il potere decisionale circa il relativo intervento.

L’art. 1130, co. 1, lett. 3 include tra le attribuzioni dell’amministratore l’erogazione delle spese occorrenti alla manutenzione ordinaria delle cose e all’esercizio dei servizi comuni. Dunque, quanto alla manutenzione ordinaria a) ed all’esercizio dei servizi b), l’amministratore ha il potere ed il dovere di provvedere.

L’art. 1135, co. 1, lett. 4 assegna all’assemblea dei condòmini il compito di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria delle cose ed alle innovazioni. L’art. 1135, co. 2 vieta all’amministratore di ordinare lavori di manutenzione straordinaria, salvo che si tratti di interventi urgenti: in tal caso l’amministratore può disporre motu proprio l’opera, ma ne deve riferirne alla prima assemblea utile. Dunque, quanto alla manutenzione straordinaria c), se si tratta di interventi non urgenti c1) l’assemblea ha il potere di provvedere e l’amministratore ne ha il divieto; se si tratta di interventi urgenti c2) sia l’assemblea sia l’amministratore hanno il potere di provvedere. Quanto alle innovazioni d), l’assemblea ha il potere di provvedere e l’amministratore ne ha il divieto (il divieto è affermato esplicitamente solo per la manutenzione straordinaria, ma si ritiene implicitamente stabilito anche per le innovazioni).

Si noti, per inciso, come le previsioni in tema di manutenzione straordinaria valgano quali argomenti a contrario per ribadire quanto detto per quella ordinaria: se tra le attribuzioni dell’assemblea rientra (solo) la manutenzione straordinaria, significa che quella ordinaria non vi rientra, è infatti compito dell’amministratore; se l’amministratore ha il divieto di provvedere alla manutenzione straordinaria, non ha il divieto di provvedere a quella ordinaria, è anzi suo compito.

Riassumendo, rientrano nel perimetro decisionale dell’amministratore (qualora l’assemblea non lo invada, si veda infra): le spese di manutenzione ordinaria a), di esercizio dei servizi b), di manutenzione straordinaria urgente c2); ne fuoriescono le spese di manutenzione straordinaria non urgente c1) e le innovazioni d).

Assemblea e amministratore

In tale intreccio di poteri, doveri e divieti, un aspetto merita di essere ancora chiarito: si è visto che la manutenzione ordinaria e l’esercizio dei servizi rientrano tra i poteri-doveri dell’amministratore; si è visto che tra le attribuzioni dell’assemblea rientra (solo) la manutenzione straordinaria; è lecito dunque domandarsi se l’assemblea possa sottrarre all’amministratore il potere decisionale in merito alla manutenzione ordinaria ed all’esercizio dei servizi. Si ritiene di rispondere in senso affermativo, sulla base del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, essendo l’assemblea l’organo supremo del condominio, dotato dei maggiori poteri deliberativi, la volontà dei condòmini può prevalere su qualunque atto o disposizione dell’amministratore. Si veda, ad esempio, Cass. Civ., sez. II, 3 aprile 1998, n. 3424, in base alla quale, nell’ambito della regolazione dell’uso della cosa comune, pur demandata all’amministratore, i condòmini possono sostituirsi a questo in qualità di mandanti. 

Del resto, l’art. 1130 c.c., che disciplina le attribuzioni dell’amministratore, non è norma considerata inderogabile dall’art. 1138 c.c.; è pertanto valida una delibera assembleare avente ad oggetto ambiti di competenza dell’amministratore – quale, per quanto qui interessa, la manutenzione ordinaria -, purché il depauperamento dei suoi poteri non si traduca in una revoca di fatto dello stesso, in violazione (almeno nei condomini con più di otto condòmini) dell’art. 1129, co. 1, questa sì norma inderogabile ex art. 1138 c.c. (si veda Celeste e Terzago, Il condominio, Percorsi giurisprudenziali, Giuffrè, 2008, pagg. 144-147).

LA REVISIONE CATASTALE È VALIDA SE RIPORTA LA NORMA DI RIFERIMENTO

[A cura di: Salvatore Servidio – FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]

Con sentenza 21176 del 19 ottobre 2016, mutando il precedente orientamento, la Corte di cassazione ha sostanzialmente stabilito che, in tema di accertamenti catastali, per assolvere l’obbligo di motivazione dell’atto di classamento, è sufficiente indicare il presupposto della rettifica, al fine di delimitare l’ambito delle ragioni deducibili dall’ufficio nella fase contenziosa.

