Qualche anno fa era il tema di maggiore attualità in ottica di fiscalità immobiliare. Oggi è passato un po’ in secondo piano, soppiantato soprattutto dalle vicissitudini relative ad Imu e Tasi, nonché, sul versante della locazione, alle decisioni della Consulta in merito all’incostituzionalità dei benefici per i conduttori che auto-denuncino i contratti in nero. Ad ogni buon conto, l’opzione della cosiddetta cedolare secca è ancora di un certo interesse, tanto più in quanto adottata da numerosi contribuenti proprietari di immobili. E i dubbi sulle modalità della sua applicazione restano all’ordine del giorno. Lo dimostra, tra gli altri, l’ultimo quesito pervenuto alla rubrica di posta fiscale di Nuovo FiscoOggi, la rivista ufficiale dell’Agenzia delle Entrate. Il caso è quello di un contribuente che ha registrato, a maggio 2015, un contratto di locazione proprio con l’opzione per la cedolare secca, e che si domanda se sia dovuto l’acconto già il primo anno.
Ebbene, secondo Gianfranco Mingione, che cura abitualmente la rubrica, “Nel primo anno di esercizio dell’opzione per la cedolare secca non è dovuto l’acconto, in quanto manca la base imponibile su cui calcolarlo ovvero l’imposta sostitutiva dovuta per il periodo precedente. Dovrà invece essere versato dal secondo anno, in misura pari al 95% dell’imposta dovuta per l’anno precedente, se la stessa supera l’importo di 51,65 euro. Se l’importo da versare è inferiore a 257,52 euro, il pagamento dell’acconto dovrà essere effettuato, in un’unica soluzione, entro il 30 novembre. Se, invece, supera i 257,52 euro, potrà essere effettuato in due rate: la prima, del 40% (del 95%), entro il 16 giugno; la seconda, del restante 60% (del 95%), entro il 30 novembre. Il saldo andrà versato entro il 16 giugno dell’anno successivo a quello cui si riferisce oppure entro il 16 luglio, con la maggiorazione dello 0,40%”.
[A cura di: avv. Gianfranco Rosati – resp. Commissione legale Appc]
Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 37 del 03/01/14) ha, di fatto, mutato un orientamento consolidato della Giurisprudenza in tema dell’art. 13 L. 431/98. L’art. 13 sovramenzionato titolato “Patti Contrari alla Legge” prevede al 1° comma la nullità di ogni pattuizione volta a determinare un canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato.
In tale ipotesi (vedi 5° comma) il conduttore, con azione proponibile sino a 6 mesi dopo la riconsegna dell’unità immobiliare può chiedere la restituzione di quanto pagato in eccesso.
Questo il quadro.
Sino ad oggi la Giurisprudenza consolidata dalla S.C. (vedi sent. n. 8230/10; 8148/09 e soprattutto n. 16089/03) aveva escluso che l’art. 13 potesse colpire con la sanzione della nullità, in conseguenza della mancata registrazione, la pattuizione di un canone superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato poiché la “ratio” era il divieto di imposizione di canoni maggiori ma solo nel corso dello svolgimento del rapporto locatizio.
In altri termini, la Suprema Corte argomentava che anche se era stato versato dal conduttore un canone superiore a quello stabilito nel contratto scritto e registrato e quello superiore risultava da altro atto separato, (logicamente non registrato), trattavasi in ipotesi di simulazione parziale per cui era valida tra le parti la pattuizione contenuta nella scrittura privata non registrata ed il conduttore non era legittimato a richiedere quanto corrisposto in eccesso.
La Suprema Corte operava un ragionamento squisitamente privatistico escludendo, in virtù dell’istituto della simulazione, in questo caso relativa, che violazioni di carattere tributario potessero colpire con la nullità pattuizioni contrattuali.
Questa impostazione era ed è avvalorata anche dall’art. 10 ultimo comma della L. 212/01 (statuto dei diritti del contribuente) laddove prevede che “violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possano essere causa di nullità del contratto”. La Cassazione, quindi, operava un netto distinguo tra patologia del negozio e/o diritto privato e diritto tributario nel senso che le violazioni di questi potranno comportare sanzioni di carattere fiscale, ma non potranno mai inficiare pattuizioni contrattuali.
In questo quadro è intervenuta l’ordinanza n. 37 del 03/01/14 sovramenzionata che in base alle teorie di “causa concreta del contratto” e “abuso di diritto”, ha argomentato che in presenza di corresponsione di un canone superiore a quello risultante dal contratto registrato si ha la realizzazione di un risultato vietato dalla Legge; con la conseguenza che causa concreta di siffatto negozio è l’elusione fiscale che, ponendosi in aperta violazione di una norma di legge, non può che essere affetto da nullità.
