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LOCAZIONI COMMERCIALI: I GRAVI MOTIVI DI RECESSO ANTICIPATO DEL CONDUTTORE

[A cura di: avv. Ermenegildo Mario Appiano – Segretario ALAC Torino]


Come noto, i contratti di locazione relativi ad immobili urbani ad uso diverso dall’abitazione hanno una durata minima fissata dalla legge, che è di sei anni (nove se i locali sono adibiti ad attività alberghiera).

Ciò ai sensi dell’art.27 della legge 392/1978.

Il locatore non ha possibilità alcuna di recedere anticipatamente da tale contratto, mentre il conduttore può farlo in due diverse situazioni. In primo luogo, qualora tale facoltà gli sia stata riconosciuta mediante un’apposita clausola contrattuale. In secondo luogo, anche in assenza di qualunque pattuizione sul recesso anticipato del conduttore, se sussistono “gravi motivi”, tali cioè da non rendere più ragionevole che il conduttore stesso continui ad essere vincolato dal rapporto di locazione (ultimo comma della norma citata).


I GRAVI MOTIVI

Con riferimento allora a questa seconda ipotesi, ci si è posti il problema di capire in cosa consistano i “gravi motivi” in questione. In effetti, se si consentisse al conduttore di addurre in qualsiasi circostanza la presenza di un “grave motivo”, ciò gli consentirebbe – di fatto – di recedere a piacimento dal contratto di locazione, cosa invece non consentitagli in mancanza di un’apposita previsione contrattuale, come poc’anzi spiegato. 

Allo stesso vietato risultato si addiverrebbe se si consentisse comunque al conduttore di determinare egli stesso il venire in essere delle circostanze che verrebbero poi addotte a fondamento degli stessi “gravi motivi”.


LA CASSAZIONE

Questo principio è ormai pacifico nella giurisprudenza della Cassazione. Al riguardo, basti richiamare una delle decisioni più recenti in materia (Sez. VI, ordinanza 11/03/2011, n. 5911), dove si ribadisce che “i gravi motivi in presenza dei quali l’art. 27, ultimo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392, indipendentemente dalle previsioni contrattuali, consente in qualsiasi momento il recesso del conduttore dal contratto di locazione devono collegarsi a fatti estranei alla volontà del conduttore, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto”.

Andando però più nello specifico, ci si può domandare come tale principio funziona in situazioni complesse, e cioè quando i locali locati non rappresentino l’unico immobile nel quale il conduttore esercita la propria attività. 


GRANDE DISTRIBUZIONE

Caso emblematico è quello della grande distribuzione, dove la stessa società può gestire diversi ipermercati, locando da soggetti diversi più immobili in differenti località.

A dirimere la situazione, soccorre una decisione della Cassazione (sezione III, sentenza 3/12/2011, n.26711), avente per oggetto il caso in  cui un simile conduttore – cambiata la propria compagine sociale e modificata di conseguenza la propria politica aziendale – invocava la presenza dei “gravi motivi” di recesso per liberarsi dal rapporto di locazione relativo ad un immobile che più non gli interessava, mentre continuava a svolgere la propria attività commerciale in tutti gli altri punti vendita. In pratica, “a fronte di un piano di riqualificazione aziendale promosso dal nuovo gruppo proprietario (della società conduttrice: n.d.r.), che aveva consentito, su scala nazionale, un considerevole aumento del guadagno, soltanto l’esercizio per cui è causa non aveva invece risposto alle attese” e, conseguentemente, si cercava di dismettere. 

Nella fattispecie la Cassazione ha negato la sussistenza dei “gravi motivi” di recesso.