Dati del processo

La vicenda riguarda una variazione di classamento di alcuni immobili di proprietà privata eseguita, su richiesta del Comune, dall’ex Agenzia del Territorio, ai sensi dell’articolo 1, comma 335, della legge 311/2004, ubicati nelle microzone individuate nella planimetria allegata all’avviso di accertamento.

Nell’impugnare l’atto, gli interessati lamentavano carenza di motivazione della revisione del classamento e la necessità che, per una simile variazione, occorreva una stima con sopralluogo. I giudici di merito confermavano parzialmente la rettifica catastale, nei cui confronti i contribuenti ricorrevano in Cassazione, denunciando, tra l’altro, violazione delle norme e dei principi che regolano la motivazione degli atti in materia catastale, in relazione alla mancata spiegazione delle ragioni dell’attribuzione alle singole unità immobiliari da parte dell’Agenzia del Territorio di una classe superiore.

Revisione del classamento

Si premette che l’articolo 1, comma 335, della legge 311/2004, riconosce ai Comuni – che rappresentano la “porzione” del territorio nazionale rilevante – la possibilità di richiedere all’Agenzia del Territorio (ora, delle Entrate) la revisione del classamento di quelle microzone dove il rapporto medio, tra valori di mercato e valori catastali, superi di almeno il 35% quello dell’insieme delle microzone.

Con tale disposizione – peraltro applicabile solo in presenza di comuni con almeno tre microzone – in attesa della revisione generale delle rendite catastali per allinearle, a parità di gettito, ai valori di mercato (come previsto dall’articolo 2, legge delega 23/2014), il legislatore si è premurato almeno di evitare le situazioni di palese ingiustizia all’interno dei singoli comuni, rideterminando le rendite (e i valori) catastali nel caso in cui il suddetto rapporto si discosti in una determinata microzona di una percentuale significativa rispetto alla media delle microzone del comune interessato.

Orientamento della giurisprudenza

Secondo il più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità (tra cui, cfr. Cassazione 9629/2012, 19820/2012, 16643/2013, 23247/2014 e 3156/2015), la motivazione dell’atto di revisione del classamento catastale non può limitarsi a contenere l’indicazione della consistenza, della categoria e della classe attribuita dall’Agenzia del Territorio, ma deve specificare, a pena di nullità, sia le ragioni giuridiche sia i presupposti di fatto della modifica.

L’amministrazione finanziaria è tenuta, quindi, a precisare – dettagliatamente – se il mutamento è giustificato dal mancato aggiornamento catastale, dall’incongruenza del valore rispetto ai fabbricati similari (individuando detti edifici, il loro classamento e le caratteristiche che li rendono analoghi a quello in oggetto), dall’esecuzione di lavori particolari nell’immobile (da menzionare analiticamente) o, infine, da una risistemazione dei parametri della microzona di collocazione, da esplicitare in modo chiaro con l’indicazione del rapporto tra valore di mercato e valore catastale dell’area e delle altre comunali, così che emerga il significativo divario.

Il giudizio

La Corte suprema, respingendo il gravame, ha fornito un’interpretazione sulla motivazione degli atti che modifica, di fatto, l’orientamento sinora espresso, convalidando la sentenza del riesame perché provvista dei requisiti di congruità e sufficienza.

A tal fine, il Collegio, dopo aver dato atto delle incertezze giurisprudenziali in materia, oscillanti tra una più intensa e una minore rigidità delle scelte interpretative, ha affermato che il più equilibrato orientamento opzionato appare maggiormente idoneo a cogliere il senso della disciplina della revisione catastale prescritta dall’articolo 1, comma 335, della legge 311/2004 (cfr. Cassazione, 21532/2013 e 17322/2014).

Nel merito della questione, la sezione tributaria ha precisato che, per assolvere l’obbligo di motivazione dell’atto di classamento, è sufficiente indicare il presupposto della rettifica, al fine di delimitare l’ambito delle ragioni deducibili dall’ufficio nella fase contenziosa.

