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CONDIZIONATORE ESTERNO. SENZA SCIA, PAGANO ANCHE I NUOVI PROPRIETARI

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, con sentenza n. 10826 del 14 agosto 2015, ha stabilito che, nel caso in cui non venga presentato il modello Scia per un intervento di installazione di un condizionatore con unità esterna, sono tenuti al pagamento della sanzione amministrativa anche gli eventuali nuovi proprietari che hanno acquistato l’appartamento dopo la realizzazione dell’intervento.  

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TAR DEL LAZIO

Sez. I quater, Sent. 14.8.2015,

n. 10826

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Fatto e diritto

Con ricorso notificato in data 10 marzo 2009 i ricorrenti impugnano il provvedimento indicato in epigrafe con il quale è stata determinata in Euro 516,00 la sanzione amministrativa dovuta per l’istallazione di due condizionatori senza aver presentato la prescritta D.I.A.

L’impugnazione, già proposta davanti al Tribunale civile di Civitavecchia, è stata traslata davanti a questo Giudice a seguito della dichiarazione di difetto di giurisdizione in capo al giudice ordinario secondo la sentenza n. 168/2009 del Tribunale di Civitavecchia.

Con il ricorso si assume in primo luogo l’estraneità della società ricorrente e di A.M. rispetto al fatto contestato, che non sarebbe loro imputabile essendo l’installazione dei condizionatori riferibile ad epoca precedente l’acquisizione, da parte dei predetti, della disponibilità dell’immobile.

Si deduce poi difetto di motivazione, difetto dei presupposti, illogicità, sviamento, violazione della legge 689/81, considerato il tempo trascorso dalla realizzazione dell’abuso, asseritamente in data precedente all’anno 1993, quindi addirittura in epoca precedente all’entrata in vigore del dpr 380/01, dell’art. 22 TUE e della legge 662/96.

Inoltre, secondo i ricorrenti, sarebbe maturata la prescrizione della sanzione ex art. 28 delle legge 689/81.

Si è costituito in giudizio il Comune di Civitavecchia per resistere al gravame.

Alla pubblica udienza del giorno 21 maggio 2015 la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione nel merito.

Preliminarmente il Tribunale osserva che gli effetti giuridici, sostanziali e processuali, della domanda devoluta al giudice privo di giurisdizione si conservano nel giudizio proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione, in forza degli art. 24, 111 e 113 cost., quando la domanda, proposta tempestivamente innanzi al giudice privo di competenza giurisdizionale, sia tempestivamente riassunta innanzi al giudice fornito di giurisdizione; ed invero, siccome chiarito anche dal giudice delle leggi, la funzione di rendere praticabile la translatio iudicii con la conservazione degli effetti della domanda proposta al giudice risultato privo di giurisdizione, non può ritenersi affidata ad un ricorso proponibile in ogni tempo e, quindi, anche anni dopo il manifestarsi del conflitto; di conseguenza il termine perentorio per la riassunzione, per le fattispecie antecedenti alla disciplina legislativa sulla translatio iudicii di cui all’art. 59, l. 18 giugno 2009 n. 69, deve individuarsi, facendo applicazione, in via analogica dell’art. 50 c.p.c. che, nella versione ratione temporis vigente, prevedeva un termine di sei mesi dalla comunicazione dell’ordinanza che dichiara l’incompetenza del giudice adito.

Nel caso di specie il difetto di giurisdizione è stato dichiarato dal Tribunale di Civitavecchia con sentenza in data 5.2.2009, mentre il ricorso impugnatorio davanti a questo Giudice è stato notificato in data 10 marzo 2009, cosicchè può essere ritenuto tempestivo rispetto al termine sopra menzionato.

Nel merito il ricorso è infondato.

In primo luogo il Collegio osserva che è indifferente ai fini della legittimità della misura sanzionatoria adottata l’individuazione dell’effettivo responsabile dell’abuso, perché le sanzioni pecuniarie di cui all’art. 10 della legge n. 47/85 e norme successive, per il loro carattere ripristinatorio (e non punitivo), hanno natura reale e ben possono essere comminate nei confronti di coloro che, a vario titolo, hanno la disponibilità dell’immobile, ovvero a carico del proprietario, a prescindere da ogni verifica sull’imputabilità del fatto , già in ragione della omessa adozione di iniziative volte al ripristino della legalità violata.

Va poi ricordato che l’ordinamento non assoggetta ad un regime di prescrizione l’esercizio dei poteri di controllo e di sanzione da parte delle amministrazioni competenti in materia urbanistico-edilizia e paesistica: dimodochè l’accertamento dell’illecito amministrativo urbanistico-edilizio e paesaggistico, nonché applicazione delle relative sanzioni, possono intervenire anche dopo il decorso di un rilevante lasso temporale dalla consumazione dell’abuso, al quale deve riconoscersi natura permanente, con la conseguenza che esso cessa soltanto dopo la materiale esecuzione della sanzione ( cfr. di recente Consiglio di Stato , sez. V, 08/04/2014 n.1650).

Del resto, l’asserita risalenza delle opere contestate all’anno 1993 costituisce affermazione di parte ricorrente non assistita da alcun principio di prova, a fronte delle risultanze del verbale redatto dalla Polizia Municipale in atti; mentre non vi è dubbio che l’installazione di condizionatori, che incida sul prospetto dell’immobile, costituisca attività edilizia soggetta a d.i.a. (ora s.c.i.a.) dovendo risultare conforme alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi.

Legittimamente dunque l’amministrazione ha proceduto ad irrogare la sanzione ex art. 37 del dpr 380/81 ( e di cui alla corrispondente fattispecie della legge 47/85) in relazione ad attività edilizia eseguita in assenza di alcun titolo abilitativo benché soggetta al regime della d.i.a..

