[A cura di: Carmen Miglino, Nuovo FiscoOggi – Agenzia delle Entrate]
L’imposta di registro è dovuta in misura proporzionale – anziché fissa – se all’atto della cessione l’immobile era ancora in fase di ristrutturazione, nonché privo di categoria catastale. Il requisito necessario per l’applicabilità dell’imposta in misura fissa è la destinazione a uso abitativo, requisito che deve sussistere al momento del trasferimento. A chiarirlo, la Corte di cassazione con sentenza n. 24258 del 27 novembre 2015.
IL FATTO
Una società operante nel settore delle costruzioni cedeva ad altra società un complesso immobiliare. L’ufficio fiscale notificava a entrambe le parti un avviso di liquidazione, con il quale chiedeva il pagamento della somma dovuta a titolo di imposta di registro proporzionale nonché ipotecaria e catastale, in quanto la cessione era stata, a suo dire, erroneamente assoggettata a Iva e, quindi, a imposta di registro in misura fissa. A giudizio dell’ufficio, la tariffa delle imposte ipotecaria e catastale poteva essere applicata in misura fissa unicamente se l’immobile fosse stato trasferito con destinazione a uso abitativo, mentre nella fattispecie si trattava di bene strumentale.
Investita della questione, la Ctp accoglieva il ricorso.
Di contro, la Commissione tributaria regionale, in riforma della decisione della provinciale, annullava l’avviso, ritenendo che oggetto della cessione fossero fabbricati abitativi.
La questione approda, dunque, in Cassazione su ricorso dell’Amministrazione finanziaria, affidato a un solo motivo: violazione e falsa applicazione dell’articolo 1-bis della tariffa allegata al D. lgs 347/1990, e dell’articolo 10, comma 1, del D. lgs 347/1990.
LA DECISIONE
L’assunto erariale convince la suprema Corte che accoglie il ricorso, con rinvio della causa al giudice di secondo grado per un nuovo giudizio.
La Cassazione rileva la natura strumentale del complesso immobiliare ceduto, poiché “le trentaquattro unità immobiliari oggetto della cessione, elencate nel contratto, si trovavano in fase di ristrutturazione e successivo frazionamento e cambio di destinazione al fine di ricavarne 19 alloggi residenziali e quindi erano destinate a divenire unità abitative e cantine in fieri”; tale circostanza non poteva giustificare l’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa anziché proporzionale, “in quanto”, si legge nella sentenza, “all’atto della cessione non era ancora ultimata la fase di ristrutturazione e l’immobile era sprovvisto di categoria catastale e quindi oggettivamente carente del requisito necessario (uso abitativo) per godere dell’imposta di registro in misura fissa”.
La disciplina dell’imposta di registro, ricordano i giudici, è imperniata sul canone, stabilito dall’articolo 20 del Dpr 131/1986, secondo cui “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici, degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”; in sostanza, occorre guardare allo scopo in concreto perseguito dalle parti contraenti.
L’articolo 20, nel riferire l’intrinseca natura e gli effetti giuridici all’atto presentato alla registrazione, commisura la tassazione alla situazione giuridica prodotta dal singolo atto (o meglio, alla situazione giuridica che il singolo atto è obiettivamente in grado di produrre). In tal modo, la norma, nell’imposizione del negozio, dà rilievo preminente “alla sua causa reale ed alla effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguita dai contraenti” (Cassazione, nn. 1405/2013, 23584/2012, 10273/2007, 10660/2003 e 2713/2002).
Appurata la natura strumentale del bene, la Corte ha confermato l’imposta di registro in misura proporzionale.
Ai fini della disciplina Iva, per “fabbricati strumentali per natura” si intendono quelli che, “per le loro caratteristiche, non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni”, individuati catastalmente nelle categorie B, C, D, E, A/10.
In generale, le operazioni di cessione di fabbricati strumentali sono esenti Iva, ai sensi dell’articolo 10, comma 1, n. 8-ter, del Dpr 633/1972, a eccezione delle cessioni effettuate dalle imprese costruttrici o ristrutturatrici entro cinque anni dalla data di ultimazione della costruzione o dell’intervento e delle cessioni per le quali nel relativo atto il cedente abbia espressamente manifestato l’opzione per l’imposizione. In pratica, la cessione di fabbricati strumentali ultimati è imponibile Iva se effettuata, dall’impresa che li ha costruiti o vi ha effettuato interventi di recupero, entro i cinque anni dall’ultimazione della costruzione o dell’intervento; in tutti gli altri casi, è esente, salvo opzione espressa per l’imponibilità.
Al riguardo, si segnala la circolare 12/2007, nella quale si afferma che “la cessione dei fabbricati (su cui sono stati realizzati lavori) non ancora ultimati, effettuata da un soggetto passivo d’imposta, deve ritenersi esclusa dall’ambito applicativo del comma 1, n. 8-bis) e 8-ter), dell’articolo 10 del D.P.R. n. 633 del 1972, ed essere in ogni caso assoggettata ad IVA, trattandosi di un bene che va considerato ancora come appartenente al circuito produttivo”. In tali casi, il principio di alternatività Iva/Registro porterebbe all’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa; invece, gli immobili strumentali, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 40 del Tur e dell’articolo 5, comma 1, lettera a-bis), della Tariffa, parte prima, del medesimo Testo unico, scontano l’imposta di registro in misura proporzionale (1%), indipendentemente dal regime Iva d’imponibilità o di esenzione al quale l’operazione è soggetta (cfr. circolare 4/2015).
I giudici, nel caso in esame, hanno fatto applicazione del dato normativo, escludendo l’imposta di registro in misura fissa, essendo emersa con evidenza la natura strumentale del bene interessato, anche se in fase di ristrutturazione e sprovvisto d’inquadramento catastale.