Per stabilirlo, la Suprema Corte è partita dalla premessa “che, secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, le ragioni che consentono al locatario di liberarsi del vincolo contrattuale devono essere determinate da avvenimenti estranei alla sua volontà, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore la sua prosecuzione”. Inoltre, con riferimento all’andamento dell’attività aziendale, è altresì principio consolidato che “può integrare grave motivo, legittimante il recesso del conduttore, un andamento della congiuntura economica (sia favorevole che sfavorevole all’attività di impresa), sopravvenuto e oggettivamente imprevedibile (quando fu stipulato il contratto), che lo obblighi ad ampliare o ridurre la struttura aziendale in misura tale da rendergli particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo” (cfr. Cass. n.10980/1996, n.3418/04, n.9443/2010). 

Ma è utile precisare a riguardo – e tale rilievo non è di poco conto – che i fatti, per essere tali da rendere oltremodo gravosa la prosecuzione del contratto, devono presentare una connotazione oggettiva, non potendo risolversi nella unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine all’opportunità o meno di continuare a occupare l’immobile locato, poiché, in tal caso, si ipotizzerebbe la sussistenza di un recesso ad nutum, contrario all’interpretazione letterale, oltre che allo spirito della suddetta norma (cfr. Cass. n.5293/08, n.5328/07) e che la gravosità della prosecuzione del rapporto locativo deve essere valutata in rapporto alla dimensione globale dell’azienda, specialmente se sia di rilievo nazionale o multinazionale, verificandosi a tal fine se il sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie sia tale da incidere significativamente sull’andamento dell’azienda del conduttore, considerata nel complesso delle sue varie articolazioni territoriali”.

Applicando tali principi al caso di specie, la Cassazione ha quindi avvallato quanto deciso dalla Corte d’Appello di Brescia, la quale aveva negato la sussistenza dei “gravi motivi” di recesso per la ragione che “se anche si volesse circoscrivere il discorso al singolo punto di vendita di Brescia, non risulterebbe dimostrato l’elemento della prosecuzione gravosa non avendolo il conduttore provato – attraverso una comparazione con gli altri punti vendita che il negozio di (omissis) raggiungesse un fatturato cosi basso rispetto agli altri negozi da renderne necessaria la chiusura, per non ostacolare l’espansione del gruppo, anche perché i minori (in resi) ricavi potrebbero essere stati determinati da contingenze non necessariamente legate all’ubicazione dei locali (ad esempio, dall’incapacità del personale o dai prezzi praticati). Ed allora è evidente che il solo confronto fra i due negozi di (omissis) (quello chiuso e quello successivamente aperto in corso (omissis)) non può dare un’oggettiva contezza – per aver operato in periodi certamente diversi, con personale forse diverso ed in una condizione probabilmente diversa – del fatto che mantenere aperto il negozio appartenente agli odierni appellanti, piuttosto che trasferirlo ad un centinaio di metri, costituisce un grave handicap per la società. E questo a voler sottacere che, neppure del progetto di riqualificazione della via (omissis) e dell’affidamento di esso concretamente avuto, il conduttore ha fornito un’adeguata prova, non essendo all’uopo rilevante un documento che si limita ad uno studio unilaterale e parziale sullo stesso fabbricato”.

In conclusione, per dette ragioni nella fattispecie la Cassazione ha escluso la sussistenza dei “gravi motivi” di recesso alla luce del principio di diritto secondo cui “in tema di recesso del conduttore in base al disposto di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 27, u.c. le ragioni che consentono al locatario di liberarsi del vincolo contrattuale, devono essere determinate da avvenimenti sopravvenuti alla costituzione del rapporto, estranei alla sua volontà ed imprevedibili, tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore la sua prosecuzione. La gravosità della prosecuzione, che deve avere una connotazione oggettiva non potendo risolversi nella unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine alla convenienza o meno di continuare il rapporto locativo, deve essere, non solo tale da eccedere l’ambito della normale alea contrattuale, ma deve altresì consistere in un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie tale da incidere significativamente sull’andamento dell’azienda del conduttore globalmente considerata”.