Il provvedimento impugnato appare quindi correttamente ed adeguatamente motivato, anche in considerazione della natura vincolata degli atti repressivi degli abusi edilizi.

Conclusivamente il ricorso deve essere respinto siccome infondato.

Le spese di lite possono essere compensate fra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

CLAUSOLE SALVAGUARDIA. SI RISCHIA UN AUMENTO DELLE TASSE PER 1,4 MLD

A mettere in guardia il Governo sulla copertura necessaria a sostenere il taglio delle Tasse, annunciato da ultimo a Cernobbio, ci prova anche la Cgia di Mestre. Secondo l’associazione degli artigiani e dei piccoli imprenditori comincerebbero a evidenziarsi le prime questioni: come noto, entro la fine del mese di settembre dovranno essere emanati due provvedimenti legislativi per sterilizzare altrettante clausole di salvaguardia, per un importo complessivo di 1,4 miliardi di euro.

Diversamente, sostiene l’Ufficio studi della Cgia, dal primo ottobre scatteranno gli aumenti delle accise sui carburanti e degli acconti di novembre di Irap e Ires sulle imprese.

Dichiara Paolo Zabeo della Cgia: “Siamo certi che il Governo Renzi non avrà problemi a reperire questi 1,4 miliardi di euro. Molto più difficile – prosegue – sarà recuperarne altri 16 per sterilizzare gli effetti economici delle clausole di salvaguardia per l’anno venturo. Risorse che l’esecutivo dovrà individuare entro la fine di quest’anno, probabilmente con la prossima legge di Stabilità. Pertanto, va benissimo togliere le tasse sulla prima casa. Tuttavia, è necessario essere chiari e dire dove si troveranno le coperture per scongiurare l’aumento dell’Iva, delle accise e degli acconti Irap/Ires, per abolire la Tasi ed eventualmente anche l’Imu sull’abitazione principale e, infine, per scongiurare la riduzione delle detrazioni e deduzioni fiscali”.

Se la prima clausola, che andrà in scadenza entro il prossimo 30 settembre, è stata introdotta qualche mese fa a seguito della mancata autorizzazione da parte dell’Unione europea all’estensione del “Reverse charge” alla grande distribuzione (misura prevista con la legge di Stabilità 2015), la seconda risale addirittura all’agosto del 2013, quando a Palazzo Chigi c’era (da quattro mesi) Enrico Letta. In quell’occasione, ricordano dalla Cgia, l’Esecutivo confermò l’abolizione della prima rata dell’Imu del 2013. Per reperire le risorse necessarie, si ridussero le previsioni di spesa e si fece ricorso al gettito incassato dalla sanatoria accordata ai concessionari dei giochi (definizione agevolata dei giudizi di responsabilità amministrativa per i concessionari dei giochi) e al maggior gettito Iva generato dal pagamento dei debiti pregressi della Pubblica amministrazione. A fronte di 1,52 miliardi di euro attesi da queste due misure, furono incassati solo 880 milioni di euro. Pertanto, per reperire i rimanenti 640 milioni di euro, fu introdotta una clausola di salvaguardia che disponeva l’aumento gli acconti Ires e Irap di 1,5 punti percentuali. La clausola di salvaguardia prevedeva anche l’incremento delle accise a partire dal 1 gennaio 2015, per un importo complessivo di 671,1 milioni di euro. Aumento che non si verificò poiché il Governo Renzi, con il DL 192/2014, recuperò le risorse necessarie dalla “Voluntary disclosure”.

Se le entrate derivanti da questa misura non saranno sufficienti, avverte ancora la Cgia, entro il 30 settembre scatterà una nuova clausola che aumenterà gli acconti Ires e Irap per il periodo di imposta 2015 e, a partire dal 2016, anche gli importi delle accise.

ACQUA CONDOMINIALE: COME VANNO RIPARTITE LE SPESE

[Fonte AnapiNews] 

La sentenza 17557/14 della Cassazione ha fatto chiarezza sulla disciplina del pagamento dell’acqua condominiale. Il caso preso in esame dalla Cassazione è quello di un condominio di Milano. La Corte ha dichiarato illegittimo quanto votato a maggioranza dall’assemblea che ripartiva le spese per l’acqua potabile in base al numero dei residenti negli interni delle singole unità abitative dello stabile esonerando dal pagamento, quindi, le unità abitative in cui non risiedeva nessuno. Secondo i Giudici “…le spese relative al consumo dell’acqua devono essere ripartite in base all’effettivo consumo se questo è rilevabile oggettivamente con strumentazioni tecniche”, altrimenti il criterio per dividere le spese è quello indicato dal primo comma dell’articolo 1123 del C.C., vale a dire in base alla tabella millesimale. Se si contraddice questo articolo del Codice Civile e, quindi si esonerano dal pagamento delle spese idriche gli appartamenti/locali non abitati o sfitti, allora si vìola il principio di ripartizione proporzionale stabilito dal Codice. In sostanza la condicio sine qua non per dividere le spese idriche del condominio in base alle persone residenti nelle singole unità abitative è l’assenso di tutti i proprietari dell’immobile. Solo in questo caso si può derogare all’art. 1123 C.C., ma la sola maggioranza dell’assemblea, per quanto ampia, renderebbe nulla la delibera stessa. Bisogna considerare, inoltre, che la ripartizione in base al numero di persone è un criterio impreciso perché è complicato conoscere con certezza i residenti effettivi nei vari alloggi.

Per evitare spiacevoli inconvenienti nella gestione delle spese e salvaguardare una risorsa di importanza essenziale come l’acqua e, quindi diminuirne gli sprechi, la Giurisprudenza ha scelto come soluzione al problema, il montaggio in ogni proprietà di un contatore. 