[A cura di: Nuovo Fiscooggi – Agenzia delle Entrate]
Per distinguere la “prestazione di servizi” dalla “cessione con posa in opera” e verificare, quindi, se trova o meno applicazione il meccanismo del reverse charge, occorre far riferimento alla volontà contrattuale e stabilire se sia prevalente l’obbligazione di fare o quella di dare.
Come noto, l’applicazione del meccanismo dell’inversione contabile comporta che il destinatario della cessione o della prestazione, se soggetto passivo, sia obbligato all’assolvimento dell’Iva, in luogo del cedente o del prestatore. In deroga, infatti, al principio di carattere generale secondo cui debitore d’imposta nei confronti dell’Erario è il soggetto che effettua la cessione di beni o la prestazione di servizi, per le operazioni previste dall’articolo 17, sesto comma, del Dpr 633/1972, debitore d’imposta è il soggetto passivo nei cui confronti tali operazioni sono rese. Pertanto, il prestatore di servizi è tenuto a emettere fattura senza addebito d’imposta, mentre il committente dovrà integrare la fattura con l’indicazione dell’aliquota e della relativa imposta dovuta.
Il meccanismo del reverse charge, adottato dagli Stati membri – secondo la Direttiva 2006/69/Ce del 24 luglio 2006 – in deroga alla procedura normale di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto secondo il sistema della rivalsa, mira a contrastare le frodi in particolari settori a rischio, evitando che il cessionario porti in detrazione l’imposta che il cedente non provvede a versare all’Erario. Tale rischio di frode non sussiste nel caso in cui l’operazione, rientrando nel regime di non imponibilità Iva, non preveda l’addebito dell’imposta al cessionario/committente. Alla luce della ratio di tale meccanismo, ne deriva che il presupposto applicativo dell’inversione contabile è l’imponibilità dell’operazione. Tale sistema non si applica, quindi, nell’ipotesi in cui l’operazione sia non imponibile agli effetti dell’Iva, in quanto viene meno il rischio di evasione.
LA CIRCOLARE DELLE ENTRATE
È questa una delle precisazioni della circolare 37/E del 22 dicembre 2015, con cui i tecnici dell’Agenzia delle Entrate rispondono a taluni dubbi espressi dagli operatori del settore edilizio e dalle associazioni di categoria.
Nell’ipotesi di un contratto unico di appalto (comprensivo anche di prestazioni soggette a reverse charge) avente a oggetto interventi edilizi di frazionamento o accorpamento di unità immobiliari (precedentemente rientranti nella “ristrutturazione edilizia” e ora derubricati a “manutenzione straordinaria”), in una logica di semplificazione, si applica l’Iva secondo le regole ordinarie all’intera fattispecie contrattuale. Analogamente, considerata la complessità delle tipologie contrattuali riscontrabili nel settore edile, nell’ipotesi di un contratto unico di appalto, avente a oggetto la demolizione e la successiva costruzione di un nuovo edificio, si applicano le regole ordinarie e non il meccanismo del reverse charge, previsto per la sola attività di demolizione.
POSA IN OPERA O PRESTAZIONE SERVIZI?
Per stabilire quando un’operazione è qualificabile come “cessione con posa in opera”, in quanto tale esclusa dall’ambito applicativo del reverse charge, e quando invece come “prestazione di servizi”, soggetta al meccanismo del reverse charge, occorre fare riferimento alla volontà contrattuale espressa dalle parti: in linea di principio, se il contratto ha come scopo principale la cessione di un bene e l’esecuzione dell’opera è esclusivamente diretta a consentirne la fruizione, senza modificarne la natura, è senz’altro qualificabile quale cessione con posa in opera; viceversa, se scopo del negozio è giungere a un risultato diverso e nuovo rispetto all’insieme dei beni utilizzati per l’esecuzione dell’opera, la prestazione di servizi è da considerare assorbente rispetto alla cessione del materiale.
* Le prestazioni di servizi aventi a oggetto i parcheggi sono escluse dal reverse charge, a meno che questi non costituiscano parte integrante dell’edificio (ad esempio, parcheggi interrati nell’edificio o collocati sul lastrico solare dello stesso).
* Vanno assoggettati a Iva con le modalità ordinarie, senza quindi applicazione del reverse charge, l’attività di derattizzazione, di spurgo delle fosse biologiche, dei tombini e di rimozione della neve.
* In caso di prestazioni di servizi riguardanti impianti posizionati, per necessità funzionali o logistiche, in parte esternamente e in parte internamente all’edificio, per semplificare ed evitare incertezze interpretative, va valorizzata l’unicità dell’impianto posto al servizio dell’edificio, con conseguente applicazione del reverse charge. È il caso, ad esempio, degli impianti: di videosorveglianza perimetrale, dotato di centralina interna e telecamere esterne; citofonico; di climatizzazione, con motore esterno collegato agli split interni; idraulico, con tubazioni esterne.
* Anche le prestazioni di manutenzione e riparazione, anche se non esplicitamente indicate dai codici Ateco della divisione 43 (“Lavori di costruzione specializzati”), vanno assoggettate al meccanismo dell’inversione contabile.
* L’attività di installazione (compresa la manutenzione ordinaria e straordinaria) di impianti fotovoltaici “integrati” o “semi-integrati” agli edifici (ad esempio, se posizionati sul tetto dell’edificio) va assoggettata a reverse charge, così come l’installazione di impianti fotovoltaici “a terra” (realizzati, cioè, su aree di pertinenza di fabbricati), sempre che, benché posizionati all’esterno dell’edificio, siano funzionali o serventi allo stesso.
* Diversamente, non dà luogo all’applicazione dell’inversione contabile l’installazione di centrali fotovoltaiche poste sul lastrico solare o “a terra”, se accatastate autonomamente (in categoria D/1 o D/10).
* L’attività di installazione di porte tagliafuoco e uscite di sicurezza è soggetta al meccanismo dell’inversione contabile. Stessa soluzione per l’installazione, manutenzione e riparazione di impianti di spegnimento antincendio (compresi estintori, manichette e maschere), ma solo se i materiali mobili oggetto di manutenzione fanno parte di un impianto complesso installato su un immobile e la manutenzione si inserisce nel quadro della manutenzione dell’intero impianto.
