[A cura di: avv. Chiara Magnani – Ass. Foro Immobiliare]
Con la sentenza n. 12582/15 la Corte di Cassazione conferma come la violazione della norma del regolamento condominiale che stabilisce il divieto effettuare interventi modificativi della struttura architettonica del fabbricato – norma di natura contrattuale o perché predisposta dall’originario proprietario e poi accettata dai singoli condominio per il tramite dei singoli atti di acquisto o perché deliberata all’unanimità in sede assembleare – legittimi la richiesta di risarcimento del danno anche nelle forme della reintegrazione in forma specifica.
Nel caso in esame due condòmini avevano adito il Tribunale per chiedere la rimozione del porticato realizzato da altro condomino (un albergo) nell’ambito delle opere di ristrutturazione della propria unità, in quanto ritenuto intervento violativo della disposizione del regolamento condominiale che sanciva il divieto di modificare la struttura architettonica del fabbricato.
Il giudice di prime cure ordinava la rimozione del porticato e anche la corte di Appello confermava la correttezza della sentenza di primo grado.
Nella sentenza n. 12582 la Corte di Cassazione ribadisce come siano legittime le convenzioni mediante le quali i partecipanti al condominio decidano di porsi dei limiti – sia con riferimento all’esercizio dei propri diritti sui beni comuni sia con riferimento ai beni di proprietà esclusiva – e ricorda come, mediante le disposizioni del regolamento di condominio, si possano dettagliare e/o integrare e/o specificare nonché derogare alle disposizioni di legge. Nel caso di specie, infatti, prevedendo in modo regolamentare il divieto per i singoli partecipanti al condominio di effettuare qualsivoglia intervento – tanto sulle parti comuni quanto su quelle private – se lesivo della struttura estetica dell’edificio, si è chiaramente operata una deroga all’art. 1120 c.c.: si è, infatti, esteso il divieto di innovazione a qualsiasi intervento in grado di modificare la linea architettonica dello stabile e ciò senza che potesse avere rilievo il rispetto degli altri requisiti di legge quali, ex art. 1120 4° co. c.c., la sicurezza, stabilità del fabbricato ecc…
Il porticato installato dall’hotel, pur non minando la stabilità, staticità, struttura o sicurezza dell’edificio è stato ritenuto un intervento in grado di incidere sulla simmetria e sul decoro del palazzo e destinato, pertanto, a mutarne l’estetica – ovviamente la struttura architettonica va riferita o al momento della costruzione del caseggiato o al momento della convenzione negoziale a seconda che la disposizione regolamentare sia presente nel regolamento redatto dal primo proprietario o sia frutto di successiva delibera assembleare – e da ciò l’accoglimento della domanda dei due condòmini e la conseguente condanna, per l’hotel, alla rimozione dell’opera.
Di nessun pregio è risultata l’esistenza di una preventiva delibera assembleare autorizzativa dell’installazione del porticato in quanto delibera contraria al regolamento e pertanto chiaramente nulla, così come la circostanza che il porticato non creasse alcun problema di staticità e/o sicurezza all’edificio: è stato “sufficiente” accertare come il porticato andasse ad alterare l’aspetto architettonico dell’edificio andando così a costituire violazione del regolamento condominiale, per aversi condanna alla rimozione del manufatto.
Lasciano il figlio da solo
Condannati i genitori
Una mamma di 23 anni e il suo compagno di 27, entrambi originari del Sud America, sono stati condannati dal gup del tribunale di Udine a 8 mesi di carcere, con il beneficio della condizionale, con l’accusa di abbandono di minore. La sentenza si riferisce a un episodio avvenuto nel 2013, quando il bambino si era svegliato alle 6 del mattino e, non trovando nessuno in casa, aveva bussato alla porta del vicino. Respinta dunque la tesi difensiva secondo cui i due si sarebbero allontanati per raggiungere il pronto soccorso a causa di un malore improvviso della madre.