UN CASO DIFFERENTE

Merita però osservare che in una successiva pronuncia (sezione III, sentenza 27/03/2014, n.7217), la Cassazione ha invece ravvisato la presenza dei “gravi motivi” di recesso qualora i locali locati siano dedicati all’esercizio di un ramo dell’azienda del conduttore che viene chiuso, sebbene gli altri rami d’azienda del conduttore continuino la loro attività in altri locali.

La Corte d’Appello di Trieste – la cui decisione è stata annullata dalla Cassazione – aveva negato la sussistenza dei “gravi motivi” addotti dalla conduttrice a fondamento del recesso anticipato osservando “che la chiusura del ramo di azienda per cui veniva utilizzato il capannone non era “stata una scelta necessitata dell’imprenditore, bensì una scelta di opportunità”, determinata “da motivi strategici e non gravi” (visto che, pur a fronte di un’indubbia riduzione del fatturato relativo allo specifico ramo d’azienda della produzione di sedute in legno, la società aveva registrato – nel complesso – un aumento del volume di affari)”. 

Per contro, la Cassazione ha ritenuto “che l’accertamento della ricorrenza dei suddetti requisiti non possa che essere condotto in riferimento allo specifico contratto di locazione per cui viene esercitato il recesso e che, ove venga addotta la non remuneratività dell’attività o addirittura la chiusura del ramo di azienda che utilizzava l’immobile interessato dal recesso, non possa tenersi conto dell’aumentata redditività di altre attività, tale da assorbire le perdite o anche da determinare un miglioramento complessivo delle condizioni economiche del conduttore. 

Nell’ottica di un bilanciamento fra l’interesse del locatore alla prosecuzione del rapporto fino alla sua naturale scadenza e quello del conduttore a non essere vincolato dal contratto ove l’attività per cui l’immobile è stato locato divenga antieconomica, la valutazione imposta dall’art. 27 ult. co. non può che concernere la specifica attività per cui l’immobile è stato locato, al fine di accertare se persista – oggettivamente – quell’interesse che aveva determinato l’assunzione degli obblighi contrattuali. 

Considerato, infatti, che i richiamati requisiti della involontarietà, sopravvenienza ed imprevedibilità forniscono adeguata tutela agli interessi del locatore, impedendo che lo scioglimento del rapporto sia rimesso alla mera volontà del conduttore, l’opzione interpretativa che – a fronte di una situazione di complessiva floridità aziendale – richiedesse al conduttore di restare vincolato ad un contratto rivelatosi antieconomico ne comprimerebbe le ragioni oltre la misura necessaria a garantire la posizione del locatore, finendo col penalizzare il conduttore sino al punto di veder ridotti – o addirittura azzerati – i risultati positivi conseguiti in altri rami dell’attività aziendale”.

Sembrerebbe allora che la diversa tipologia dell’attività esercitata nei diversi rami d’azienda (fabbricazione sedie in legno in quello che veniva cessato e fabbricazione sedie in metallo in quello che continuava) rappresenti l’elemento a suffragio della decisione assunta in questa più recente sentenza dalla Cassazione. 

Ma forse questo non è il punto dirimente.

Nella prima decisione, infatti la Cassazione ha esaminato un caso in cui il conduttore svolgeva la medesima attività mediante diversi punti vendita, che verosimilmente facevano tutti parte della stessa azienda. In altre parole, sembrerebbe che l’organizzazione aziendale in questione fosse unitaria, e cioè che i singoli punti vendita non costituissero ciascuno uno specifico ramo d’azienda del conduttore. Se invece così fosse stato, ci si domanda allora a quale soluzione sarebbero pervenuti i giudici. 

In definitiva, la questione non può dirsi chiusa. 

Visto il crescere esponenziale che la grande distribuzione ha avuto negli ultimo anni ed essendo sempre più forte la concorrenza al suo stesso interno, considerata altresì l’attuale difficile congiuntura economica nel nostro Paese, molto verosimilmente la materia tornerà presto all’attenzione della Cassazione.