Orbene, tale impostazione presenta il fianco a diverse critiche.
In primis: è pacifico che la Suprema Corte, mutando l’orientamento giuridico consolidato in tema, ha individuato nella lotta al cosiddetto mercato sommerso degli affitti (ergo intento puramente fiscale) la ratio dell’art. 13 L. 431/98. Invero tale interpretazione appare una forzatura del dettato legislativo. Infatti il fine cui tende l’articolo in esame è quello di sanzionare con la nullità qualsiasi pattuizione in corso di contratto tendente ad assicurare al locatore un canone maggiore di quello dichiarato, non se questi è stato pattuito “ab origine”. In sostanza: i principi dell’ordinanza 37/14 si possono individuare, come già citato nella “causa concreta del contratto” e “abuso di diritto”.
È indispensabile esaminare alcuni precedenti in cui il Legislatore ha imposto “sanzioni privatistiche” (nullità e/o improcedibilità) come diretta conseguenza di illeciti fiscali. Si è tentato quindi di commistionare diritto privato e diritto tributario ma, come si vedrà, con risultati privi di significato.
Procediamo per gradi:
* Anno 1998, L. 431/98 all’art. 7 prevedeva, quale condizione per l’esecuzione del provvedimento di rilascio di un immobile, l’onere per il proprietario di dimostrare che:
– il contratto di locazione era stato registrato;
– l’unità immobiliare era stata denunciata ai fini dell’allora Ici;
– il relativo reddito fosse stato dichiarato.
La Consulta, con la propria sentenza n. 333/01 ne ha dichiarato l’incostituzionalità;
* Anno 2011, D. Lgs 23/11 all’art. 3, commi 8 e 9, comminava pesantissime sanzioni al locatore per la mancata registrazione del contratto (contratto di 8 anni ad un canone calcolato sul triplo della rendita catastale, un vero e proprio esproprio indiretto).
Anche qui la Consulta, con la sentenza 50/14 ne ha dichiarato l’incostituzionalità.
Ebbene operando un esame sistematico del “corpus iuris” vigente (con particolare riferimento anche alla L. 212/01 statuto del contribuente) ed alla luce della costante giurisprudenza della Corte Costituzionale non si può che concludere che ogni tentativo del Legislatore di compenetrazione tra diritto privato e diritto tributario è stato perentoriamente cassato.
La ratio di siffatta impostazione è da ricercarsi nel principio, costituzionalmente garantito, di salvaguardia dell’autonomia delle parti nell’ambito del contratto per cui, in presenza di illeciti fiscali (evasione e/o elusione), l’autore ne dovrà rispondere autonomamente al fisco, ma tali inadempimenti non potranno mai essere causa di nullità di qualsivoglia accordo contrattuale.
[A cura di: Andrea Cartosio – Istituto nazionale tributaristi]
Il reverse charge o inversione contabile è un operazione finanziaria introdotta, in origine, dalla Comunità Europea per combattere l’evasione fiscale connessa al pagamento dell’IVA.
La metodologia di applicazione del reverse charge si ha quando un soggetto passivo Iva in qualità di cedente o prestatore di servizi emette fattura senza l’indicazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) specificando che tale operazione/prestazione è soggetta a reverse charge, come disposto dall’art. 17 del D.P.R. 633/72; questo obbligherà il destinatario della cessione/prestazione, anch’esso soggetto passivo Iva, ad adempiere al pagamento di tale imposta.
La legge finanziaria entrata in vigore il 1° gennaio 2015 ha esteso l’applicazione dell’IVA con il meccanismo del reverse charge apportando modifiche sostanziali all’articolo 17, comma 6, del D.P.R. n. 633/72 (modificata all’articolo 1, comma 629, lettera a, legge n. 19/2014) volte proprio alla eliminazione della possibilità di evasione fiscale.
La circolare 14/E del 27 marzo 2015, pubblicata dall’Agenzia delle Entrate, è volta a chiarire (anche se di fatto lascia comunque dubbi interpretativi) alcuni aspetti lacunosi della suddetta materia presente in Finanziaria 2015 in riferimento alla disciplina relativa al settore edile, installazione degli impianti ribadendo inoltre i soggetti esclusi dall’applicazione del reverse charge.
Modifiche alla normativa relativa al settore edile
L’Amministrazione finanziaria chiarisce che l’inversione contabile (reverse charge) è possibile in caso di prestazioni di pulizia, demolizione, installazione di impianti e completamento in relazione a edifici a prescindere dalla presenza o meno di un rapporto di subappalto o alla tipologia di attività svolta dal committente; viene inoltre specificato che, tale regime, risulta applicabile a tutte le prestazioni B2B.