13enne accoltella la madre
che non vuole farlo uscire
Un ragazzino di 13 anni ha ferito all’addome la madre di 37 anni perché non voleva lasciarlo uscire di casa. La donna è stata trasportata in ospedale in codice rosso, ma i medici non hanno riscontrato lesioni gravi e la hanno dimessa poco dopo. Secondo le dichiarazioni del 13enne, la madre era solita ubriacarsi e perdere il controllo, sfogando la sua rabbia su di lui. Dalla ricostruzione della polizia, pare che anche quella sera la donna avesse alzato il gomito, dando in escandescenza e scagliandosi contro il figlio che voleva uscire di casa.
Incendio in appartamento
Due persone intossicate
Ci sarebbe un banale corto circuito all’origine dell’incendio che ha semidistrutto un appartamento in un comune della provincia di Genova. Secondo i rilievi effettuati dai vigili del fuoco, le fiamme si sarebbero propagate a partire da un guasto elettrico, avvolgendo i mobili e riempiendo di fumo le stanze della casa. I due occupanti, un uomo e una donna, sono stati trasportati al pronto soccorso, ma le loro condizioni non hanno destato preoccupazione.
Con i vigili urbani in casa
getta marija dal balcone
Un uomo di 49 anni è stato arrestato in provincia di Torino per avere coltivato una pianta di marijuana in casa. L’uomo era stato raggiunto in casa dagli agenti della polizia municipale per una semplice notifica giudiziaria. Spaventato dall’arrivo dei vigili, era corso in balcone per liberarsi della piantina, buttandola dal terzo piano. Ma l’escamotage non è bastato. Dopo una perquisizione dell’appartamento, infatti, sono stati rinvenuti semi di marijuana e droga già confezionata. Il 49enne, già noto alle forze dell’ordine per produzione e spaccio, è stato arrestato.
Pellet per stufa a legna
Intossicati e ricoverati
Si stava trasformando in tragedia la breve vacanza di una famiglia di Torino, in villeggiatura in una località montana alle porte del capoluogo piemontese. Un uomo di 36 anni, la moglie di 32 e i tre figli, il più piccolo di appena 11 mesi, sono finiti in ospedale prima e in camera iperbarica poi, per una lieve intossicazione da monossido di carbonio. Dai primi rilevamenti dei vigili del fuoco sembra che la stufa a legna usata per riscaldarsi fosse stata alimentata erroneamente con pellet.
[A cura di: Salvatore Tiralongo – Nuovo FiscoOggi, Agenzia delle Entrate]
La Corte di cassazione, con sentenza n. 23954 del 4 giugno 2015, ha statuito che “È pienamente corrispondente a logica il criterio che un bene non può costituire garanzia al di là del proprio valore. Pertanto, se è perfettamente concepibile che un finanziamento possa essere chiesto, oltre che per l’acquisto di un immobile, anche per le ulteriori spese, certamente a fronte del finanziamento dovranno esservi ulteriori garanzie, quali fideiussioni o altre”.
La vicenda
Con sentenza del 18 luglio 2012, il Tribunale giudicava il ricorrente colpevole del reato previsto dall’articolo 4, D. lgs 74/2000, perché, in qualità di amministratore, al fine di evadere le imposte, indicava nella dichiarazione dei redditi, relativa agli anni d’imposta 2004, 2005 e 2006, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello reale.
Nel caso di specie, la società che alienava appartamenti conveniva, con gli acquirenti degli immobili, l’indicazione nell’atto di un prezzo inferiore a quello realmente corrisposto.
L’amministratore ricorreva avverso la sentenza del Tribunale. Ma la Corte di appello di Roma, con sentenza del 16 giugno 2014, confermava la decisione del Tribunale.
Alla condanna conseguivano le pene accessorie dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria e l’interdizione perpetua dall’ufficio di componente di Commissione tributaria.