Il classamento non è, infatti, un «atto di imposizione fiscale» e trova supporto motivazionale nell’articolo 1, comma 335, della legge 311/2004; bastano, perciò, per la propria validità, l’indicazione della norma di riferimento sul cui presupposto viene operata la revisione.

Peraltro, proprio per l’assenza di variazioni edilizie, l’atto di classamento non richiede il previo sopralluogo dell’ufficio né è condizionato ad alcun contraddittorio endoprocedimentale.

È evidente che, nella successiva fase giudiziale, il contribuente potrà provare – in contraddittorio con l’ufficio – le caratteristiche dell’immobile e l’eventuale inidoneità del nuovo classamento, in relazione non all’idoneità della motivazione dell’atto, ma al merito della controversia (così Cassazione, 22313/2010, 11698/2011 e 21923/2012).

Infine, il giudice di legittimità evidenzia che la richiesta del Comune all’Agenzia del Territorio è un atto interno, i cui eventuali vizi attinenti la sua legittima provenienza possono essere fatti valere non dal contribuente, ma esclusivamente dall’ente (cfr. Cassazione, 17378/2014). 

L’AMMINISTRATORE E LE AZIONI POSSESSORIE NEL CONDOMINIO

[A cura di: Gian Vincenzo Tortorici – Avvocato in Pisa]

Considerato che la natura del condominio non è stata definita dal legislatore, questo è stato definito dalla giurisprudenza e dalla dottrina come un ente di gestione. E, in realtà, il condominio presenta alcune analogie rilevanti sia con la comunione sia con gli enti collettivi. Con la prima ha in comune il diritto di comproprietà dei beni condominiali, con i secondi ha in comune gli organi deliberativo, l’assemblea, ed esecutivo, l’amministratore.

La rappresentanza dell’amministratore

La giurisprudenza lo ha sempre definito un ente di gestione, definizione non condivisa dalla dottrina, ma, dopo la riforma intervenuta con la legge 11 dicembre 2012 n. 220, le Sezioni Unite della Cassazione gli hanno riconosciuto la soggettività giuridica (Cass. civ., Sezz. Unite, 16 settembre 2014, n. 19663). 

Il contratto che s’instaura tra l’amministratore e i condòmini è stato definito dal legislatore, solo con la citata legge n. 220/2012, un mandato, seppure, devo ritenere, ancora sui generis. Infatti, quest’ultimo contratto è fondato sulla fiducia che il mandante nutre nei confronti del mandatario, mentre l’amministratore di condominio agisce e opera anche a favore di coloro che non lo hanno votato, perché assenti all’assemblea di nomina o subentrati nella proprietà ad altro condomino nel corso della gestione annuale, e, addirittura, di coloro che hanno votato contro la sua nomina a tale carica. 

Il legislatore, oltre a stabilire l’obbligatorietà della nomina dell’amministratore qualora il condominio sia composto da oltre quattro condòmini, ne dispone i poteri di gestione e fornisce all’amministratore la rappresentanza del condominio stesso. La rappresentanza dell’amministratore è sostanziale e processuale e, dunque, può sia sottoscrivere i contratti nell’interesse del condominio, ad esempio quelli per la fornitura del gas da riscaldamento o per l’appalto della pulizia delle parti comuni dello stabile, sia stare in giudizio nelle cause che vedono coinvolto il condominio.

La rappresentanza processuale è sia attiva – allorché sia il condominio a promuovere un procedimento giudiziario – sia passiva, allorché questo sia radicato nei confronti del condominio. Considerato che il condominio agisce giudizialmente per la difesa dei diritti inerenti ai beni comuni mediante il suo amministratore, sussiste in capo a ciascun condomino il potere di agire per la tutela dei beni de quibus; infatti, vi è una legittimazione concorrente dei singoli condòmini per agire a tutela dei diritti comuni (Cass. civ., Sez. II, 4 settembre 2014, n. 18687).

L’amministratore può agire in giudizio autonomamente, se l’azione è coerente con i poteri al medesimo concessi dalla legge, anche se è, pur sempre, opportuna una preventiva autorizzazione dell’assemblea, per esempio, per far cessare le attività, vietate da una clausola contrattuale del regolamento, attuate da un condomino; per contro, se tale azione ecceda i suoi poteri, necessita sempre dell’autorizzazione assembleare, per esempio, per proporre una domanda petitoria per rivendicare la proprietà di un’area occupata dal proprietario del fondo vicino.