Con la sentenza precedente, la n° 10895, la Corte di Cassazione ha dichiarato che l’assemblea di condominio può deliberare l’installazione dei contatori dell’acqua in ogni singola unità immobiliare, anche in contrasto con il Regolamento condominiale. Stando a queste disposizioni, è nella facoltà dell’assemblea condominiale gestire le cose e i servizi comuni «in modo dinamico», ossia eliminando gli sprechi, arrivando a dismettere alcuni beni comuni, nonostante la disciplina del Regolamento condominiale sia contrastante.

Le motivazioni che hanno spinto la Corte di Cassazione ad esprimersi in questo modo vanno viste alla luce di quanto enunciato dalla Legge n° 36 del 1994, «Disposizioni in materia di risorse idriche» che, all’articolo 5, al fine di abbassare i consumi di acqua e farne un uso più razionalizzato, stabilisce ai capi C e D:

c) installazione di contatori in ogni singola unità abitativa nonché di contatori differenziati per le attività produttive e del settore terziario esercitate nel contesto urbano;

d) diffusione dei metodi e delle apparecchiature per il risparmio idrico domestico e nei settori industriale, terziario ed agricolo.

La tutela della risorsa idrica è ribadita due anni più tardi nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, DPCM 4 marzo, poi ripreso dal Decreto legislativo 152/2006 che demanda alle Regioni l’obbligo di installare in ogni unità abitativa i contatori per la ripartizione dell’acqua.

Solo avendo ben chiaro questo excursus è possibile cogliere lo spirito della legge a cui fanno riferimento la sentenze 17557 e 10895 del 2014. 

Va precisato che i modi d’uso e il funzionamento dei servizi condominiali sono attribuiti all’assemblea condominiale dall’articolo 1135 del Codice Civile, quindi nel caso specifico i condòmini possono optare per i contatori in ogni singola unità abitativa, è necessario avere solamente la maggioranza semplice, vale a dire un terzo dei condòmini che possegga almeno un terzo del valore millesimale in quanto la modifica dell’impianto dell’acqua è volta a un miglior godimento e non rappresenta un’innovazione ai sensi dell’articolo 1120 del Codice Civile.

ASSEMBLEA CONDOMINIALE: SPETTA AL CONDOMINIO VERIFICARE LA CONVOCAZIONE

L’avviso di giacenza della raccomandata con la quale di dava l’avviso di convocazione dell’assemblea straordinaria di condominio non basta a provare la tempestiva comunicazione dell’avviso stesso ai condòmini. Inoltre, è onere del condominio provare non solo la spedizione, ma anche che l’avviso di giacenza (adempimento che consente di acquisire conoscenza dell’invio della comunicazione e la conoscibilità del suo contenuto) sia stato immesso nella cassetta postale del destinatario. Lo ha stabilito la Corte suprema di Cassazione, annullando la sentenza della Corte d’Appello di Brescia n.797 del 2012, circa il ricorso presentato da un amministratore di condominio che si era visto annullare precedentemente dal Tribunale di Bergamo una delibera condominiale nei confronti di alcuni condòmini.

Di seguito sono riportati i motivi della decisione.

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CORTE DI CASSAZIONE

Sez. VI civ., Ord. 23.6.2015,

n. 13015

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – MOTIVI DELLA DECISIONE

Ritenuto che il precedente relatore designato alla trattazione del ricorso ha depositato la seguente relazione ai sensi dell’art. 380- bis cod. proc. civ.:…

1. Il Tribunale di Bergamo, con sentenza del 16/5/2007, su ricorso dei condomini T.G., C. A. e A.R., annullava una delibera del Condominio Omissis in quanto quest’ultimo non aveva provato di avere tempestivamente comunicato al T. l’avviso di convocazione dell’assemblea straordinaria del 22/3/2006. La Corte di Appello di Brescia con sentenza accoglieva l’appello del Condominio e rigettava la domanda di annullamento dei condomini ricorrenti condannandoli alle spese del doppio grado. La Corte di appello riteneva provata la tempestiva comunicazione dell’avviso di convocazione cosi motivando: “è incontestato che tutti i condomini hanno ricevuto l’avviso in data 13/3/2006, entro i1 termine e che al condomino T. G., non reperito all’atto della consegna, è stato invece lasciato in pari data un avviso di giacenza” (pag. 11). “… essendo stato adeguatamente provato l’avvenuto recapito da parte di Omissis, incaricata della consegna, dell’avviso di giacenza della lettera raccomandata… inserita nella cassetta delle lettere del condomino T.” (pag. 12); – “… la conoscenza dell’avviso di convocazione risulta già provata dall’immissione nella cassetta della posta del destinatario” (pag. 13). T.G., ha proposto ricorso affidato a due motivi. Il condominio ha resistito con controricorso.

2. Preliminarmente, si osserva che non risulta notificato il ricorso anche ai condomini C. e A. che pure erano parti costituite nel giudizio di appello e non estromesse. Ne consegue che dovrà essere ordinata l’integrazione del contraddittorio.

3. Ove il Collegio dovesse ritenere superabile questo preliminare rilievo, non merito si osserva quanto segue.

4. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente deduce il vizio di motivazione in ordine alla prova dell’immissione nella sua cassetta delle lettere dell’avviso di giacenza della raccomandata con la quale si dava avviso di convocazione dell’assemblea straordinaria del 22/3/2006. Il ricorrente sostiene: – di avere sempre contestato di avere ricevuto l’avviso di convocazione; – di avere ricevuto l’avviso di giacenza solo dopo che si era tenuta l’assemblea; – di avere dedotto, nella comparsa di costituzione in appello, di non avere trovato avviso di deposito nella cassetta delle lettere; – che era onere del condominio provare la rituale comunicazione dell’avviso di convocazione; – che la Corte di appello non poteva ritenere incontestato e provato che fosse stato lasciato avviso di giacenza.