Contro il provvedimento, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, tra gli altri, per i seguenti motivi:
* erronea applicazione della legge; mancanza di motivazione ex articolo 606 c.p.c., lettera e, perché la Corte di appello si sarebbe limitata a confermare la sentenza di primo grado senza esprimersi sui singoli motivi di appello;
* la sentenza avrebbe dichiarato l’inderogabilità del disposto previsto dall’articolo 38 del D. lgs 385/1993 (Tub), ritenendo che la somma erogata a titolo di mutuo non possa essere superiore al valore dell’immobile;
* le pene accessorie non potrebbero avere una durata superiore a quella della pena principale.
La Cassazione
Quanto al primo motivo, la Corte di cassazione, investita della questione, ha dichiarato il ricorso inammissibile, poiché fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, valutando esauriente la motivazione della sentenza impugnata.
Circa la doglianza del ricorrente in merito all’ammontare del mutuo concesso agli acquirenti, che determinerebbe una rideterminazione del reale prezzo del trasferimento in aumento rispetto al dichiarato, a giudizio della suprema Corte, “è pienamente corrispondente a logica il criterio che un bene non può costituire garanzia al di là del proprio valore. Pertanto se è perfettamente concepibile che un finanziamento possa essere chiesto oltre che per l’acquisto di un immobile, anche per le ulteriori spese, che siano per l’acquisto, la ristrutturazione o altro, certamente a fronte del finanziamento dovranno esservi ulteriori garanzie, quali fideiussioni o altre, che, nel caso di specie, non risultano mai essere state prestate”.
Pertanto, in riferimento alla presenza di ricavi in nero, secondo i giudici di legittimità, la Corte d’appello ha ben operato. È stato, infatti, correttamente evidenziato come l’ammontare massimo dei finanziamenti di credito fondiario non possa superare l’80% del valore del bene ipotecato, valore che può essere aumentato fino al 100% solo laddove siano prestate garanzie integrative rappresentate da fideiussioni bancarie e assicurative o da altre idonee garanzie previste dalla banca.
La Corte d’appello ha comunque valutato ispirandosi alla logica e alla comune esperienza, secondo cui l’erogazione di una somma sensibilmente superiore al valore dell’immobile, se anche fosse possibile, priverebbe la banca di adeguata garanzia nel caso in cui il credito entrasse in sofferenza.
Da qui, l’avallo del ragionamento della Guardia di finanza, secondo cui il reale corrispettivo pagato dagli acquirenti nelle compravendite degli immobili ceduti dalla società, rappresentata dall’imputato, doveva essere determinato in misura almeno uguale all’entità del mutuo erogato (valore da ritenersi determinato per difetto, posto che dagli atti non era emersa alcuna presentazione di garanzie aggiuntive tali da consentire l’erogazione al 100% del valore dell’immobile).
A fronte di questo, la difesa non ha saputo spiegare “per quale motivo un imprenditore dovrebbe vendere degli immobili per una somma inferiore alla metà del loro reale valore”.
Inoltre, il convincimento del giudice di merito è stato determinato anche da altre circostanze probatorie, come il finanziamento della società, da parte dell’imputato e della moglie, indice di una rilevante disponibilità di liquidità non altrimenti giustificata.
L’irrisorietà del reddito Irpef dichiarato dai coniugi, per gli anni in contestazione, è comunque non compatibile con i 398mila euro conferiti dai soci per i medesimi anni.
In sede penale, il valore dei mutui erogati dalla banca agli acquirenti degli immobili e le incongruenze emergenti dalle dichiarazioni fiscali dell’imprenditore sono elementi che giustificano la condanna per il reato di dichiarazione infedele, con applicazione delle pene accessorie, anche per una durata superiore alla pena principale inflitta.
Per quanto riguarda la quantificazione delle pene accessorie irrogate, la Cassazione respinge ogni doglianza di parte ricorrente, che deduce la loro illegalità solo perché quantificate in misura superiore alla pena principale.
La parte ricorrente aveva invocato l’applicabilità dell’articolo 37 del codice penale, secondo cui: “Quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato. Tuttavia, in nessun caso essa può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria”.