* Alla riparazione o all’ammodernamento di impianti, anche con sostituzione di parti obsolete o danneggiate (ma non la mera fornitura di beni), si applica il meccanismo dell’inversione contabile, a condizione che i servizi resi siano relativi a edifici, ovvero quando la volontà contrattuale è diretta al conseguimento di una prestazione complessa per il mantenimento in funzione dell’impianto installato, perché prevale la causa del fare sul dare. A maggior ragione, nel caso in cui gli interventi sono tali da configurare un “nuovo impianto”, trattandosi, in concreto, di servizi di installazione.
* Nel caso di installazione di impianti, strettamente funzionali allo svolgimento di un’attività industriale e non al funzionamento dell’edificio, non si applica il meccanismo dell’inversione contabile, in quanto riconducibile al codice Ateco 33.20.09 non ricompreso tra quelli espressamente richiamati dalla circolare n. 14/E del 27 marzo 2015 (da 43.21.01 a 43.29.09), che si riferiscono, invece, a impianti che formano parte integrante dell’edificio e sono a esso serventi.
* Relativamente al commercio di beni, nel cui prezzo è compreso il servizio di installazione e allestimento, la circolare chiarisce che a tali servizi, anche se resi da terzi, su incarico del fornitore o in via autonoma interessati, deve essere applicato il meccanismo dell’inversione contabile.
* La disposizione agevolativa in materia di aliquota Iva, prevista per i beni significativi (cfr. circolare n. 71/2000), riguarda esclusivamente prestazioni effettuate nei confronti dei consumatori finali e non trova, quindi, applicazione nelle ipotesi di cui alla lettera a-ter), sesto comma, dell’articolo 17 del Dpr 633/1972, che riguarda i soli rapporti tra soggetti passivi d’imposta e prevede l’applicazione del reverse charge alle “prestazioni di servizi di pulizia, di demolizione, di installazione di impianti e di completamento”, effettuate nei confronti di soggetti passivi Iva (B2B) se relative a edifici.
* Per quanto attiene alla somma cosiddetta “diritto di chiamata” per interventi di manutenzione, da corrispondere ai tecnici, indipendentemente dall’esecuzione di lavori o meno, si applica il reverse charge, perché la mera “verifica” dell’impianto costituisce già una modalità di “manutenzione”. Lo stesso vale, per analogia, per le prestazioni di manutenzione, che prevedono la corresponsione di un canone di abbonamento periodico, anche non sono correlate a un intervento materialmente eseguito.
* I contributi relativi all’allacciamento e attivazione di servizi, addebitati dalle società di distribuzione di gas, luce e acqua, secondo la Corte di giustizia europea, che considera l’allacciamento individuale come “posa di una conduttura che consente il raccordo dell’impianto di un immobile alle reti fisse di distribuzione (di gas, luce o acqua) e, pertanto, compreso nello stesso servizio di erogazione, non sono riconducibili ad attività di installazione di impianti, con relativa esclusione dall’applicazione delreverse charge.
* Infine, dal momento che l’articolo 17, sesto comma, lettera a-ter), del Dpr 633/1972, produce effetti già per le fatture emesse a partire dal 1° gennaio 2015, la circolare 37/E, nel rispetto dei principi dello Statuto del contribuente, prevede anche una clausola di salvaguardia. Pertanto, considerata la complessità delle questioni e i profili di incertezza, sono fatti salvi eventuali comportamenti difformi adottati dai contribuenti anteriormente all’emanazione del documento di prassi, con conseguente mancata applicazione di sanzioni, ma solo per le specifiche tematiche affrontate purché non rientrino nell’ambito di una frode fiscale.
[A cura di: Giuseppina Balducci, Uppi Foligno]
È con vero piacere che ho accolto la notizia di essere stata nominata, durante il congresso nazionale dell’Uppi del 4 e 5 dicembre a Firenze, componente del Centro studi giuridici dell’Uppi nazionale.
Credo che per poter svolgere questo importante incarico secondo le aspettative di tutti gli associati, io debba intensificare il mio impegno per estendere in tutto il territorio nazionale la possibilità, ancora relativamente attuata, che hanno i Comuni italiani di poter applicare le agevolazioni previste dai contratti di locazione a canone concordato con cedolare secca.
Un importante riconoscimento, tramite l’Uppi di Foligno, è pervenuto in questo senso da parte dell’Agenzia delle Entrate, che ha decretato, mediante l’emanazione del proprio parere positivo ad un apposito interpello, che tutti i Comuni colpiti da calamità naturali hanno diritto a questa agevolazione. E, detto per inciso, è auspicabile che tale agevolazione non riguardi solamente le locazioni abitative, come è adesso, ma che essa sia estesa anche agli immobili destinati ad un uso diverso, cosa per la quale occorrerà mettere in atto un’apposita battaglia.
È chiaro che la crisi incombente può e deve essere combattuta anche con queste agevolazioni che, se applicate in misura maggiore, ridarebbero linfa vitale all’economia nazionale, che ora langue per mancanza di posti di lavoro, per la spinta propulsiva che da una ripresa del mercato immobiliare ne ricaverebbe.
L’Uppi è cresciuta sempre più in questi anni ed ha avuto modo di far conoscere i suoi meriti, e non mancherà, ne sono sicura, di raccogliere tutte le sue forze per promuovere in Parlamento e nelle sedi opportune istanze, come quelle della agevolazioni fiscali riguardanti le politiche sulla casa, idonee a creare un indotto certo per nuovi posti di lavoro e nuove opportunità per tutti
Un vivo ringraziamento voglio rivolgere all’Uppi nazionale, che ha voluto premiare il mio ruolo fin qui svolto; all’Uppi di Firenze, che ha organizzato in maniera impeccabile il congresso nazionale; e ai colleghi presenti, che con i loro interventi hanno arricchito il mio bagaglio di conoscenze professionali.