Al paragrafo 1.2 della circolare 14/E viene specificato come le prestazioni soggette al regime di reverse charge debbano essere individuate nell’ambito di quelle elencate nella sezione F della tabella ATECO, relative alle sole prestazioni che possano intendersi riferite ad edifici e non già a tutte quelle genericamente riferibili a beni immobili. “È stato precisato che per edificio e fabbricato si intende qualsiasi costruzione coperta isolata da vie o da spazi vuoti, oppure separata da altre costruzioni mediante muri che si elevano, senza soluzione di continuità, dalle fondamenta al tetto, che disponga di uno o più liberi accessi sulla via, e possa avere una o più scale autonome”.
In base alla ricostruzione normativa sopra operata, pertanto, si è dell’avviso che il Legislatore, utilizzando il riferimento alla nozione di edificio, abbia sostanzialmente voluto limitare la
disposizione in commento ai fabbricati, come risultanti dalle disposizioni sopra esposte e non alla più ampia categoria dei beni immobili. Dunque secondo quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate “si ritiene che non rientrino, pertanto, nella nozione di edificio e vadano, quindi, escluse dal meccanismo del reverse charge le prestazioni di servizi di cui alla lettera a-ter) aventi ad oggetto, ad esempio, terreni, parti del suolo, parcheggi, piscine, giardini, etc., salvo che questi non costituiscano un elemento integrante dell’edificio stesso (ad esempio, piscine collocate sui terrazzi, giardini pensili, impianti fotovoltaici collocati sui tetti, etc.)”.
Punto assai spinoso per quanto riguarda il completamento degli edifici, poiché la circolare non colma i dubbi sorti dalla lettura della suddetta normativa “Si osserva che il termine completamento di edifici, contenuto nella lettera a-ter) in commento, è utilizzato dal Legislatore in modo atecnico” pertanto bisognerà fare riferimento alla suddetta circolare, portante la classificazione dei codici ATECO, per evincere se l’attività in questione rientra o meno nell’applicazione del reverse charge.
Modifiche alla normativa relativa alla istallazione di impianti
La circolare 14/E ribadisce l’applicabilità del inversione contabile a: “ai trasferimenti di quote di emissioni di gas a effetto serra definite dall’articolo 3 della Direttiva 2003/87/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 ottobre 2003, e successive modificazioni, trasferibili ai sensi dell’articolo 12 della medesima Direttiva 2003/87/CE, e successive modificazioni; ai trasferimenti di altre unità che possono essere utilizzate dai gestori per conformarsi alla citata Direttiva 2003/87/CE e di certificati relativi al gas e all’energia elettrica;alle cessioni di gas e di energia elettrica a un soggetto passivo-rivenditore ai sensi dell’articolo 7-bis, comma 3, lettera a)”.
Inoltre viene reso applicabile la metodologia dell’inversione contabile alle cessione di gas e di energia elettrica al soggetto passivo.
Nessuna modifica risulta essere apportata nell’applicazione del suddetto meccanismo contabile (reverse charge) per quanto riguarda i condomini, dunque gli interventi effettuati dalle imprese sulle parti comuni risultano esclusi.
[A cura di: Nuovo Fiscooggi – Agenzia delle Entrate (tratto da: Giurisprudenza delle imposte edita da ASSONIME)]
La controversia oggetto della decisione di legittimità in rassegna (Cassazione, 4580/2015) attiene alla legittimità dell’avviso di liquidazione col quale l’amministrazione finanziaria aveva assoggettato all’imposta di registro in misura proporzionale numerosi contratti d’affitto di immobili non registrati, imputando tale violazione e chiedendo il pagamento a un solo comproprietario, il quale oppose che la sua quota del 50% determinava che il canone di locazione era in misura inferiore “al limite di legge oltre il quale si imponeva la registrazione del relativo contratto”.
Infatti, poiché la legge di registro individua una soglia – all’epoca indicata in 2 milioni e 500mila lire annue – al di sotto della quale non sussiste alcun obbligo di registrazione, il comproprietario oppose sia la mancanza della prova diretta della stipula di un unico contratto di locazione per ciascuno dei detti immobili, sia che, al più, si poteva presumere la stipula verbale di distinti contratti di locazione corrispondenti alla sua quota di comproprietà.
I giudici di merito hanno rigettato tale tesi evidenziando, in primo luogo, che il Dpr 131/1986 – di approvazione del Testo unico dell’imposta di registro – impone all’articolo 3, comma 1, lettera a), l’obbligo di registrazione per i contratti verbali di locazione o affitto di beni immobili esistenti nel territorio dello Stato e relative cessioni, risoluzioni e proroghe anche tacite, e – al successivo articolo 10, comma 1, lettera a) – individua gli obbligati, per quanto qui interessa, nelle parti contraenti per le scritture private non autenticate, per i contratti verbali e per gli atti pubblici e privati formati all’estero.