Mentre, secondo i Giudici supremi, nel caso di specie, si applica l’articolo 12 del D. lgs 74/2000.
La Corte suprema, a sezioni unite, con sentenza 6240/2014, aveva affermato che “sono riconducibili al novero delle pene accessorie, la cui durata non sia espressamente determinata dalla legge penale, quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale, ovvero uno soltanto dei suddetti limiti, con la conseguenza che la loro durata deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell’art. 37 c.p., a quella della pena principale inflitta”.
La sentenza non risolve il contrasto giurisprudenziale esistente, ma certamente consente di trarre un ulteriore principio interpretativo, per cui “può parlarsi di pena ‘espressamente determinata’ solo quando il legislatore fissi in concreto la durata, mentre in tutti gli altri casi (sia che venga indicato il minimo e il massimo, ovvero il solo minimo o il solo massimo), trova applicazione l’art. 37 c.p. e quindi la pena accessoria va determinata con riferimento a quella principale inflitta”.
Pertanto, ove il legislatore abbia indicato i limiti minimi e massimi delle pene, queste non possono essere ricondotte alle pene accessorie a durata non espressamente prevista.
Non può, dunque, trovare spazio, a giudizio della suprema Corte, un’interpretazione della norma che, sostanzialmente, riduca la portata applicativa dell’articolo 12, D. lgs 74/2000, norma peraltro introdotta nella consapevole vigenza da parte del legislatore dell’esistenza dell’articolo 37 c.p., individuando solo dei limiti, minimo e massimo, della pena accessoria da irrogare, soglie al di sopra o al di sotto delle quali non si potrebbe andare qualora la pena principale irrogata fosse al di sotto o al di sopra delle stesse.
Il conflitto apparente tra l’articolo 12 e l’articolo 37 c.p. deve essere risolto, nel caso di specie, a favore dell’articolo 12, norma di dettaglio che espressamente prevede la durata delle pene accessorie.
A chi va e come è distribuito il gettito afferente alle imposte sulla casa. È quanto ha inteso spiegare una nota dell’Anci, secondo i cui calcoli i Comuni hanno incassato circa 10 miliardi di euro, parte dei quali verranno poi ripartiti sulla base di criteri di riequilibrio, a meno di oltre 600 milioni che verranno acquisiti al bilancio dello Stato, per effetto dei ulteriori tagli decisi con la Legge di stabilità 2015.
L’Anci puntualizza che “si tratta di risorse essenziali per il funzionamento dei Comuni, che quest’anno non hanno ricevuto alcun anticipo delle assegnazioni statali, come invece sempre avvenuto intorno al mese di marzo”. Quindi, una nota polemica: “Molti commentatori evidenziano il peso dell’imposizione immobiliare, fortemente aumentato dal 2012, con il passaggio dall’Ici all’Imu, identificandolo come il segno dell’incapacità del sistema dei Comuni di contenere le proprie spese e con il conseguente ricorso incontrollato all’aumento delle aliquote. Ma l’aumento dei principali gettiti comunali (tributo immobiliare e addizionale Irpef) tra il 2010 e il 2014 è direttamente dovuto al drastico ridimensionamento delle risorse deciso dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni”.
Secondo i calcoli dell’Anci, a valori correnti i trasferimenti statali ai Comuni sono diminuiti per 12,5 miliardi di euro, risultando ormai pressoché azzerati; il gettito dei principali tributi è aumentato di 11,1 miliardi, mentre le risorse complessivamente disponibili per i Comuni sono diminuite di quasi 4 miliardi di euro, considerando anche l’effetto dei vincoli da patto di stabilità. Gli aumenti del prelievo fiscale comunale sono stati determinati in grande misura da decisioni dello Stato, attraverso i continui cambiamenti dell’assetto delle entrate dei Comuni. Nella stragrande maggioranza dei casi, l’aumento del prelievo deciso dai Comuni non è arrivato a compensare la dimensione drammatica dei tagli subiti nel quadriennio.