[A cura di: Confappi]
Un ultraottantenne, residente al quinto piano di un stabile, ha vinto la causa legale avviata contro il condominio che gli bocciava la richiesta di far arrivare fino al suo piano, e a sue spese, l’ascensore che aveva capolinea solo al quarto. Il prolungamento è invece un suo pieno diritto, come ha rimarcato un recente sentenza del Tribunale civile di Milano (n.12791/2015 del 12 novembre) che gli ha dato ragione.
Il contenzioso era nato dalla proposta dell’anziano condomino di innalzare il vano dell’impianto di un ulteriore piano, fino al suo alloggio, il tutto a sue spese, corredata da vari pareri tecnici e specifico progetto. Gli altri condòmini avevano però nicchiato. Si arriva infine all’assemblea straordinaria, che boccia il prolungamento. La maggioranza contesta la fattibilità dell’intervento, ha paura che mini da un lato il decoro del palazzo, edificio di notevole pregio storico e architettonico, dall’altro la stabilità e sicurezza dell’immobile, dalle asserite fragili strutture portanti. L’anziano impugna la delibera, rivolgendosi ai giudici per invocarne l’annullabilità. Da un lato l’articolo 1120 del codice civile, che riguarda le innovazioni vietate, legittime solo se approvate dalla totalità dei condòmini; e dall’altra l’articolo 1102, che autorizza gli interventi che il singolo può realizzare a sue spese, purché non alterino la destinazione della cosa comune e non impediscano agli altri di farne pari uso.
Il tribunale chiarisce che il singolo non ha bisogno di chiedere autorizzazioni all’assemblea, per realizzare innovazioni che rimangano nei binari di entrambi gli articoli: nei limiti di legge, è un inalienabile diritto soggettivo, salvo eventuali circostanziati limiti precisati nel regolamento contrattuale. In ogni caso, spetta ai dissenzienti dimostrare, in concreto, i motivi che ostano all’innovazione. Ma l’assemblea, osserva il giudice, ha respinto la proposta senza fornire l’onere della prova dell’asserito rischio per la stabilità. E ha sostenuto che i lavori avrebbero impedito l’uso dell’ascensore per un po’ di tempo: un problema, dato il grave stato di salute di alcuni condòmini. Ma la circostanza è stata ritenuta dal giudice ininfluente per valutare la legittimità del diniego, e ha accertato il diritto del condomino a fare i lavori, condannando il condominio alle spese di giudizio.
[Fonte: Confappi]
Con sanatorie e varianti – di qualsivoglia concessione edilizia – vanno comunque e sempre rispettate le norme su barriere architettoniche, misure antincendio e infortunistica. Lo ha ribadito una sentenza del Consiglio di Stato (n. 04629/2015 depositata lo scorso 5 ottobre), alla fine di una causa relativa a un’autorimessa interrata di oltre 60 box, costruita in diritto di superficie alla fine degli anni ’90, e di pertinenza di un condominio.
A presentare ricorso, prima al Tar e poi al CdS, che ne ha ribaltato l’orientamento, due fratelli, di cui uno disabile, proprietari di alloggi nell’edificio soprastante alla rimessa e di box pertinenziali, nonché soci della cooperativa che era stata appositamente costituita per realizzare i parcheggi pertinenziali in diritto di superficie, in convenzione.
Il garage era stato costruito in forza di una concessione edilizia del 1998. Quattro anni dopo, otteneva “l’usabilità” dagli uffici comunali che successivamente, però, contestavano alcune difformità. Ad esempio nella rampa pedonale di accesso – il classico scivolo affiancato al passo carraio – il servoscala era stato installato in modo inidoneo rispetto alla vigente normativa antincendio. A valle della contestazione era stata presentata istanza per l’accertamento in sanatoria della conformità.
Il Comune, autorizzate le modifiche, rilasciava la concessione in sanatoria, sicché i due fratelli erano costretti a ricorrere al Tar per contestare l’illegittimità dei due provvedimenti – “usabilità” e sanatoria – e chiederne l’annullamento, restando però soccombenti.
Il CdS ha invece dato loro ragione. I giudici hanno richiamato i tre passaggi normativi-chiave, decisivi per la definizione della controversia. Il decreto ministeriale n. 236 del 14 giugno 1989 che, nel fissare le prescrizioni tecniche necessarie a garantire la accessibilità degli edifici privati ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche, impone espressamente (art 4.6), raccordi con la normativa antincendio: “Qualsiasi soluzione progettuale per garantire la accessibilità o la visitabilità deve comunque prevedere specifici accorgimenti tecnici per contenere i rischi di incendio anche nei confronti di persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale”.
Allo stesso modo, l’art. 80 del Testo Unico dell’Edilizia, nel disciplinare l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati, dispone che l’esecuzione delle relative opere edilizie sia “realizzata in ogni caso nel rispetto delle norme antisismiche, di prevenzione degli incendi e degli infortuni”.
Infine, l’art. 5 del Dpr 37/1998 – che disciplina i procedimenti relativi alla prevenzione incendi – dispone espressamente che “ogni modifica delle strutture o degli impianti ovvero delle condizioni di esercizio dell’attività che comportano un’alterazione delle preesistenti condizioni di sicurezza antincendio, obbliga l’interessato ad avviare nuovamente le procedure previste”, per il rilascio del certificato prevenzione incendi.
Abusi edilizi e nero
Proprietario nei guai
Un proprietario di uno stabile di notevoli dimensioni è stato
denunciato all’Autorità Giudiziaria di Biella per aver affittato mini
appartamenti a diverse persone, senza la stipula di un regolare contratto. Dai
controlli incrociati effettuati dalla Guardia di Finanza è stato accertato che
alcuni degli alloggi erano stati realizzati senza alcuna licenza edilizia.