CONDOMINIO: SENZA UNANIMITÀ NON È POSSIBILE LIMITARE IL DIRITTO DI PROPRIETÀ

[A cura di: Confappi]


“Nell’ambito dei regolamenti condominiali, vanno distinte le clausole con contenuto tipicamente regolamentare dalle clausole contrattuali, le quali devono essere approvate all’unanimità. È fuori discussione che una clausola, che limita ad un determinato uso un immobile escludendo gli altri possibili, costituisce limitazione del diritto di proprietà”. È quanto scrivono i giudici della Corte di Cassazione nella sentenza n. 5657 del 20 marzo 2015. 

Il protagonista della vicenda è un condomino, che decide di impugnare una delibera assembleare con la quale è stato approvato (a maggioranza e con il suo voto contrario) un regolamento di condominio, che priva alcuni condòmini dell’utilizzo di parti comuni. Nello specifico, l’utilizzo delle ultime rampe di scale di un palazzo che quindi, secondo la delibera incriminata, appartengono solo ad alcuni condòmini i quali possono vietarne l’accesso agli altri. 

Dice la Suprema Corte: “Le norme del regolamento condominiale che incidono sulla utilizzabilità e sulla destinazione delle parti dell’edificio, in particolare sullo stato giuridico di una cosa comune, come nella specie le scale, hanno carattere convenzionale e, se predisposte dall’originario proprietario dello stabile, debbono essere accettate dai condòmini nei rispettivi atti di acquisto ovvero con atti separati, e, se invece deliberate dall’assemblea condominiale, debbono essere approvate all’unanimità (cfr. tra le tante, Cass. 11 febbraio 1977 n. 621)”. 

Quindi, continuano i giudici, “non potendo formare oggetto di decisione assembleare a maggioranza, sono assolutamente nulle le deliberazioni delle assemblee condominiali lesive dei diritti di proprietà comune. Ciò posto, non vi è dubbio che la clausola (del regolamento condominiale approvato dall’assemblea a maggioranza) che destina alla proprietà esclusiva dei proprietari dell’appartamento posto al piano terzo ed attico dello stabile le scale di collegamento fra i due piani, costituisce “di per sé” lesione del diritto di proprietà comune dei condòmini, comprimendo in maniera eccessiva e ingiustificata l’esercizio di facoltà connesse all’uso o al godimento delle parti comuni dell’edificio – divieto di accedere in una parte delle scale – escludendo alcune destinazioni dall’uso che avrebbe potuto altrimenti farsi della cosa comune”.

IN ATTESA DELLA LOCAL TAX, L’IMPIETOSO CONFRONTO TRA LE IMPOSTE DEL 2011 E QUELLE (TRIPLICATE) DEL 2014

[Fonte: Confedilizia]


Quale sarà l’impatto della futura local tax è ancora da ponderare. Di certo, l’imposta sulla casa onnicomprensiva, si andrà ad inserire in un contesto caratterizzato, negli ultimi anni, dalla progressiva imposizione fiscale sul mattone.

Una stangata dalle proporzioni ragguardevoli, stando al dossier pubblicato da Confedilizia, di cui riportiamo un ampio stralcio.


INTRODUZIONE

Con il 2015, la proprietà immobiliare si troverà, per il quarto anno consecutivo, a subire un livello di imposizione tributaria insostenibile. Ad aumentare vertiginosamente, come noto, è stata una specifica componente della tassazione sugli immobili, quella di natura patrimoniale. Quella – giova ricordarlo – che colpisce gli immobili al di là di qualsiasi reddito dagli stessi prodotto. E che si aggiunge (anche questo è bene rammentarlo) ad altre forme di imposizione, come quella sui redditi e quella sui trasferimenti.


DATI PRINCIPALI 

* Nel 2014, il gettito di IMU e TASI (imposte entrambe sostanzialmente patrimoniali,ì nonostante la seconda venga nominalmente qualificata come tributo sui servizi) è stato di circa 25 miliardi di euro. 