L’associazione dei Comuni sottolinea anche che in valori pro-capite costanti (2010), le variazioni 2010/2014 mostrano che per tutte le diverse fasce demografiche i recuperi fiscali non bilanciano le riduzioni di risorse decise nel quadriennio.
“Il contributo che i Comuni hanno apportato al risanamento della finanza pubblica è ormai riconosciuto – commenta l’Anci -. La Corte dei Conti ha recentemente sottolineato la sproporzione della stretta finanziaria imposta agli enti locali dalle manovre di questi anni, rispetto alle amministrazioni centrali. Purtroppo, per scelte in larga parte non dipendenti dai Comuni, i cittadini sono stati gravati da un prelievo maggiore senza corrispondenti benefici sui servizi locali. Una parte cospicua delle tasse comunali è andata allo Stato per sostenere il risanamento della finanza pubblica, insieme alle riduzioni di spesa operate dai sindaci. Ricordiamo inoltre che il pagamento dell’acconto Imu e Tasi è calcolato sulla base del regime vigente nel 2014 nel Comune di ubicazione dell’immobile. L’acconto è pari al 50% di quanto dovuto per lo scorso anno. Pertanto, non era necessario conoscere le eventuali variazioni che i Comuni possono aver già deliberato, ma il cui termine ultimo è quello del bilancio di previsione, attualmente fissato al 30 luglio”.
Come pro-memoria per chi non avesse ancora pagato la prima rata di Imu e Tasi, l’Anci precisa che “il contribuente è in regola se versa l’acconto sulla base delle aliquote e delle detrazioni stabilite dal Comune per il 2014 (e risultanti sul sito del Ministero dell’economia e delle finanze), salvo poi procedere ad eventuale conguaglio in sede di saldo nel caso di variazioni delle aliquote e delle detrazione dei citati tributi, che dovranno essere pubblicate dai Comuni sul sito Mef, entro il 28 ottobre 2015. Nulla vieta, naturalmente, che, nel caso in cui il Comune abbia già deliberato in materia di aliquote e detrazioni Imu e Tasi, magari determinando condizioni più favorevoli rispetto al 2014, il contribuente possa far riferimento alle delibere relative a quest’anno anche per il pagamento dell’acconto”.
Rogo in appartamento
Si sfiora la tragedia
Se l’è cavata con qualche ustione sul corpo e tanto spavento. Una donna di 49 anni in provincia di Palermo è stata tratta in salvo dai vigili del fuoco insieme alla figlia di 28 e al nipote di appena un anno, dopo che nella sua abitazione si era sviluppato un incendio. Coinvolti nelle operazioni di spegnimento anche una ventina di appartamenti adiacenti alla casa della donna, che sono stati sgomberati per precauzione.
Si risveglia dal coma
bimbo caduto in garage
Ha riaperto gli occhi e ha riconosciuto i famigliari. Dopo un mese di coma si è risvegliato il bimbo di 4 anni che lo scorso maggio era precipitato da una grata di un parcheggio coperto in provincia di L’Aquila, mentre stava giocando sotto gli occhi della madre. Trasportato in un primo momento all’ospedale di Pescara, era stato trasferito in elisoccorso al Bambin Gesù di Roma.
Esplode bombola di gas
Una donna rimane ferita
Una donna è rimasta gravemente ustionata a causa dello scoppio di una bombola di metano nella sua abitazione in provincia di Cosenza. Lievemente feriti anche il marito e il figlio, presenti in casa durante la deflagrazione. Dal sopralluogo dei vigili del fuoco sono emersi ingenti danni alla parete frontale dell’abitazione e al tetto. In seguito alle ferite riportate su tutto il corpo, la donna è stata trasportata al centro grandi ustionati di Bari.