Oltre all’abuso edilizio, al proprietario è stata poi contestata la violazione
amministrativa in materia di antiriciclaggio, in quanto riceveva dagli
inquilini pagamenti in contanti oltre la soglia consentita dalla legge.
Donna perseguita marito
e finisce ai domiciliari
È stata posta agli arresti domiciliari con l’accusa di stalking
la donna 47enne di Genova che, dalla scorsa estate, perseguitava con minacce
telefoniche e vessazioni il marito, che aveva deciso di lasciarla, proprio per
il suo comportamento violento. A chiamare il 113 era stata la madre
ultrasettantenne di lui, coinvolta suo malgrado nella vicenda dopo che aveva
deciso di riaccogliere il figlio in casa. Quando i militari sono giunti sul posto
hanno colto la donna in flagrante, mentre urlava al citofono contro l’anziana e
il figlio.
Armi invece dei preziosi
Ladri gettano la refurtiva
Pensavano di aver messo a segno un bel colpo i ladri di appartamento
che si sono portati via la cassaforte di una casa di Bordighera. Peccato che al
suo interno ci fossero soltanto le armi da fuoco del padrone di casa. A poche
ore dalla denuncia di quest’ultimo, l’intera refurtiva è stata rinvenuta dai
militari dell’Arma, abbandonata nei pressi di un cantiere edile. Dopo i rilievi
effettuati alla ricerca di elementi utili per rintracciare i ladri, le armi
sono state restituite al legittimo proprietario.
Condominio: la droga
nelle parti comuni
Tre giovani tra i 26 e i 39 anni sono stati arrestati in un condominio
di Prato per spaccio di sostanze stupefacenti. Dopo un lungo lavoro di indagini
e alcune soffiate da parte dei residenti, è scattato il blitz della Squadra
mobile di Prato che ha portato a una serie di perquisizioni e al sequestro di
quasi un chilo e mezzo di hashish. I tre nascondevano la droga nelle pertinenze
comuni del palazzo, in modo che fossero accessibili rapidamente da ciascuno, ma
non riconducibili a nessuno in particolare.
Topi d’appartamento
rubano anche l’auto
Brutta sorpresa per i proprietari di un appartamento alle porte di
Padova, al rientro a casa dopo una giornata di lavoro. I coniugi hanno capito
che era successo qualcosa non vedendo più la loro auto parcheggiata in cortile.
Una volta giunti davanti all’uscio, la porta scassinata è stata la conferma
della recente visita da parte di alcuni ladri d’appartamento. Oltre alle chiavi
della macchina, all’appello mancavano 1300 euro in contati, un iPhone e un
computer portatile.
Lumini per solidarietà:
la casa va in fiamme
Poteva trasformarsi in tragedia l’incidente domestico accaduto alle
porte di Padova, pochi giorni dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre. Per
solidarietà con le vittime, infatti, un’anziana ha deciso di accendere dei
lumini, appoggiandoli sul davanzale della finestra. Nella notte però, le
candele sono scivolate, finendo sulla tenda della terrazza sottostante, che ha
preso fuoco facendo esplodere la porta vetri e riempiendo l’appartamento di
fumo. Sia la donna che il figlio che viveva con lei sono rimasti illesi. La
casa, invece, è stata dichiarata inagibile dai vigili del fuoco.
Rapina in appartamento
Madre e figlia picchiate
Una giovane madre di 38 anni e la figlia di 15 sono
state picchiate nella loro casa in provincia di Monza da due malviventi, “beccati”
mentre tentavano di svaligiare l’appartamento. Le due stavano cenando quando si
sono accorte che dalle stanze da letto provenivano rumori sospetti. A quel
punto la donna ha tentato di bloccare i ladri che hanno reagito scaraventandola
a terra e picchiando sia lei che la figlia. Dopo la colluttazione sono riusciti
a fuggire, per poi essere arrestati dai carabinieri, allertati dalla vittima.
Madre e figlia sono finite al pronto soccorso per le lievi ferite riportate
nella colluttazione.
[A cura di: Uppi Udine]
Quando l’inquilino non paga i canoni e/o le spese condominiali pur
continuando ad occupare l’alloggio è necessario dare corso allo sfratto per
morosità. Tale procedura giudiziaria costituisce l’unico modo legale per
riottenere la materiale liberazione dei locali. Vediamo in dettaglio.
La convalida dello
sfratto
Una volta formalizzato l’incarico all’avvocato, viene dato avvio alla
fase di convalida che è finalizzata al sommario accertamento giudiziario
dell’inadempimento dell’inquilino. Ciò avviene nel corso dell’udienza davanti
al Giudice del Tribunale.
La fase si conclude con la “convalida” dello sfratto e con l’ordine
del Giudice all’inquilino di rilasciare (restituire) l’immobile al proprietario
entro un determinato termine finale che il Giudice stesso indicherà.
Il procedimento di convalida può durare poco … ma non sempre.
La fase di convalida è rapida e si può stimare che, in assenza di
opposizioni da parte dell’inquilino e senza difficoltà di notifica degli atti
giudiziari, l’udienza e l’ordinanza di convalida del Giudice siano ottenibili
in un mese e mezzo circa.
In ogni caso l’inquilino può sanare la morosità pagando, anche
all’udienza, quanto dovuto oltre ad interessi legali e spese di lite liquidate
dal Tribunale: in questo fortunato caso la procedura si estingue.
Il termine di grazia
L’inquilino può tuttavia presentarsi in udienza e chiedere al Giudice
un cosiddetto “termine di grazia” cioè un rinvio (fino ad un massimo di tre
mesi, non prorogabile) per consentire la sanatoria della morosità accumulata:
ciò comporterà ovviamente un corrispondente slittamento dei tempi della
procedura con la fissazione di una nuova udienza per la verifica della
prospettata sanatoria.