La delibera in cui si autorizza l’amministratore a radicare un giudizio deve essere adottata dalla maggioranza degli intervenuti in assemblea rappresentanti almeno la metà del valore dell’edificio ai sensi dell’art. 1136, IV comma, codice civile. La facoltà dell’amministratore, di rappresentare processualmente il condominio, non può essere limitata da alcuna delibera condominiale e neppure da una clausola di un regolamento di condominio, considerato che l’art. 1131 codice civile è una norma inderogabile per espresso disposto dell’art. 1138 codice civile. Considerato che la rappresentanza processuale dell’amministratore è inderogabile, il concorrente potere di ogni singolo condomino di intervenire in giudizio costituisce un mero intervento ad adiuvandum. Salvo espressa disposizione contraria, l’autorizzazione concessa dall’assemblea all’amministratore di adire le vie giudiziarie è valida per tutti i gradi del giudizio e anche nell’eventuale fase esecutiva.

La rappresentanza passiva dell’amministratore è, invece, illimitata e ciò per favorire i terzi che intendano citare il condominio, potendo questi notificare l’atto di citazione solo all’amministratore e non a tutti i condòmini indistintamente. Nell’ipotesi il condominio sia privo di amministratore, l’azione del terzo deve invece essere notificata a tutti i condòmini.

Qualora l’atto di citazione inerisca ad una materia che travalica i suoi poteri, l’amministratore deve convocare l’assemblea per farsi autorizzare a stare in giudizio, potendo, in caso contrario, essere revocato dal mandato ex art. 1131, ultimo comma, codice civile. Per contro, l’amministratore difetta di legittimazione attiva allorché la controversia giudiziaria inerisca ai diritti reali dei singoli condòmini o i loro rapporti contrattuali, quale la contestazione di un diritto di proprietà o la modifica delle clausole contrattuali del regolamento di condominio (Cass. civ., Sez. II, 21 maggio 2008, n. 12850). 

In sostanza, l’amministratore ha la rappresentanza attiva per radicare autonomamente, senza delibera assembleare, tutte le azioni che rientrano nel concetto di atti conservativi dei diritti concernenti i beni comuni, purché ricompresi nel perimetro dell’immobile costituito in condominio, ivi comprese le azioni cautelari (Cass. civ., Sez. II, 5 marzo 2015, n. 4503). Il potere autonomo dell’amministratore, però, è limitato alla tutela della conservazione, giuridica e materiale, delle cose condominiali, e non si estende alle obbligazioni che, per contro, riguardano direttamente i condòmini; quindi l’amministratore è legittimato a promuovere l’azione nei confronti del costruttore per contestare i gravi difetti delle parti comuni dell’edificio ai sensi dell’art. 1669 codice civile, essendo il condominio avente causa dell’appaltatore (Cass. civ., Sez. II, 1 agosto 2006, n. 17484), mentre non può radicare alcuna azione per far valere la garanzia per i vizi della cosa venduta ai sensi dell’art. 1490 codice civile, pur concernenti le parti comuni dello stabile, essendo legittimati personalmente i singoli condòmini, quali unici contraenti, acquirenti, del contratto di compravendita delle parti comuni in esame. Né rientra, nel potere dell’amministratore, neppure l’agire per conseguire il risarcimento dei danni patiti dai condòmini.

Viceversa, la legittimazione passiva dell’amministratore è illimitata (Cass. civ., Sez. II, 20 settembre 2012, n. 15838), anche se circoscritta ai soli beni condominiali, in contrapposizione agli interessi particolari dei singoli condòmini. Da quanto dedotto deriva che la legittimazione passiva dell’amministratore inerisce alle cause che riguardano sia i diritti reali sia i rapporti obbligatori del condominio, inteso questo anche nel senso che una o più parti o qualche impianto dell’edificio appartengano esclusivamente ad alcuni condòmini e non a tutti (Cass. civ., Sez. II, 17 febbraio 2012, n. 2363).