Picchia la moglie incinta
Arrestato un 24enne
Un giovane di 24 anni è stato arrestato dagli agenti del nucleo Prevenzione Generale di Napoli con l’accusa di aggressione aggravata nei confronti della moglie, all’ottavo mese di gravidanza. Durante un giro di pattuglia, i poliziotti avevano notato una donna incinta chiedere aiuto per la strada e si erano fermati. Una volta soccorsa è cominciata la ricerca del marito che poco prima l’aveva malmenata, minacciando di morte anche la prima figlia, di appena due anni. La caccia all’uomo si è conclusa in serata quando il 24enne è stato rintracciato nell’appartamento di un parente in provincia di Salerno.
Abitazione svaligiata
Bottino da 40 mila euro
I ladri sono entrati in azione approfittando dell’assenza del padrone di casa – un imprenditore friulano fuori per il week end – portando via oggetti in oro e gioielli per un valore complessivo di 40 mila euro. A dare l’allarme, al rientro, è stato lo stesso imprenditore, dopo aver notato l’infisso della porta del suo appartamento perforato, sembra da un piccolo trapano. Sulla vicenda stanno indagando i carabinieri del nucleo di Udine.
[A cura di: avv. Enrico Morello – resp. centro studi AGIAI]
Per quanto riguarda le cose comuni, che si tratti di maggior utilizzo da parte di un condomino o di innovazione, il criterio è sempre quello di rispettare il pari diritto degli altri condòmini a utilizzarle a propria volta nonché di salvaguardare il decoro architettonico e la stabilità dell’innovazione.
Il caso: intervenendo in merito a diverse questioni riguardanti i rapporti fra un condomino ed il condominio di appartenenza, la Corte di Cassazione ha avuto modo di ribadire, nel “correggere” le sentenze emesse da Tribunale e Corte di Appello, i seguenti condivisibili principi di diritto (e prima ancora di buon senso):
AMPLIAMENTO
Ogni condomino può ampliare una preesistente apertura sul muro condominiale purché non venga alterata la destinazione del muro stesso e non venga impedito agli altri condòmini di farne parimenti uso.
La prima questione sottoposta al vaglio della Corte riguardava un ampliamento della apertura che permette alla condomina di attraversare il muro condominiale per accedere alla propria parte esclusiva di immobile: ampliamento (ovviamente) ritenuto lecito dalla condomina che lo aveva praticato, e (altrettanto ovviamente) ritenuta nefasta dal condominio in quanto ne risultava “ alterato il decoro architettonico e reso impossibile il pari uso agli altri condòmini.
La Suprema Corte, intervenendo sul punto, dava ragione alla condomina osservando come l’errore del giudice di secondo grado fosse stato quello di ritenere tale opera semplicemente illegittima in quanto, trattandosi di innovazione, “non era stata sottoposta a delibera condominiale per l’approvazione”.
Il giudice di Appello, viceversa, osserva opportunamente la Corte di Cassazione, avrebbe dovuto limitarsi ad accertare se l’opera in questione (che trattandosi semplicemente di un “uso più intenso di una cosa comune” e non di innovazione non necessitava di alcuna decisione assembleare) ledeva o meno in qualche modo i diritti degli altri condòmini.
La distinzione, in effetti piuttosto evidente, in altre parole è fra utilizzo di una cosa comune in modo da trarne un maggior vantaggio da parte di un singolo condomino, e la modifica stessa della destinazione della parte comune: nel primo caso andranno rispettati i presupposti già detti in precedenza (e cioè il pari diritto degli altri condòmini), mentre nel secondo sarà l’assemblea a doversi pronunciare.
Quale ulteriore (forse persino superflua a questo punto) specificazione, la Corte Suprema ricorda anche alcune sue precedenti decisioni, con le quali si era ritenuto che non dovessero essere sottoposte al vaglio dell’assemblea decisioni inerenti: la trasformazione da parte di un condomino di luci in vedute su un cortile comune; il taglio parziale del tetto per ricavarne un terrazzo; l’apertura nell’androne condominiale di un nuovo ingresso a favore dell’immobile di un condominio.