Qualora purtroppo la sanatoria non si verifichi (in tutto o in parte)
il Giudice convaliderà lo sfratto e fisserà il termine finale per il rilascio.
L’opposizione
dell’inquilino
Tuttavia l’inquilino ha facoltà di proporre “opposizione”
alla convalida contrastando e contestando le ragioni del locatore.
In tal caso la fase sommaria si “converte” in una vera e propria causa
ordinaria nella quale sarà valutato il merito e la fondatezza delle rispettive
posizioni e la controversia sarà decisa con sentenza.
È evidente che i tempi ed i costi della causa ordinaria scaturita
dall’opposizione alla convalida sono di gran lunga maggiori della fase sommaria.
Qualora le ragioni di opposizione dell’inquilino appaiano però pretestuose e
non adeguatamente documentate, il Giudice può concedere alla prima udienza una
ordinanza di rilascio immediatamente esecutiva, indipendentemente dalla
obbligata prosecuzione della causa nel merito.
La fase esecutiva
Se il conduttore non restituisce l’immobile nemmeno entro il termine
ultimo fissato dal Giudice è necessario avviare la fase di esecuzione forzata.
L’avvocato dovrà preliminarmente procedere ad alcuni adempimenti formali
quali la notifica di copia autentica del titolo esecutivo rilasciato dal
Tribunale e la notifica dell’atto di precetto.
Dopo tutto ciò e dopo aver ancora inutilmente atteso dieci giorni
successivi alla notificazione del precetto si potranno depositare gli atti agli
Ufficiali Giudiziari perchè venga fissato il giorno e l’ora dell’accesso in
loco per la materiale esecuzione forzata dello sfratto.
La individuazione della data di accesso in loco da parte degli
Ufficiali Giudiziari risente naturalmente del carico di lavoro degli uffici,
delle possibili carenze di organico e del numero di esecuzioni già pendenti.
È perciò comprensibile che, al momento, l’attesa dei proprietari sia
destinata a farsi progressivamente sempre più lunga.
Almeno dieci giorni prima dell’intervento in loco dovrà essere
obbligatoriamente notificato all’inquilino un “preavviso” contenente per
l’appunto l’avvertimento dell’imminente arrivo dell’Ufficiale Giudiziario nel
giorno ed ora stabiliti.
Non si può certo dire che la legge non garantisca ampie ed adeguate
tutele e notizie all’inquilino moroso.
Finalmente l’Ufficiale Giudiziario del Tribunale si recherà in loco
per la prima volta per l’allontanamento forzato di chiunque occupi l’immobile,
anche con ricorso alla forza pubblica (Polizia, Carabinieri).
Con la materiale reimmissione del proprietario nel possesso
dell’alloggio e con la redazione del relativo verbale si conclude lo sfratto.
Se al primo accesso non sarà possibile ottenere la liberazione dei
locali, verranno fissati ovviamente ulteriori successivi accessi.
La durata della fase esecutiva dipende, quindi, dalla situazione che
si verifica concretamente sul posto. Ad esempio, l’eventuale presenza di
minori, malati oppure la materiale resistenza delle persone sfrattande con
necessità di intervento della forza pubblica, possono ovviamente rallentare o
far rinviare la procedura, con necessità, come detto, di ulteriori e successivi
accessi.
Quanto costa uno sfratto?
La recente abrogazione delle Tariffe forensi (così come quelle di
tutti i professionisti) per effetto delle norme sulle liberalizzazioni lascia
direttamente alle parti (avvocato e cliente) la definizione e l’accordo sui
compensi professionali.
L’Uppi di Udine ha tuttavia stilato un Protocollo
d’Intesa con i professionisti di fiducia dell’associazione in modo da fissare
in modo chiaro e trasparente l’entità dei compensi per tutte le attività
stragiudiziali e giudiziarie.
[A cura di: avvocato Ermenegildo Mario Appiano – segretario Alac
Torino]
Mediante sentenza del 26 novembre 2015 (in causa n. 05482/2015 Reg.
Prov. Coll., n. 00816/2015 Reg. Ric.), la quinta sezione del Tar di Napoli ha
annullato l’ordinanza con cui il Sindaco del Comune di Scisciano (in provincia
di Napoli) aveva ordinato alla società che gestisce il servizio idrico su detto
territorio di non procedere per motivi sanitari e fino a nuova disposizione, al
distacco dei contatori idrici e alla sospensione dell’erogazione dell’acqua
potabile su tutto il territorio comunale, condotta che detta società intendeva
attuare avverso i soggetti morosi – e soltanto essi! – nel pagamento di quanto
dovuto per l’erogazione dell’acqua potabile.
In sostanza, il Tar della Campania ha chiuso la strada
all’adozione di provvedimenti amministrativi generalizzati e generici in favore
dei soggetti morosi nel pagamento di quanto dovuto per il servizio di
somministrazione dell’acqua potabile, demandando invece alle autorità
amministrative di valutare adeguatamente – caso per caso – chi siano i reali
indigenti che possano beneficiare di detto servizio in base ad agevolazioni
pubbliche.
Nel motivare la propria decisione, il Tribunale amministrativo regionale
ha innanzitutto qualificato il rapporto tra gli utenti e la società gestrice
del servizio idrico come “contratto di somministrazione”, ai sensi
dell’art. 1559 del codice civile. Secondo tale norma, il contratto di
somministrazione è l’accordo “con il quale una parte si obbliga, verso
corrispettivo di un prezzo, a eseguire, a favore dell’altra, prestazioni
periodiche o continuative di cose”.
Il Tar ha poi ricordato che il successivo art. 1565 c.c. dispone che:
“se la parte che ha diritto alla somministrazione è inadempiente e
l’inadempimento è di lieve entità, il somministrante non può sospendere
l’esecuzione del contratto senza dare congruo preavviso”. Di conseguenza,
ha facilmente osservato il Tar, “dalla disposizione in questione si deduce a
contrario che, in caso di inadempimento di non lieve entità, il somministrante
può sospendere l’esecuzione del contratto, fatto salvo in ogni caso l’obbligo
del congruo preavviso alla parte inadempiente”.