5. Il motivo è manifestamente fondato. Dalla lettura della sentenza di appello (v. supra i brani, riportati in corsivo, della motivazione che affrontano il tema della prova dell’immissione dell’avviso di giacenza nella cassetta delle lettere del T. risulta del tutto incomprensibile l’iter logico-giuridico che ha condotto il giudice di appello ad affermare che era adeguatamente provato l’avvenuto recapito da parte di Omissis, incaricata della consegna, dell’avviso di giacenza della lettera raccomandata. … Inserito nella cassetta delle lettere del condomino T.. l’avviso di convocazione era stato spedito a mezzo posta e, pacificamente, non consegnato (al) destinatario, con la conseguenza che era onere del condominio provare non solo la spedizione, ma anche che l’avviso di giacenza (adempimento che consente di acquisire conoscenza dell’invio della comunicazione e la conoscibilità del suo contenuto) fosse stato immesso nella cassetta postale del destinatario.

6. Resta assorbito dal rigetto dall’accoglimento del primo motivo (e dalle ragioni del suo accoglimento) il secondo motivo che censura la decisione sotto il diverso profilo della violazione dell’art. 115 c.p.c. e artt. 1335 e 2697 c.c..

7. In conclusione il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 380 bis e 375 c.p.c. per essere dichiarato manifestamente fondato. Letta la memoria depositata dal controricorrente. Considerato che il Collegio ritiene necessaria la integrazione del contraddittorio nei confronti di C.A. e A. R., parti di entrambi i gradi di merito; che a tal fine va assegnato il termine di sessanta giorni dalla comunicazione della presente ordinanza, e va disposto il rinvio a nuovo ruolo della causa, disponendosi sin d’ora la trasmissione del ricorso alla Sezione Seconda.

P.Q.M.

La Corte ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti di C.A. e A.R.; assegna a tal fine il termine di sessanta giorni dalla comunicazione della presente ordinanza; dispone il rinvio della causa a nuovo ruolo e la sua trasmissione alla Seconda Sezione. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione sesta civile – 2 della Corte suprema di cassazione, il 21 maggio 2015.

LE SPESE PER LA CASA AUMENTATE DEL 110% IN 20 ANNI

[Fonte: Confcommercio] 

Sono quelle relative alla casa (affitto, bollette, tassa rifiuti e imposte locali) le voci di spesa che incidono maggiormente sul bilancio delle famiglie italiane, arrivando ad assorbire circa il 24% dei consumi complessivi. Stando a quanto emerso dall’analisi realizzata dall’Ufficio Studi di Confcommercio sulle spese delle famiglie italiane negli ultimi 20 anni, le cose non sono sempre andate così, ma sono peggiorate nel corso degli anni. Basti pensare che dal 1995 a oggi, la spesa pro capite relativa all’abitazione è passata da poco più di 1900 euro agli attuali 4012 euro, segnando un aumento quasi esponenziale del 110%.

Nel valutare i mutamenti intervenuti nelle decisioni di spesa delle famiglie, sia in termini qualitativi sia quantitativi, lo studio distingue tra le spese obbligate e spese commercializzabili, dando un’indicazione aggiuntiva di come le famiglie, al di là di quanto suggerito della diminuzione quantitativa dei consumi, abbiano sperimentato una sensibile diminuzione del benessere da loro fruito.