In tutti questi casi, si ripete, il limite da rispettare è quello del diritto degli altri condòmini a farne parimenti uso, e non quello previsto per la validità delle delibere assembleari in materia di innovazioni.
IL DECORO
Collegamento fra la previsione dell’art. 1120 cod. civ. relativo alle innovazioni e l’art. 1102 relativo all’utilizzo da parte del singolo delle parti comuni: la lesione del decoro architettonico.
La Corte, infine, dedica una ultima (utile) annotazione ad un punto di contatto esistente fra le due norme citate del codice civile: che seppure riferite a fattispecie diverse, comporta che il principio espresso dall’art. 1120 relativo al divieto di innovazioni illecite (o perché ledono il decoro architettonico del fabbricato, o perché addirittura ne mettono a repentaglio la sua stessa stabilità) trovi applicazione anche nelle fattispecie inerenti all’articolo 1102.
In altre parole, è del tutto ovvio che non è che quello che non si può fare con le innovazioni (tipo per utilizzare un esempio assurdo deliberare di togliere tutti i muri maestri a rischio di far crollare il palazzo) possa essere consentito al singolo condomino che voglia trarre un migliore utilizzo della cosa comune.
Quale conclusione di questa premessa, la Corte di Cassazione ha pertanto concluso che i giudici di merito hanno errato nel non accertare se di fatto l’opera (famoso ampliamento della apertura sul muro condominiale) posta in essere dalla condomina fosse o meno opera tale da mettere a repentaglio la sicurezza del fabbricato o comunque da alterarne il decoro architettonico.
Da qui la decisione della Suprema Corte di rinviare la causa (ritenuta evidentemente e per i motivi detti non sufficientemente istruita) ad altro giudice, al quale viene espressamente dato mandato di attenersi al seguente principio di diritto: ogni condomino, nel caso in cui il cortile esclusivo o comune sia munito di recinzione confinante con area pubblica o altra area dello stesso condominio, può apportare a tale recinzione, se di proprietà condominiale, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tutte le modifiche che gli consentono di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condòmini e, quindi, procedere anche all’apertura o all’ampliamento di un varco di accesso al cortile condominiale o alla sua proprietà esclusiva, purché tale varco non alteri la destinazione del muro e delle altre cose comuni, non comprometta il diritto al pari uso e non arrechi pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza e decoro architettonico del fabbricato.
“Rent to buy, titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile ed effettività della tutela giurisdizionale”. Questo il titolo dello studio n. 283-2015/C Approvato lo scorso 28 maggio dal Consiglio Nazionale del Notariato.
Nella relazione, l’autore analizza la nuova disciplina, introdotta dal legislatore del 2014, dei “contratti di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili” (cd. rent to buy) sotto il profilo della effettività della tutela giurisdizionale e con particolare riferimento ad una delle maggiori criticità della stessa – cui sono legate le sorti stesse del nuovo istituto – che attiene alla restituzione dell’immobile in ipotesi di inadempimento del conduttore.
In tale prospettiva, una volta esclusa la possibilità di ricorrere alla tutela sommaria (e segnatamente al procedimento di convalida di sfratto), l’autore si sofferma diffusamente sulla disciplina del titolo esecutivo e, più in particolare, sui requisiti che il diritto ivi consacrato deve possedere (certezza, liquidità ed esigibilità).
All’esito di questa indagine, l’autore conclude nel senso di ritenere che, in ipotesi di inadempimento del conduttore, se il contratto di rent to buy ha la forma dell’atto pubblico e contiene una clausola risolutiva espressa, nel nostro sistema processuale esiste la possibilità per il proprietario/concedente dell’immobile di agire legittimamente in sede esecutiva per ottenere il rilascio dell’immobile sulla base di un titolo esecutivo stragiudiziale (se del caso, movendosi in una prospettiva di estremo rigore, ricorrendo anche ad un successivo atto pubblico, complementare rispetto al primo, contenente la dichiarazione del proprietario/concedente dell’immobile di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa – cd. titolo esecutivo complesso) e, dunque, senza passare per un preventivo accertamento giurisdizionale (sia esso a cognizione piena o sommaria) del suo diritto.