Ciò posto circa la qualificazione del rapporto civilistico tra le
parti, il Tar ha poi proseguito il proprio ragionamento rilevando che la carta
del servizio idrico integrato della Regione Campania prevede espressamente che
“in caso di morosità è prevista la sospensione del servizio”, fermo
restando l’obbligo del gestore di sollecitare il cliente a regolarizzare i
pagamenti prima di procedere alla sospensione dell’erogazione dell’acqua.
Considerato dunque che il chiudere i rubinetti ai morosi costituisce
una legittima reazione sul piano civilistico da parte della società erogatrice
del servizio idrico, il Tar ha poi escluso che il Comune interessato possa
intervenire per bloccare tale reazione mediante il provvedimento amministrativo
impugnato, e cioè un’ordinanza “contingibile ed urgente”. Ciò in quanto
siffatto tipo di ordinanze “costituiscono provvedimenti «extra ordinem», in
quanto dotate di capacità derogatoria dell’ordinamento giuridico, al fine di
consentire alla pubblica amministrazione, in deroga al principio di tipicità
dei provvedimenti amministrativi, di sopperire a situazioni straordinarie ed
urgenti non fronteggiabili con l’uso dei poteri ordinari.
Per costante giurisprudenza, presupposti indefettibili delle ordinanze
contingibili ed urgenti sono costituiti:
a) dall’impossibilità di differire l’intervento ad altra data, in
relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente (urgenza);
b) dall’impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo
incombente con gli ordinari mezzi offerti dall’ordinamento giuridico
(contingibilità);
c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in
quanto solo in via temporanea può essere consentito l’uso di strumenti «extra
ordinem», che permettono la compressione di diritti ed interessi privati con
mezzi diversi da quelli tipici indicati dalla legge”.
Nel caso di specie, il Tar ha quindi escluso che il Comune potesse
legittimamente ricorrere a tale tipo di provvedimento, in quanto – leggendo il
testo della motivazione suffragante l’adozione dell’ordinanza annullata – “non
si rinviene nel provvedimento impugnato né il requisito della contingibilità,
non dandosi atto nel provvedimento impugnato della impossibilità di tutelare le
esigenze la salute pubblica dei soggetti morosi-indigenti attraverso il ricorso
alle risorse strumentali e finanziarie proprie dei Comuni (per il tramite dei
servizi sociali), né il requisito della temporaneità, non contenendo l’ordine
impartito nei confronti del gestore del servizio idrico la fissazione di un
termine finale”.
Ancora, ha rilevato il Tribunale, nella fattispecie emergeva la
sussistenza di strumenti amministrativi, alternativi rispetto alla misura
adottata, per fronteggiare l’emergenza sanitaria posta alla base del
provvedimento impugnato. Essi erano costituiti dalla delibera mediante la quale
il Commissario straordinario dell’Ente d’Ambito Sarnese Vesuviano (di cui fa
parte anche il Comune di Scisciano) aveva concesso – confermando una misura già
disposta nel 2014 – agevolazioni tariffarie (cosiddetto “bonus idrico”) in
favore delle famiglie indigenti residenti nei Comuni ove veniva erogato il
servizio idrico oggetto di controversia.
Così decidendo, il Tar ha dunque ritenuto infondata
la motivazione che il Sindaco del Comune di Scisciano aveva fornito a sostegno
dell’ordinanza annullata, il quale – dopo avere premesso che “l’acqua
potabile è un bene pubblico comune, di primaria necessità, di cui non può, per
alcun motivo, esserne vietato ed impedito l’uso e il consumo da parte delle
persone” – aveva emanato detto provvedimento al fine di evitare “l’eventuale,
possibile insorgenza di problematiche di natura igienico-sanitaria”.
[A cura di: Salvatore Tiralongo, FiscoOggi – Agenzia delle Entrate]
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 23555/2015, sostiene che “I contributi ottenuti per le opere di ristrutturazione del fabbricato rurale già esistente devono essere considerati, ai fini fiscali, come contributi in conto capitale, integranti sopravvenienza attiva, tassabile pro quota nell’esercizio in cui gli stessi sono incassati e nei successivi, non oltre il quarto”.
LA VICENDA PROCESSUALE
La vicenda trae origine da un avviso di accertamento – notificato alla società ricorrente – emesso per maggiori Irpef e Irap dovute nell’anno d’imposta 2000, a seguito del recupero a tassazione di sopravvenienze attive. La società aveva ricevuto contributi dall’Ispettorato provinciale dell’agricoltura per la realizzazione di un’azienda turistica.
Contro l’avviso di accertamento la contribuente ricorreva in giudizio dinanzi alla Commissione tributaria provinciale, che accoglieva il ricorso, annullando l’atto impositivo. L’Agenzia delle Entrate presentava ricorso, ottenendo una sentenza favorevole.
In particolare, la Ctr, nell’accogliere il gravame dell’ufficio, aveva sostenuto che, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di primo grado, “le spese di ristrutturazione di un immobile – già esistente -, da adibire ad azienda agricola, ed oggetto di contributi ottenuti quali spese per la costruzione ex novo di un fabbricato”, tenuto conto della modifica operata dalla legge 449/1997, articolo 21, comma 4, lettera b), a partire dal 1/01/1998, all’articolo 55, comma 3, lettera b), del Tuir, non possono considerarsi contributi in conto impianti, dovendo questi essere erogati esclusivamente per l’acquisto di beni ammortizzabili, e devono pertanto ricomprendersi tra quelli in conto capitale, con conseguente sopravvenienza attiva dell’impresa, tassabile pro quota”.
I giudici avevano respinto l’appello incidentale della contribuente in ordine alla presunta violazione dell’articolo 7 dello Statuto del contribuente, in quanto il processo verbale di contestazione richiamato nell’atto impositivo, ma non allegato, era comunque conosciuto dalla contribuente, essendole stato in precedenza notificato.