La questione oggetto dell’intervento della Cassazione concerne, quindi, la legittimità dell’individuazione di un contratto di locazione immobiliare limitatamente a ogni singolo comproprietario oppure la necessaria rilevanza unitaria del contratto di locazione che riverbera i suoi effetti, innanzitutto, ai fini del superamento della soglia quantitativa che esclude l’obbligo di registrazione. La Commissione tributaria regionale aveva ritenuto che “oggetto dei contratti di locazione erano gli immobili nella loro interezza perché la quota di ciascun comproprietario è per legge ideale e non è quindi concretamente individuabile in occasione della stipulazione del contratto”, con l’effetto che “obbligati alla registrazione dei contratti erano entrambi i proprietari degli immobili in via solidale”, e i giudici di legittimità hanno confermato tale conclusione, precisandone le ragioni giustificatrici.
La tesi del comproprietario della rilevanza fiscale della sola sua quota, fondata sull’articolo 1103 del codice civile secondo cui ciascun comproprietario può disporre del suo diritto e cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota, è stata ritenuta dalla decisione in nota irrilevante in forza della disciplina dettata nel successivo articolo 1105, il cui primo comma dispone che tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell’amministrazione della cosa comune.
La conseguenza tratta dalla sentenza del Supremo collegio in commento è che, salvo prova contraria, il contratto di locazione di immobile di più proprietari si presume concluso da tutti i comproprietari proprio in ragione dei pari poteri che, ex articolo 1105, spettano a ciascun comproprietario “e da cui deve essere ex lege ricavato il consenso di tutti i comunisti e quindi la sua stipula unitaria”.
Infatti, al fine di escludere l’avvenuta prestazione del consenso da parte di un comproprietario, quest’ultimo ha l’onere della relativa dimostrazione, come già affermato dalla giurisprudenza della Cassazione nelle sentenze, richiamate da questa in rassegna, n. 549 del 17 gennaio 2012 e n. 10996 del 19 maggio 2011. I riflessi fiscali sono evidenti in ordine alla responsabilità solidale del comproprietario dell’immobile oggetto di locazione, in quanto si applica l’articolo 57 del Testo unico, ove si prevede che, oltre ai pubblici ufficiali, che hanno redatto, ricevuto o autenticato l’atto, e i soggetti nel cui interesse fu richiesta la registrazione, sono solidalmente obbligati al pagamento dell’imposta le parti contraenti, le parti in causa, coloro che hanno sottoscritto o avrebbero dovuto sottoscrivere le denunce di cui agli articoli 12 e 19, ossia, rispettivamente, vuoi la denuncia originaria vuoi quella di eventi successivi alla registrazione.
Per completezza di informazione, si rammenta che l’articolo 12 prevede, al primo comma, che la registrazione dei contratti verbali che sono soggetti in termine fisso deve essere richiesta, tranne che per le cessioni, risoluzioni e proroghe dei contratti di locazione di cui all’articolo 17, presentando all’ufficio una denuncia in doppio originale redatta su modelli forniti dall’ufficio stesso e che la denuncia deve essere sottoscritta da almeno una delle parti contraenti e deve indicare le generalità e il domicilio di queste, il luogo e la data di stipulazione, l’oggetto, il corrispettivo pattuito e la durata del contratto. Non si riscontano precedenti della Corte regolatrice del diritto negli esatti termini di questa in commento.
Abusi sul pianerottolo
Arrestato lo stupratore
È stato fermato il giovane di 24 anni che nottetempo aveva tentato di violentare una donna di 29 anni al rientro nella sua casa di Roma. La vittima era riuscita a difendersi e a mettere in fuga il suo aggressore. Dopo essersi recata in ospedale per accertamenti, la 29enne ha deciso di sporgere denuncia ai carabinieri della zona, che si sono messi sulle tracce del malvivente e lo hanno arrestato, il giorno dopo, mentre si aggirava nei pressi della stessa casa dove era avvenuto l’agguato.
Liti condominiali: incendia
L’auto dell’amministratore
Un libero professionista di 50 anni, residente a Reggio Emilia, è stato fermato dai carabinieri dopo aver bruciato l’auto del suo amministratore di condominio, un 38enne anch’egli reggiano. Pare che le minacce e gli atti intimidatori andassero avanti da una ventina di giorni. Oltre al rogo dell’auto, il 50enne aveva cercato di danneggiare la macchina della madre dell’amministratore e aveva rubato l’insegna dello studio. Dalle indagini dei militari è emersa l’esistenza di vecchie ruggini per ingiunzioni di pagamento per spese condominiali non corrisposte e altre incomprensioni legate a una controversia con una terza persona.