Negli ultimi venti anni la spesa delle famiglie si è progressivamente spostata verso i consumi obbligati, inclusivi degli affitti imputati (che corrispondono alla spesa teorica per l’affitto attribuita alle famiglie che vivono in case di proprietà). Queste spese assorbono ormai il 42% circa delle spese familiari. Nello stesso periodo è aumentata la quota destinata ai servizi il cui consumo rappresenta una libera scelta (dal 17,4% del 1995 al 21,4% del 2015) fenomeno ascrivibile alla tendenza alla terziarizzazione dei consumi. Queste dinamiche hanno compresso l’area delle spese destinate ai beni cosiddetti commercializzabili in cui rientrano molte funzioni di consumo considerate mature (alimentari, abbigliamento, mobili ecc.). Se lo spostamento di quote di spesa da prodotti a servizi è un fenomeno fisiologico nelle economie avanzate, anche per l’emergere di nuovi bisogni “immateriali”, meno lo è l’avanzamento di quote di consumi che non rappresentano una libera scelta dei cittadini legata al soddisfacimento dei bisogni individuali e/o familiari. Categorie e gruppi di spesa che costituiscono gli aggregati dei consumi obbligati e dei consumi commercializzabili: consumi obbligati e affitti imputati – fitti effettivi, fitti imputati, manutenzione e riparazione dell’abitazione, acqua e altri servizi per l’abitazione, energia elettrica, gas ed altri combustibili, sanità, spese d’esercizio dei mezzi di trasporto esclusi i combustibili, combustibili e lubrificanti, assicurazioni, protezione sociale, servizi finanziari, altri servizi n.a.c.; consumi commercializzabili – alimentari, bevande alcoliche e non alcoliche, tabacco, vestiario e calzature, mobili elettrodomestici e manutenzione casa, acquisto di mezzi di trasporto, apparecchiature per la telefonia, articoli audiovisivi, fotografici, computer ed accessori, altri beni durevoli per la ricreazione e la cultura, altri articoli ricreativi ed equipaggiamento, fiori, piante ed animali domestici, libri, giornali ed articoli di cancelleria, apparecchi, articoli e prodotti per la cura della persona, effetti personali n.a.c., servizi di trasporto, servizi postali, servizi di telefonia, servizi ricreativi e culturali, vacanze tutto compreso, pubblici esercizi, servizi alberghieri ed alloggiativi, barbieri, parrucchieri e saloni e altri servizi per la persona, istruzione. La situazione, già evidente negli anni ’90 e nella prima parte dello scorso decennio, si è acuita con l’emergere della crisi economica e con l’adozione di politiche che hanno determinato un aumento della pressione fiscale, fattori che hanno fortemente limitato le disponibilità delle famiglie (il reddito disponibile reale è sceso, complessivamente, tra il 2007 e il 2014 del 10,6% e del 14,1% in termini pro capite). Con l’attenuarsi della fase recessiva la tendenza alla progressiva espansione della quota di spesa destinata ai consumi obbligati da parte delle famiglie sembra essersi arrestata segnalando, nelle nostre stime, una contenuta diminuzione tra il 2013 ed il 2015. Questa evoluzione sembra avvantaggiare gli acquisti di servizi commercializzabili. Analizzando più nel dettaglio quanto accaduto tra il 1995 e oggi si rileva come l’aumento della quota destinata alle spese obbligate sia ascrivibile in larga misura alla componente relativa all’abitazione è cresciuta del 110%, arrivando ad assorbire oltre il 24% della spesa. Per quanto riguarda la parte relativa alle spese che attengono alle scelte individuali e familiari la decisa riduzione della quota destinata ai beni, circa 10 punti percentuali in meno rispetto al 1995, è sintesi di andamenti molto diversificati. L’affermarsi di nuove forme di comunicazione ha sostenuto la spinta per i prodotti della telefonia, dinamica che, in un contesto di riduzione delle risorse a disposizione delle famiglie, ha determinato un’ulteriore compressione di consumi di prodotti più tradizionali. Tra questi, particolarmente penalizzate sono state le spese relative all’alimentazione domestica (inclusiva delle bevande alcoliche e non) la cui incidenza è scesa di quasi tre punti percentuali. Le dinamiche sopra descritte tengono conto sia di quanto avvenuto dal lato delle quantità sia da quello dei prezzi. Focalizzando l’attenzione sull’evoluzione dell’inflazione dei tre sottoinsiemi dei consumi presi in esame si rileva come parte dell’aumento dell’incidenza delle spese obbligate sia derivata dalle dinamiche dei prezzi. In tutto l’arco temporale osservato questa componente della domanda ha mostrato una dinamica decisamente più sostenuta rispetto a quanto rilevato per il complesso dei beni e servizi commercializzabili. Ponendo uguale a 100 i prezzi nel 1995, quelli delle spese incomprimibili si attestano nel 2015 a 182,8, a fronte del 136,7 dei consumi commercializzabili. Anche nel caso dei prezzi gli aumenti più rilevanti hanno interessato l’abitazione, non solo per effetto delle variazioni intervenute sul mercato immobiliare negli anni antecedenti la crisi, che si sono riflesse sia sugli affitti reali che su quelli imputati, ma anche per i prezzi di quei beni e servizi, quali l’acqua e lo smaltimento rifiuti, gestiti a livello locale e aumentati negli ultimi 20 anni di oltre il 130%. Particolarmente sostenuta è stata anche la dinamica dei prezzi relativi alle assicurazioni ed ai carburanti, segmento che sembra conoscere nei periodi più recenti un’attenuazione delle dinamiche inflazionistiche. La tendenza a una crescita più accentuata dei prezzi relativi alle spese obbligate attraversa tutti gli ultimi 20 anni evidenzia molto chiaramente il drenaggio di risorse operato da un’evoluzione inflazionistica dei beni e servizi obbligati nettamente superiore al dato medio.

CONDOMINI MINIMI: IL BONUS NON SI PERDE GRAZIE AL CODICE FISCALE

[A cura di Paola Pullella Lucano – Nuovo FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]

Il quadro: tre fratelli, un edificio con tre appartamenti (ognuno di proprietà esclusiva di ciascuno di essi) e parti comuni, su cui nel 2014 sono stati effettuati interventi di recupero, pagati dai proprietari pro-quota con bonifico bancario. Ma, riguardo a tale tipologia di lavori, già nel 1998, quindi fin dall’entrata in vigore della legge istitutiva (la 449/1997), l’allora ministero delle Finanze aveva precisato che la fruizione dell’agevolazione è subordinata alla circostanza che sia il condominio l’intestatario delle fatture e l’esecutore, tramite l’amministratore o uno dei condòmini, degli adempimenti richiesti dalla normativa.

 

Nel nostro caso, quindi, l’accesso allo sconto fiscale sembrerebbe precluso. Non è così: la soluzione è nella risoluzione n. 74/E del 27 agosto 2015, dove l’Agenzia delle Entrate osserva che, avendo i contribuenti in questione eseguito i pagamenti con la procedura giusta per la fruizione del bonus ristrutturazioni, cioè con apposito bonifico “parlante”, è stato regolarmente rispettato l’obbligo, in capo all’istituto bancario o a Poste, di operare la prescritta ritenuta dell’8% sulle somme accreditate (articolo 25 del Dl 78/2010).

Però, la stessa Agenzia, nella circolare 11/2014, aveva ribadito che, per fruire della detrazione relativa a spese su parti comuni, anche i condomìni minimi, quelli con non più di otto condòmini (che non hanno l’obbligo di nominare un amministratore), devono richiedere l’attribuzione del codice fiscale.