La società propone ricorso per cassazione, impugnando la sentenza di appello con la quale erano state accolte le doglianze dell’Amministrazione finanziaria.
PRONUNCIA DELLA CASSAZIONE
La ricorrente lamenta, con unico motivo, la violazione e falsa applicazione, ex articolo 360 c.p.c., n. 3, dell’articolo 55, comma 3, lettera b, del Dpr 917/1986, come modificato dall’articolo 21, comma 4, legge 449/1997, non avendo i giudici della Ctr ritenuto che “i finanziamenti ottenuti per la ristrutturazione di un fabbricato rurale e per l’acquisto di attrezzature ed arredi debbono essere considerati fiscalmente contributi in conto impianti, in quanto strettamente correlati all’onere di effettuare uno specifico investimento in beni ammortizzabili”.
La Suprema corte ritiene la censura infondata.
Nel testo dell’articolo 55, comma 3, lettera b, si è specificato che i proventi in denaro conseguiti a titolo di contributi rappresentano sopravvenienze attive, con esclusione di quelli finalizzati all’acquisto di beni ammortizzabili (vale a dire, i contributi in conto impianti), indipendentemente dal tipo di finanziamento adottato.
La Cassazione definisce i contributi in conto impianti quali contributi finalizzati all’acquisizione di beni materiali o immateriali ammortizzabili ai sensi del Dpr 917/1986, articoli 102 e 103 (ex articoli 67 e 68), qualunque sia la modalità di erogazione degli stessi: attribuzione di somme in denaro, riconoscimenti di crediti di imposta o altro. Diversamente, i contributi in conto capitale sono somme erogate per aumentare i mezzi patrimoniali dei soggetti beneficiari, senza perciò che la loro concessione si correli all’onere dell’effettuazione di uno specifico investimento.
Conformemente a quanto già in precedenza affermato (anche con la sentenza numero 781/2011), i giudici di legittimità evidenziano che “la scienza economica ha individuato la ulteriore categoria dei contributi misti, cioè concessi al fine generico di potenziare l’apparato produttivo, che in genere vengono qualificati quali contributi in conto capitale, in quanto mancherebbe una specifica correlazione con l’acquisto di beni ammortizzabili”.
A parere della Cassazione, di fronte a “contributi concessi in relazione a piani di investimento complessi che comprendono sia spese di acquisizione di beni strumentali ammortizzabili, sia spese di diversa natura, sempreché non ci siano dei criteri oggettivi che consentano la ripartizione del contributo tra le varie voci, l’intero importo del contributo stesso dovrebbe essere assoggettato alla disciplina dei contributi in conto capitale”.
Il collegamento dei contributi ai costi (che rende operativo il criterio di competenza) emerge dalla circostanza che la norma suindicata prevede che il contributo in conto impianti debba essere necessariamente collegato “all’acquisto di beni ammortizzabili”.
Secondo la Cassazione, i contributi che non hanno tale caratteristica (ad esempio, perché relativi all’acquisto di beni non ammortizzabili o per interventi su beni già ammortizzati) sono considerati plusvalenze, tassabili col criterio di cassa, e ciò è conforme alla ratio economica che ne esclude il diretto collegamento con i costi.
CONCLUSIONI
La Corte di cassazione, nel respingere il ricorso, afferma che la Ctr, rilevando che “le opere di ristrutturazione, cui si riferivano i contributi in contestazione, erano dirette quantomeno a potenziare una struttura già esistente e non anche ‘all’acquisto ex novo’ di beni ammortizzabili, ha correttamente ricompreso i contributi in oggetto tra quelli in conto capitale, integranti ‘sopravvenienza attiva’, tassabile pro quota nell’esercizio in cui gli stessi sono incassati e nei successivi, non oltre il quarto, con conseguente legittimità dell’accertamento per omessa dichiarazione di sopravvenienze attive”.
[Fonte: Nuovo FiscoOggi – Agenzia delle Entrate]
La fruizione delle agevolazioni tributarie derivanti dall’acquisto della prima casa è collegata dall’articolo 2 del D.L. n. 12 del 1985 alla possibilità di includere gli immobili trasferiti, “indipendentemente dalla data della loro costruzione”, fra le abitazioni non di lusso secondo i criteri di cui al D.M. 2 agosto 1969.
La Cassazione, con la sentenza 23233 del 13 novembre 2015, ha ribadito che l’articolo 10 del citato D.M., a tenore del quale “alle abitazioni costruite in base a licenza di costruzione rilasciata in data anteriore a quella di entrata in vigore del presente decreto si applicano le disposizioni di cui al D.M. 4 dicembre 1961”, non va inteso come funzionale alla separazione cronologica, nella definizione legislativa, di due diverse specie di “abitazioni non di lusso”, ma come semplice regolamentazione transitoria dell’unica fattispecie ivi prevista, relativa alle abitazioni in corso di costruzione (ovviamente “in base a licenza di costruzione rilasciata in data anteriore”) all’entrata in vigore del decreto ovvero a quelle costruite successivamente ma “in base a licenza di costruzione rilasciata in data anteriore” (cfr. Cassazione, n. 13064/06; n. 16366/08; n. 5691/14; n. 24683/14).
Peraltro, anche nella vigenza dell’articolo 1 della tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, come modificato dall’articolo 16 del D.L. n. 155 del 1993, convertito con modificazioni dalla Legge n. 243 del 1993, ancorché non sia stato riprodotto l’inciso “indipendentemente dalla data della loro costruzione”, va ribadito il principio per cui, secondo ragionevolezza ed equità contributiva, al fine di stabilire la spettanza o meno dell’agevolazione, occorre far riferimento alla nozione di abitazione non di lusso vigente al momento dell’acquisto, e non a quello della costruzione (cfr. Cassazione n. 17600/10; n. 21791/12).