Si allacciano abusivamente
alla corrente condominiale
I carabinieri di un comune in provincia di Avellino hanno tratto in arresto una coppia di coniugi di 50 e 49 anni, che aveva allacciato abusivamente il proprio contatore domestico a quello di alimentazione della luce del vano condominiale, danneggiando il circuito elettrico dello stabile. Insospettiti dall’aumento dell’importo della bolletta della scala condominiale, gli inquilini hanno deciso di rivolgersi alle forze dell’ordine che, dopo le indagini del caso, hanno accertato che la coppia aveva manomesso il contatore condominiale, sottraendo energia elettrica per circa un migliaio di euro. I due coniugi sono stati messi agli arresti domiciliari.
L’artigiano di famiglia
deruba il proprietario
Quadri, stereo e un maxi schermo da 52 pollici. Questi gli oggetti trafugati da una villa nel centro storico di Modena. Ad accorgersene e a sporgere denuncia è stato il proprietario, un uomo residente in un comune della provincia, rientrato in città dopo alcuni giorni di assenza. A seguito delle indagini, la polizia è risalita a un artigiano che stava svolgendo dei lavori nella villa per conto del proprietario. Messo alle strette, l’uomo avrebbe confessato e ammesso di aver regalato in parte la refurtiva. La restante parte sarebbe stata consegnata ai suoi creditori, come pegno.
94enne rapinata e lasciata
imbavagliata per 2 giorni
Un’anziana di 94 anni è rimasta legata e imbavagliata nella sua casa in provincia di Ferrara a seguito di una rapina. A liberarla è stato il figlio 72enne, avvertito dai vicini di casa che non vedevano la donna uscire dalla sua abitazione da giorni. Dopo essere stata soccorsa dai sanitari del 118, l’anziana ha raccontato ai carabinieri di essere stata immobilizzata con delle fascette elettriche mentre i rapinatori (probabilmente tre) erano intenti a rovistare in tutta la casa in cerca di contanti. Non trovando niente, però, si sono accontentati di una catenina, alcuni preziosi e un cellulare.
In materia di fiscalitàimmobiliare, è sempre di grande attualità il tema del bonus prima casa. Ma
questa volta il quesito giunto alla redazione di Nuovo Fiscooggi – la rivista
ufficiale dell’Agenzia delle Entrate – è particolare, riguardano il caso di un
contribuente che, dopo aver acquistato un immobile con i benefici per
l’abitazione principale, lo ha venduto nel quinquennio e si è trasferito
all’estero, iscrivendosi all’Aire, e adesso si domanda se debba o meno decadere
dall’agevolazione?
La risposta, anche in questo
caso, è affidata all’esperto di tali tematiche, Gianfranco Mingione, il quale
precisa: “Decade dall’agevolazione prima casa il contribuente che trasferisce,
a titolo gratuito o oneroso, un immobile per il quale ha fruito dei benefici,
prima che siano passati cinque anni dall’acquisto (comma 4 della nota II-bis all’articolo
1 della Tariffa, parte I, allegata al Dpr 131/1986). L’eventuale trasferimento
all’estero non impedisce il verificarsi della decadenza dall’agevolazione che,
però, può essere evitata qualora, entro un anno, si acquisti un immobile, anche
situato in uno Stato estero, a condizione che sussistano strumenti di
cooperazione amministrativa che permettano di verificare che effettivamente lo
stesso sia stato adibito a dimora abituale (circolare 31/E del 2010). È in ogni
caso possibile, se non si intende acquistare un nuovo immobile entro un anno,
comunicare all’Agenzia delle Entrate tale volontà, chiedendo la riliquidazione
dell’imposta. L’ufficio provvederà a notificare avviso di liquidazione
dell’imposta dovuta e dei relativi interessi, senza applicare la sanzione del
30% (risoluzione 112/E del 2012).
Molto si staparlando, nelle ultime settimane, delle detrazioni fiscali, sia per i lavori di
ristrutturazione che per quelli di incremento dell’efficienza energetica. Ma,
al di là dell’aspetto prettamente politico, con la diatriba sulla potenziale
stabilizzazione dell’ecobonus, ci sono numerosi nodi fiscali che,
quotidianamente, rendono particolarmente complessa la fruizione dei benefici in
ambito condominiale. Tra questi, quello oggetto di un quesito pervenuto nei
giorni scorsi alla rubrica di posta fiscale di “Nuovo FiscoOggi”, la rivista
ufficiale dell’Agenzia delle Entrate. La questione posta dal contribuente è la
seguente: “In tema di agevolazioni fiscali per lavori condominiali di
manutenzione straordinaria, il proprietario di un immobile commerciale (C/1)
può fruire della detrazione al 50%?