 

Tanto premesso, appare chiaro che il tassello mancante al buon fine è soltanto il codice fiscale del condominio. Pertanto, entro il termine della presentazione della dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2014, in cui sono state sostenute le spese, è necessario:

presentare a un ufficio territoriale dell’Agenzia delle Entrate la domanda di attribuzione del codice fiscale al condominio, tramite modello AA5/6

versare mediante F24 (codice tributo 8912), a nome del condominio, con indicazione del cf attribuito, la sanzione minima di 103,29 euro, per omessa richiesta del codice fiscale

inviare una comunicazione in carta libera all’ufficio delle Entrate competente in relazione all’ubicazione del condominio.

Nella comunicazione, unica per tutti i condòmini, devono essere specificati, distintamente per ciascuno di essi:

* le generalità e il codice fiscale

* i dati catastali delle rispettive unità immobiliari

* i dati dei bonifici dei pagamenti effettuati per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio

* la richiesta di considerare il condominio quale soggetto che ha effettuato gli interventi

* le fatture emesse dalle ditte nei confronti dei singoli condòmini, da intendersi riferite al condominio.

Infine, ogni condomino potrà inserire le spese sostenute nel periodo d’imposta 2014 nel modello Unico Pf 2015 da presentare entro il prossimo 30 settembre o, se ha utilizzato il 730, nel modello 730 integrativo da presentare entro il 26 ottobre 2015.

 

Per concludere, la risoluzione ricorda che, non essendo necessario nel caso in esame nominare un amministratore, i contribuenti non sono tenuti a compilare l’apposito quadro AC del modello Unico Pf, in cui è prevista l’indicazione, tra l’altro, dei dati catastali degli immobili condominiali: andranno specificati nella comunicazione unica per tutti i condòmini.

RIFORMA CATASTO: SERVE REVISIONE DELLE BASI IMPONIBILI

[Fonte: Nomisma]

Dai dati diffusi dall’Agenzia delle Entrate emerge che nel 2014 il gettito Tasi-Imu relativo all’abitazione principale è calato del 12,6%, attestandosi a 3,5 miliardi di euro, a fronte dei circa 4 miliardi di euro del 2012. In media i proprietari di prima casa hanno pagato 204 euro nel 2014 contro i 227 euro nel 2012. Dagli stessi documenti diffusi nella prima parte dell’anno risulta che per comprare un’abitazione in Italia servono in media circa 181mila euro (1.560 /mq).

Tali informazioni consentono di quantificare lo stimolo per il mercato che scaturirebbe dalle ipotesi di azzeramento dell’imposizione sulla prima casa recentemente avanzate.  A ben guardare – secondo Nomisma – si tratterebbe di un incentivo piuttosto modesto, quantificabile in circa lo 0,11% sul primo anno e comunque inferiore all’1%, considerando i valori attualizzati, su un orizzonte decennale. In una fase in cui i valori immobiliari sono ancora caratterizzati da tendenze recessive e lo sconto medio sfiora il 16%, fattori quali il timing dell’investimento e la capacità negoziale risultano di gran lunga più rilevanti rispetto all’incentivo fiscale. Anche con riferimento allo sgravio che una simile riforma garantirebbe al 76,6% di famiglie che vive in una casa di proprietà, il dato numerico risulta modesto e pari a 17 euro al mese, vale a dire poco più di un quinto del bonus di 80 euro introdotto a partire da maggio 2014 per lavoratori dipendenti e assimilati che guadagnano fino a 26 mila euro. In questo caso, tuttavia, a beneficiarne non sarebbero solo le famiglie a basso reddito, in quanto la sperequazione delle basi imponibili su cui vengono calcolate le imposte sulla casa, acuite dagli effetti regressivi dell’abolizione delle detrazioni, finirebbero paradossalmente per agevolare anche nuclei con disponibilità nient’affatto modeste e propensioni alla spesa rispetto alle variazioni del reddito più contenute se paragonate a quelle delle famiglie meno abbienti.

“Se non vi sono dubbi che la fiscalità sulla casa rappresenti un tema delicato e complesso, non emergono evidenze che l’azzeramento dell’imposizione sulla prima casa risulti dal punto di vista economico e sociale l’opzione preferibile” – sottolinea Luca Dondi Consigliere delegato di Nomisma. “La strada maestra per arrivare a un sistema impositivo finalmente più equo rimane quella della revisione delle basi imponibili che scaturirebbe dalla riforma del Catasto che il Governo ha ribadito essere una priorità. Non è infatti pensabile continuare a intervenire solo sulle aliquote o sui moltiplicatori. Ci sono sperequazioni enormi all’interno delle stesse città e tra città che solo una revisione complessiva può correggere. A tal proposito, si pensi che la differenza tra riferimenti catastali e valori di mercato oscilla tra il 36% e il 300%, attestandosi in media al 135%.  La disomogeneità del patrimonio immobiliare italiano e l’assenza di una base dati di riferimento sufficientemente articolata sono ostacoli consistenti sulla strada della riforma. Occorre lavorare pazientemente per rimuoverli senza farsi sopraffare dall’ansia del risultato di breve”- conclude Dondi.

COMPRAVENDITA IMMOBILI: SE IL NOTAIO TARDA A VERSARE LE SOMME È PECULATO

[A cura di Salvatore Di Giglia Nuovo FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]

Se il notaio non versa tempestivamente l’imposta principale dovuta rischia di essere accusato di peculato, in quanto reato “istantaneo”. La disciplina amministrativa della “procedura di adempimento unico” e la normativa penale di cui all’articolo 314 cp non possono ritenersi sovrapponibili.
Il principio è stato affermato di recente dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 33879 del 31 luglio 2015, nel corso della trattazione di un caso nel quale il pubblico ufficiale ha omesso di versare tempestivamente all’erario le somme che gli erano state consegnate, a titolo d’imposta, dai propri clienti in occasione della stipula di alcuni atti di compravendita immobiliare.