Per tutti i motivi sopra esposti, la legittimazione passiva, come quella attiva, permane in tutti i gradi del giudizio, consentendo all’amministratore di impugnare le sentenze sfavorevoli al condominio. Qualora l’amministratore sia citato in giudizio per una causa che esorbiti dai suoi poteri ex lege, ugualmente ha la rappresentanza passiva del condominio, ma, ut supra dedotto, deve informarne subito l’assemblea, affinché questa, ove lo ritenga opportuno, possa integrare i poteri de quibus, ai fini della regolare costituzione in giudizio del condominio. In entrambe le fattispecie analizzate, l’amministratore deve conferire al legale del condominio, sia che venga incaricato direttamente dal medesimo, sia che venga indicato dall’assemblea, una rituale procura alle liti che consenta al magistrato di comprenderne esattamente la provenienza; l’amministratore, infatti, deve dimostrare tale sua carica.

Qualora poi lo stesso non sia confermato  e venga nominato un altro soggetto, il giudizio non s’interrompe, in quanto l’art. 299 codice procedura civile inerisce alle sole ipotesi di rappresentanza legale, mentre il rapporto che si instaura tra condomini e amministratore è fondato su base volontaria (Cass. civ., Sez. III, 16 ottobre 2008, n. 25251).

Le azioni possessorie

Tra le azioni per le quali l’amministratore può stare in giudizio anche senza autorizzazione del condominio, vi sono quelle a tutela del possesso che consistono in: a) azione di reintegra ex art. 1168 codice civile; b) azione di manutenzione ex art. 1170 codice civile (Cass. civ., Sez. II, 15 maggio 2002, n. 7063). Il possesso è costituito dal potere di fatto esplicato su una cosa che si manifesta in un’attività corrispondente a quella attuata per l’esercizio della proprietà o di altro diritto reale (art. 1140 codice civile); nel caso di violazione di un siffatto potere, indipendentemente dall’aspetto psicologico, quindi, dell’autore dello spoglio, è sufficiente provare l’avvenuta turbativa del possesso.  

Costituisce turbativa del possesso anche l’attività del compossessore che comporti un’innovazione della cosa comune, tale da modificarne sensibilmente le modalità d’uso (Cass. civ., Sez. II, 23 maggio 2016, n. 10624). Infatti, in un giudizio possessorio devono essere fornite soltanto le prove del possesso e della intervenuta sua turbativa (Cass. civ., Sez. II, 11 gennaio 2016, n. 233). Trattasi, quindi, esclusivamente della prova del fatto storico dell’esistenza del precitato potere sulla cosa, oggetto dello spoglio (Cass. civ., Sez. II, 20 maggio 2008, n. 12751). Infatti, l’accertamento della situazione di fatto è del tutto indipendente dalla sussistenza di un diritto reale sul bene, dovendo il denunciante provare solo il suo esercizio dello jus possessionis.

La prova del possesso deve, ovviamente, essere fornita dall’attore che agisce con l’azione di spoglio o con quella di manutenzione e questi può radicare l’azione soltanto per recuperare il bene oggetto di spoglio ovvero anche per conseguire coattivamente il risarcimento dei danni patiti. L’azione possessoria può essere esercitata entro un anno dall’intervenuta turbativa o dall’avvenuto spoglio ex art. 1168 codice civile e anche per questa fattispecie, sia dall’amministratore del condominio sia da ciascun condomino; il dies a quo, nel caso di una pluralità di atti di turbativa, decorre dal compimento del primo atto lesivo del possesso (Cass. civ., Sez. II, 10 marzo 2008, n. 6305).

Possono costituire violazione del possesso, ad esempio:

  1. a) l’occupazione abusiva del cortile o di aree scoperte condominiali con oggetti tali da impedire o rendere estremamente difficoltoso il passaggio dei condòmini;
  2. b)   l’accesso su un terrazzo di un altro condomino, senza alcuna autorizzazione da parte del proprietario;
  3. c) un’alterazione della servitù di veduta.

L’occupazione del parcheggio da parte di terzi, costituisce certamente uno dei più frequenti spogli delle parti comuni del condominio che consentono all’amministratore di esercitare l’azione di reintegrazione nel possesso, anche se il parcheggio dei condòmini avviene su un’area di proprietà extra condominiale, destinata, però, ad uso del condominio con un vincolo urbanistico ad hoc (Cass. civ., Sez. II, 27 luglio 2007, n. 16631).