Ecco la risposta fornita dall’esperto, Gianfranco Mingione: “Hanno
accesso al bonus ristrutturazioni gli interventi di manutenzione sia ordinaria
che straordinaria svolti sulle parti comuni di edifici residenziali, indicate
dall’articolo 1117 del codice civile. Un edificio si considera residenziale se
la superficie complessiva delle unità immobiliari destinate a residenza è
superiore al 50%; in tale ipotesi, limitatamente alle spese sostenute sulle
parti comuni, hanno diritto alla detrazione anche i proprietari delle unità non
residenziali (articolo 14, comma 2, Dl 63/2013). Qualora invece la superficie
complessiva delle unità residenziali sia inferiore al 50%, la detrazione per le
spese realizzate sulle parti comuni è ammessa solo per i possessori o detentori
di unità immobiliari destinate ad abitazione (circolare 57/E del 1998,
paragrafo 3.2)”.
[A cura di: avv. Chiara Magnani –
Associazione Foro Immobiliare] Con la sentenza del 17/07/2015 il Tribunale di
Alessandria ha accolto il reclamo proposto dall’ente erogatore del servizio
idrico avverso l’ordinanza – emessa a conclusione di un procedimento cautelare,
ex art. 700 c.p.c. azionato dai singoli condòmini in regola con i pagamenti –
con cui il giudice di primo grado aveva, invece, ordinato al fornitore di
ripristinare, in favore del condominio, l’ordinario flusso di acqua.
L’ente erogatore, infatti, protraendosi
la morosità del condominio – destinatario tra l’altro di decreto ingiuntivo
esecutivo e non opposto – in attuazione delle condizioni contrattuali procedeva
a ridurre al minimo la somministrazione dell’acqua per le utenze domestiche. A
fronte della riduzione del servizio, i condòmini in regola con il pagamento
delle rate condominali richiedevano l’immediata riattivazione del servizio.
Il Tribunale di Alessandria,
nell’accogliere il reclamo, evidenzia come parte del contratto di
somministrazione dell’acqua sia solo ed esclusivamente il condominio e non i
singoli partecipanti, come solo l’amministratore – nella sua qualità di
rappresentante della collettività tanto nei rapporti esterni quanto in quelli
interni – sia il soggetto legittimato ad effettuare il pagamento delle relative
utenze e come, pertanto, l’eventuale pagamento operato dai singoli condòmini
non abbia alcuna efficacia estintiva del debito originato dal condominio (Cass.
3636/2014)
Nel rapporto contrattuale tra il terzo
fornitore e il condominio, la circostanza che alcuni condòmini abbiano
effettuato regolarmente, in favore del condominio, il versamento delle quote
condominiali di propria spettanza è del tutto irrilevante: nel caso in esame,
comunque, i singoli condòmini non avevano materialmente effettuato alcun
pagamento in favore del fornitore, e comunque anche se i virtuosi avessero
corrisposto gli importi direttamente all’ente erogatore, il loro pagamento non
avrebbe avuto alcuna capacità estintiva del debito contratto dal condominio.
L’amministratore, nel caso di specie, non aveva versato alcun importo al
fornitore, pertanto, non vi era stato alcun adempimento parziale del
condominio. Pare evidente come anche i condòmini virtuosi rispondano
dell’inadempimento del condominio e come siano esposti al rischio di vedersi
richiedere dal fornitore, ai sensi e per gli effetti dell’art. 63 disp. att.
c.c., il pagamento, pro quota, del credito maturato nei confronti del
condominio.
I condòmini virtuosi, a tutela delle proprie
ragioni, come suggerito anche dal Tribunale di Alessandria, ben possono
attivarsi per fare in modo che l’amministratore metta a disposizione del
fornitore le somme già incassate nonché operi per far valere nei confronti dei
morosi i pagamenti già effettuati.
Il Tribunale della libertà
rigettava la richiesta di riesame proposta nei confronti del decreto di
sequestro preventivo emesso dal Gip, finalizzato alla confisca per un importo
equivalente al reato di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi e
Iva, di cui all’articolo 5 del Dlgs 74/2000, con evasione superiore, con
riferimento a taluna delle singole imposte, a 30mila euro.
Il legale rappresentate dell’ente
aveva sostenuto l’illegittimità del provvedimento cautelare in danno alla
fondazione, ritenendo la mancanza del fumus
commissi delicti del reato
ipotizzato. Di diverso avviso il Tribunale del riesame, che ha confermato la
misura cautelare alla luce di quanto emerso dalle indagini della Guardia di
finanza. Infatti, dalla verifica fiscale presso la fondazione era emerso lo
svolgimento di un’attività commerciale alberghiera in favore di turisti
italiani e stranieri, e i relativi ricavi, per gli anni in contestazione, erano
risultati “preponderanti rispetto all’attività istituzionale (colonie, attività
formativa svolta in forza della titolarità diretta di istituti scolastici
paritari)”.