Il caso concreto si caratterizza per il fatto che l’imposta di registro è stata liquidata dal notaio in modo volutamente irregolare e inferiore al dovuto e che, solo successivamente e dopo l’arrivo dell’avviso di liquidazione notificato dall’ufficio oltre il sessantesimo giorno dalla data di registrazione telematica, lo stesso pubblico ufficiale ha provveduto a versare integralmente all’Agenzia delle Entrate.

La Corte suprema, mediante richiamo a pregressa giurisprudenza, ha concluso che il comportamento del notaio, in questa vicenda, sostanzia il reato di peculato (ex articolo 314 c.p.).

La pronuncia, tuttavia, merita un momento di particolare attenzione per il fatto che, per la prima volta, il giudice penale ha vagliato il rapporto esistente fra la procedura amministrativa, prevista dal Dlgs 463/1997, articoli 3-bis e 3-ter, e la richiamata ipotesi delittuosa di cui all’articolo 314.

In altri termini, la Cassazione ha dovuto valutare se le due normative fossero sovrapponibili e se, in quanto tali, la prima disciplina – avente natura speciale – potesse ritenersi prevalente sulla seconda di carattere generale.

La necessità di svolgere tale attività comparativa è sorta, per la Corte, su impulso del notaio ricorrente che ha mosso due eccezioni.

Una prima, secondo cui, nella soluzione della controversia da parte dei giudici di merito, avrebbe dovuto prioritariamente darsi rilievo al Dlgs 463/1997, articoli 3-bis, 3-ter e 3-quater, introdotti dal Dlgs 9/2000, i quali disciplinano la “procedura di adempimento unico informatico” riguardante la registrazione telematica degli atti e le nuove modalità di pagamento dell’imposta di registro.

Il ricorrente, infatti, ha sostenuto che il nuovo sistema telematico di liquidazione delle imposte da parte dei notai, che si fonda su un’interazione diretta, secondo modalità telematiche, tra Agenzia delle Entrate e professionisti, consentirebbe a questa ultima di richiedere il pagamento integrativo delle imposte dovute, anche quando il soggetto obbligato abbia provveduto a liquidarle in maniera inesatta, sia per colpa (anche grave) sia per dolo.

Secondo tale ricostruzione, la sanzione penale di cui all’articolo 314 sarebbe scattata – non immediatamente – ma unicamente a seguito del mancato pagamento della maggior imposta richiesta dall’Agenzia delle Entrate. Conseguentemente, solo a quel punto, si sarebbe manifestata in maniera inequivocabile la volontà del notaio di non adempiere all’obbligazione tributaria e di voler trattenere per sé le somme versategli a detto titolo dai clienti. Inoltre, in caso di ritardo dell’Amministrazione tributaria nel procedere alla corretta liquidazione dell’imposta, rispetto ai termini di legge, l’indugio del notaio ricorrente non avrebbe potuto assumere rilievo al fine di trasformare l’illecito amministrativo-tributario in comportamento penalmente rilevante.

La seconda, per la quale, nel caso concreto, sussisterebbe un concorso tra fattispecie penale e norma amministrativa, risolvibile mediante l’applicazione del principio di specialità (articolo 9, legge 689/1981), trattandosi dello stesso fatto punito da distinte previsioni normative (concorso eterogeneo di norme), ancorché poste a presidio di interessi giuridici diversi.

Conclusivamente, poiché la condotta descritta dalla norma penale che disciplina il peculato (consistente, nell’ipotesi in esame, nell’appropriazione del denaro destinato al pagamento dei tributi) si presenterebbe del tutto sovrapponibile a quella del notaio prevista dalla nuova disciplina dell’adempimento unico informatico, sarebbe stata scontata l’applicazione del principio di specialità contemplato nel primo comma del richiamato articolo 9.

Pronunciandosi sul ricorso del pubblico ufficiale, la Corte suprema ha affermato che la procedura amministrativa, prevista dal Dlgs 463/1997, articoli 3-bis e 3-ter, disciplina una condotta del tutto distinta da quella integrante il delitto di peculato e che, pertanto, le sanzioni da essa previste possono ben concorrere con quella stabilita dalla norma di carattere penale.

Pertanto, la Corte ha mostrato di non condividere la tesi della sovrapponibilità delle condotte sanzionate in via amministrativa e penale, escludendo l’applicabilità del principio di specialità di cui all’articolo 9 della legge 689/1981.

Inoltre, qualificando il reato di peculato di tipo istantaneo, vale a dire che si consuma nel momento in cui l’agente si appropria della cosa mobile o del denaro della Pa, di cui ha il possesso per ragione del suo ufficio o dà ad essi una diversa destinazione, ha rigettato l’assunto secondo cui l’interversione del possesso del denaro pubblico non si verificherebbe immediatamente, ma soltanto quando il notaio non versi, entro il termine previsto, l’importo della maggior somma dovuta a titolo d’imposta successivamente liquidato, mediante procedura di correzione per via telematica, dall’Agenzia delle Entrate (sulla qualificazione del reato istantaneo, cfr Cassazione, sentenze nn. 12141/2008, 19759/2008, 15108/2003, 3021/1990, 7179/1982, 43279/2009 e 1256/2003).

Infine, la suprema Corte – mediante un richiamo ad altre proprie sentenze emesse con riguardo alla oramai soppressa Invim (tributo dovuto dal venditore che lo versava nelle mani del notaio rogante perché, a sua volta, lo versasse all’erario) – ha concluso che, alla luce dei principi già affermati nella propria giurisprudenza, la condotta ascritta al notaio che non ha immediatamente versato all’Agenzia delle Entrate l’importo integrale delle imposte affidategli dai clienti, determinate correttamente ma autoliquidate per via telematica in misura volutamente inferiore al dovuto, integra il reato di cui all’articolo 314 del codice penale. Da quel preciso momento, infatti, egli avrebbe disposto del denaro indebitamente, ancorché temporaneamente, trattenuto uti dominus, lucrando gli interessi bancari maturati sulle somme non versate.