In senso analogo, l’autore dello studio conclude anche con riferimento all’atto pubblico di rent to buy quale titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile alla scadenza del contratto.
La versione completa dello studio del Notariato può essere consultata cliccando qui.
Picchia la ex e prova
a lanciarla dal balcone
Un uomo di 38 anni ha tentato di buttare giù dal balcone l’ex convivente, dopo averla picchiata. È accaduto in uno stabile di Reggio Calabria e la terribile sequenza ha visto come spettatore unico il figlio minorenne della coppia. Grazie all’intervento repentino dei carabinieri, si è evitata la tragedia. L’uomo è stato arrestato con l’accusa di tentato omicidio; il 38 enne già in passato era stato protagonista di altri episodi di violenza domestica e gli era stato notificato un provvedimento di divieto di avvicinamento alla convivente.
Rapina notturna in casa
Donna resta sotto choc
Un risveglio traumatico nel cuore della notte in un appartamento in provincia di Pescara, dove una donna, aprendo gli occhi, si è trovata davanti tre rapinatori dal volto coperto che, dopo averla minacciata per farle aprire la cassaforte, sono riusciti a fuggire con oggetti in oro per un valore dichiarato di circa 18mila euro. Dopo la rapina, la donna è stata portata in ospedale, a Pescara, in stato di choc. Secondo la ricostruzione degli investigatori, i malviventi, disarmati, sono entrati nell’abitazione, una villetta nell’entroterra a Sud di Silvi, forzando una finestra.
Ladri barricati in casa
con mobili dietro la porta
A Napoli, un uomo di 47 anni e suo figlio di 25, dopo aver messo a segno una rapina, si sono barricati in casa, mettendo mobili e suppellettili dietro la porta per impedire alla polizia di entrare. Quando l’irruzione è riuscita, anche grazie all’intervento dei vigili del fuoco, i due malviventi hanno aggredito le forze dell’ordine ferendone due agenti in maniera lieve. I due sono quindi stati arrestati con l’accusa di resistenza e lezioni a pubblico ufficiale, oltre che per rapina.
Perquisizione per droga
Lui si getta dal balcone
Un uomo di 47 anni si è buttato giù dalla finestra, perdendo così la vita, a seguito di una perquisizione avvenuta nel suo appartamento di Bologna. Gli agenti stavano indagando su un caso di droga, e pare che l’uomo, prima di lanciarsi nel vuoto, abbia gettato via ovuli di cocaina per 16 grammi. Da quanto si apprende, due dei poliziotti avrebbero monitorato lo spacciatore nordafricano, mentre il terzo avrebbe controllato i due coinquilini, italiani, sentiti dagli inquirenti.
Truffava anziani in casa
con “acqua al mercurio”
Si faceva aprire le porte di casa degli anziani soli e parlando di “acqua al mercurio” li raggirava e derubava. Con questa pratica, per almeno cinque volte, era riuscito nei suoi intenti, intascando un bottino di oltre centomila euro fra contanti e gioielli. Alla fine, però, la polizia di Ferrara lo ha arrestato: si tratta di un giovane di 28 anni, originario di Chivasso (in provincia di Torino), già conosciuto alle forze dell’ordine. L’uomo è adesso ai domiciliari.
Notte di alcool: ubriaco
precipita dalla grondaia
A Lignano Sabbiadoro, in provincia di Udine, un giovane austriaco è caduto al suolo da un’altezza di circa tre metri cercando di rientrare nella propria stanza arrampicandosi sulla grondaia. All’alba del giorno prima, stessa scena. Protagonista, questa volta, un giovane inglese, il quale aveva tentato lo stesso pericoloso percorso, cadendo però dal terzo piano. Gli operatori del 118 sono stati costretti a un superlavoro notturno, con una ventina di interventi di soccorso per altrettanti giovani in coma etilico.