Con unico motivo l’imputato
ricorre per cassazione, tentando di smontare l’impianto accusatorio
dell’ordinanza impugnata, con la sottolineatura che le attività svolte
dall’ente erano eterogenee e, soprattutto, che quella alberghiera rientrava nei
fini istituzionali. In particolare, il ricorrente lamenta violazione della
legge penale (articolo 321, comma 2, cpp) e di quella fiscale (articolo 149 del
Dpr 917/1986: perdita della qualifica di ente non commerciale), sul rilievo
che, per il periodo d’imposta in contestazione, fosse stata proprio la Guardia
di finanza a escludere che la fondazione avesse perso il requisito della “non
commercialità”, con la conseguenza che i corrispettivi specifici ricevuti per
le prestazioni di natura non commerciale dovessero essere ritenuti prevalenti
rispetto al valore normale delle restanti prestazioni. Inoltre, l’imputato
osserva che, anche in materia di Iva, le operazioni svolte dall’ente
nell’ambito della propria attività istituzionale restano estranee al campo di
applicazione dell’imposta.
Decidendo la vertenza, la
Cassazione rigetta il ricorso, affermando che scatta il sequestro per la
presunta evasione fiscale a carico del vertice della fondazione che svolge,
oltre ai consueti compiti istituzionali, anche attività commerciali non
fatturate. Un procedimento, quello del Tribunale della libertà, assolutamente
corretto, spiega la Corte suprema, considerato che nella specie si è fatto
“buon governo” dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in
materia, anche rispetto al profilo del superamento della soglia di punibilità
di cui all’articolo 5 del Dlgs 74/2000 (vedi Cassazione, sezioni unite,
10561/2014), confermando la confisca diretta o in forma specifica sui beni
della fondazione (beneficiaria del risparmio di spesa conseguente
all’evasione).
Sul punto, il giudice di
legittimità ha chiarito che le investigazioni hanno avuto a oggetto un ente
(fondazione) che non ha perso il requisito della “non commercialità” (articolo
149 del Tuir), pur avendo svolto attività di natura commerciale. Ad avviso del
Collegio giudicante, in base ai principi che presidiano la materia, il
carattere commerciale dell’attività si evidenzia in modo oggettivo, a
prescindere dalla natura dell’ente, dalla destinazione degli utili e dalla
totale assenza di finalità lucrative. Infatti, per “esercizio di imprese” si
intende, sia ai fini Ires (articolo 55 del Tuir) sia ai fini Iva (articolo 4,
primo comma, Dpr 633/1972), “l’esercizio per professione abituale, ancorché non
esclusiva”, delle attività commerciali di cui all’articolo 2195 del codice
civile, anche se non organizzate in forma d’impresa, nonché l’esercizio di
attività, organizzate in forma di impresa, dirette alla prestazione di servizi
che non rientrano nell’articolo 2195 del codice civile.
Peraltro, l’articolo 39 del Dpr
600/1973 dispone che l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di
passività dichiarate è desumibile sulla base di presunzioni semplici, purché
queste siano gravi, precise e concordanti (Cassazione 40992/2013).
Inoltre, qualora
l’Amministrazione finanziaria contesti indebite detrazioni di Iva e deduzioni
di costi fatturati, fornendo elementi, anche semplicemente presuntivi, purché
oggettivi, atti ad asseverare l’emissione di fatture in assoluta assenza di
corrispondente prestazione, è onere del contribuente che rivendichi la
legittimità della deduzione degli esborsi fatturati e quella della detrazione
dell’Iva correlativamente indicata, fornire la prova dell’effettiva esistenza
delle operazioni (cfr. Cassazione
23325/2013).
[A cura di: Marco Denaro – Nuovo FiscoOggi, Agenzia delleEntrate] Ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, le successive
“rettifiche”, che integrano e completano gli effetti giuridici dell’atto
originario, costituiscono, sul piano negoziale, nuovi atti, separatamente
tassabili rispetto a quello iniziale. Ne consegue che, se tali rettifiche
intervengono nell’ambito dei trasferimenti immobiliari per cui si è goduto
delle agevolazioni fiscali prima casa ne determinano il loro venir meno. Sulla
base di tale assunto, con la sentenza n. 16019 del 29 luglio 2015, la
Cassazione ha accolto il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso
una sentenza della Ctr che, nel rigettare l’appello erariale, aveva annullato
un atto di recupero dell’imposta di registro emesso nei confronti di due
coniugi relativamente all’intervenuta decadenza benefici prima casa, di cui
alla nota II-bis), articolo 1, comma 4, della Tariffa, parte I,
allegata al Dpr 131/1986 (Tur).