CRONACA FLASH

Ladri senza scrupoli

Svaligiano casa di defunti

Non si sono fatti scrupoli i ladri che a Venezia hanno svaligiato l’appartamento di due anziani coniugi, trovati morti in casa la settimana prima. A dare l’allarme sono stati i nipoti, passando di fronte all’abitazione e trovando la porta d’ingresso aperta. Dai primi rilievi della polizia si evince come i malviventi abbiano agito indisturbati, passando al setaccio da cima a fondo tutte le stanze della casa. All’appello mancano alcuni oggetti di notevole valore, ma è difficile quantificare l’esatto ammontare della refurtiva, data la mancanza di un inventario.

91enne si ferisce in casa

e resta a terra 24 ore

È salvo per miracolo un anziano di 91 anni, residente in provincia di Udine, rimasto ferito in casa per oltre 24 ore prima che qualcuno lo aiutasse. Quando i soccorritori sono riusciti a introdursi nella sua abitazione da una finestra lasciata semiaperta, lo hanno ritrovato disteso sul pavimento della cucina in una pozza di sangue, in mezzo ai cocci rotti di alcune stoviglie. Dalle testimonianze dei parenti, sembra che l’anziano si fosse più volte rifiutato di farsi ospitare in casa loro, versione confermata anche dagli assistenti sociali che seguivano da tempo il caso.

Esplosione in casa vacanze

Gravi tre turisti bresciani

Tre feriti gravi di cui due in pericolo di vita. È questo il bilancio dello scoppio di una bombola di gas propano liquido, avvenuta nella cucina di un appartamento in provincia di Salerno. Gli occupanti, una donna di 36 anni, il figlio di 17 e il nonno di 61, tutti residenti in provincia di Brescia, avevano affittato la casa per trascorrere un periodo di villeggiatura sul litorale campano. Rimasto incolume soltanto il marito della donna, che al momento della deflagrazione si trovava nelle scale. L’appartamento è stato dichiarato inagibile ed è stato sottoposto a sequestro. Sono invece rientrati gli altri inquilini dello stabile, che erano stati fatti evacuare per precauzione dai vigili del fuoco, insieme ad altri 50 ospiti di un albergo nelle vicinanze.

Va a fuoco la palazzina

Sgomberate 18 famiglie

Hanno dovuto lavorare tutta la notte i vigili del fuoco per domare l’incendio che ha distrutto una palazzina alle porte di Genova. Per fortuna sono rimaste intossicate soltanto quattro persone, mentre 18 famiglie hanno dovuto passare la notte fuori casa. Dalle prime verifiche sembra che le fiamme si siano propagate da un appartamento all’ultimo piano, a causa di alcuni ceri votivi, accesi in onore di San Raffaele. 

89enne cade vittima

della truffa dell’avvocato

Ancora un caso di raggiro a danni di anziani. Una donna di 89 anni residente in un comune alle porte di Firenze è stata ingannata da un sedicente avvocato, che si è presentato alla porta del suo alloggio ed è riuscito a farsi consegnare tutto il denaro che l’anziana aveva in casa, circa 700 euro in contanti. Il pretesto è sempre lo stesso: pagare la cauzione del figlio, secondo il truffatore, arrestato per un incidente stradale. Sull’episodio indagano i carabinieri.

I RITARDI NELLA COSTRUZIONE NON BASTANO A SALVARE IL BONUS PRIMA CASA

Per non perdere il diritto a fruire del bonus prima casa, il contribuente che non abbia trasferito la propria residenza nell’alloggio entro il periodo previsto dalla legge deve provare l’inevitabilità e l’imprevedibilità dell’evento causativo dell’impedimento, oltre che la non imputabilità a se stesso dell’origine causale del fatto impeditivo. 

È quanto chiarito dalla Cassazione con la sentenza 10586 del 22 maggio, con cui i giudici hanno precisato anche che, l’onere probatorio del contribuente è alquanto stringente, dovendo egli allegare la sussistenza del fatto impeditivo e comprovarne la consistenza, con riguardo ai consueti canoni attraverso i quali la giurisprudenza individua, in termini generali, i requisiti indefettibili dell’istituto della forza maggiore. 

Secondo gli Ermellini, in particolare, l’interessato deve provare – quantomeno in via sintomatica e presuntiva – l’inevitabilità ed imprevedibilità dell’evento, oltre che della non imputabilità, nel senso dell’insussistenza di ragioni di addebito, doloso o colposo, dell’origine causale del fatto impeditivo a se stesso. E, perché si possa parlare di forza maggiore, occorre che ci si trovi di fronte ad un avvenimento di gravità estrema, assolutamente fuori da ogni possibile previsione in quanto del tutto eccezionale ed inevitabile, che non dipenda in alcun modo da avvenimenti dipesi per qualsiasi motivo dal comportamento della parte interessata. Né possono bastare le avvenute rimostranze nei confronti del venditore, specie se si considera che già al momento dell’acquisto il fabbricato era in fase di ristrutturazione e che vi era un progetto di variante che prevedeva diverse modifiche sostanziali. In tal caso, dunque, non si può ritenere integrato il requisito dell’imprevedibilità dell’evento, ferma restando l’azionabilità di eventuali pretese risarcitorie nei confronti del terzo ritenuto responsabile del ritardato trasferimento della residenza nell’immobile.