BONUS PRIMA CASA
La vigente nota II-bis) dell’articolo 1 della
Tariffa, parte I, allegata al Tur, prevede l’applicazione agevolata
dell’imposta di registro con aliquota del 2% (ovvero dell’Iva al 4%), nonché le
imposte ipocatastali in misura fissa pari a 50 euro ciascuna (200 euro in caso
di operazione soggetta a Iva), agli atti traslativi a titolo oneroso della
proprietà di case di abitazione “non di lusso” e agli atti traslativi o
costitutivi della nuda proprietà, dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione
relativi alle stesse, a condizione che:
* l’immobile sia ubicato nel territorio del comune in cui
l’acquirente ha o stabilisca entro diciotto mesi dall’acquisto la propria
residenza o, se diverso, in quello in cui l’acquirente svolge la propria
attività;
* nell’atto di acquisto l’acquirente dichiari di non essere
titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà,
usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del
comune in cui è situato l’immobile da acquistare;
* nell’atto di acquisto l’acquirente dichiari di non essere
titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale su tutto il
territorio nazionale dei diritti di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e
nuda proprietà su altra casa di abitazione acquistata dallo stesso soggetto o
dal coniuge con le agevolazioni in parola.
Detti requisiti soggettivi e oggettivi devono ricorrere
congiuntamente per l’applicazione delle aliquote agevolate previste ai fini
delle imposte di registro, ipotecaria e catastale. Il comma 4 dell’articolo 1
della citata nota dispone poi che, nelle ipotesi di dichiarazione mendace o di
trasferimento (a titolo oneroso o gratuito) degli immobili acquistati con i
benefici in parola, prima del decorso del termine di cinque anni dalla data del
loro acquisto, le imposte sono dovute nella misura ordinaria, tranne nel caso
in cui il contribuente, entro un anno dall’alienazione dell’immobile acquistato
con i benefici, proceda all’acquisto di altro immobile da adibire a propria
abitazione principale.
Ne consegue che, nel caso di immobili acquistati con i
benefici prima casa e rivenduti prima del decorso del termine di cinque anni
dalla data del loro acquisto, l’Amministrazione finanziaria procede al recupero
della differenza fra l’imposta calcolata in assenza di agevolazioni e quella
risultante dall’applicazione dell’aliquota agevolata, nonché all’irrogazione
della sanzione amministrativa pari al 30% della differenza medesima.
GIUDIZIO DI MERITO
Nel settembre del 2004, due coniugi acquistavano un
fabbricato in comproprietà (50% a testa), usufruendo, ai fini dell’imposta di
registro, dell’agevolazione prima casa. Nel successivo mese di ottobre, sempre
innanzi allo stesso ufficiale rogante, stipulavano un atto rettificativo del
primo, nel quale si precisava che l’acquirente dell’unità immobiliare era il
solo marito e non anche la moglie, che solo per mero errore era stata indicata
come comproprietaria nell’atto originario. A seguito di tale rettifica,
l’ufficio procedeva alla notifica di due avvisi di liquidazione: uno alla
moglie, con il quale le si revocavano i benefici prima casa, avendo la stessa
ceduto al marito il suo 50% entro i cinque anni dall’acquisto originario
dell’immobile, senza aver proceduto a un successivo riacquisto; l’altro, per
entrambi i coniugi, in quanto responsabili solidali, con riferimento al 50%
dell’agevolazione indebitamente goduta per il secondo acquisto. Il ricorso dei
coniugi veniva accolto in primo grado – con sentenza confermata anche in
appello – nella considerazione che il secondo atto non aveva comportato alcun
trasferimento di diritti reali e, quindi, nessuna decadenza dall’agevolazione
prima casa.
LA CASSAZIONE
Nel ricorso di legittimità, l’Agenzia lamenta la violazione
dell’articolo 20 del Tur – per cui l’imposta di registro si applica secondo la
intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla
registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente – da
parte dei giudici del gravame, che non avrebbero rilevato come il successivo
atto in rettifica avesse, di fatto, comportato un mutamento della titolarità
del 50% della quota dell’immobile compravenduto.
Per la Corte suprema, il ricorso è fondato. Infatti, sulla
base di un principio consolidato, l’atto rettificativo posto in essere
successivamente a quello originario, modificandone gli effetti giuridici,
costituisce un nuovo atto, autonomamente tassabile rispetto al primo, che continua
a produrre effetti (Cassazione, sentenza 4220/2006).