* Fino al 2011, il gettito dell’ICI era stato di circa 9 miliardi di euro.

* Le imposte locali sugli immobili si sono quasi triplicate rispetto al 2011.

* Fra il 2012 e il 2014, la proprietà immobiliare ha versato complessivamente circa 69 miliardi di euro di imposte di natura patrimoniale. 

* Dal 2012, i proprietari versano ai Comuni 15/16 miliardi di euro in più ogni anno (il 50% in più rispetto all’entità dello sgravio degli “80 euro”). 

* Il carico fiscale sugli immobili del 2014 (Governo Renzi), dato da IMU e TASI, è stato di oltre 1 miliardo superiore rispetto a quello dell’IMU 2012 (Governo Monti).


Tasse casa (2011 – 2014)

Ecco la progressione delle imposte sulla casa:

2011: 9,2 miliardi (Ici)

2012 (Governo Monti): 23,8 miliardi (Imu)

2013 (Governo Letta): 20,4 miliardi (Imu e mini-Imu)

2014 (Governo Renzi): 25 miliardi (Imu e Tasi). 


È necessario partire da questi dati – e da quelli, altrettanto significativi, relativi ad esempi di tassazione in capo a singoli proprietari – per effettuare qualsiasi valutazione dell’attuale situazione del comparto immobiliare e per ipotizzare i possibili scenari futuri, anche in vista della local tax. La necessità di ridurre la tassazione sugli immobili non è dovuta solo ad un’esigenza di equità. I riflessi che il carico fiscale genera sul settore immobiliare e sull’intera economia sono stati a lungo sottovalutati da molti. La miope e acritica ripetizione di modelli teorici sconfessati dai fatti – modelli secondo i quali le imposte ricorrenti sugli immobili risulterebbero meno “distorsive” per la crescita economica – ha impedito per molto tempo di far emergere ciò che gli operatori economici (del settore immobiliare, ma anche delle decine e decine di comparti che all’immobiliare sono collegati) avevano sperimentato sulla propria pelle sin dall’inizio della offensiva fiscale di fine 2011. E cioè che gravare gli immobili – in modo repentino, marcato e, ormai, ripetuto – di un carico di tasse come quello abbattutosi in Italia negli ultimi anni, produce conseguenze negative a catena, con riflessi evidenti e innegabili sulla crescita del Paese: 

* crollo delle compravendite;

* diminuzione degli interventi sulle singole unità immobiliari per ristrutturazione e arredamento;

* fallimento di innumerevoli piccole imprese del settore; 

* perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro in edilizia;

* crisi delle locazioni e progressiva riduzione della relativa offerta, con gli immaginabili risvolti sociali;

* caduta dei consumi generata dalla perdita di valore degli immobili (stimata in circa 2.000 miliardi) e dall’effetto che tale riduzione ha prodotto su milioni di proprietari ai quali è venuta improvvisamente a mancare quella sorta di copertura assicurativa che da sempre ha rappresentato, per ciascuno di loro, la consapevolezza di poter contare su un bene che mai prima si era svalutato.


OPERAZIONI FIDUCIA

È dal Fisco che bisogna ripartire per dare vita ad una grande “operazione fiducia” per il settore immobiliare. Solo attraverso un segnale concreto, tangibile – e, soprattutto, percepibile dalla proprietà diffusa – nel senso di una riduzione della morsa fiscale sugli immobili, si potrà sperare nell’attivazione di un circolo virtuoso, capace di diffondere un ottimismo “contagioso”, che non mancherebbe di riflettersi sui grandi numeri della nostra economia. E, per farlo, non ci si può di certo limitare ad operazioni di restyling delle attuali imposte locali. Bisogna fare molto di più: avere coraggio e capacità di innovare. Occorre abbandonare la pigra (e ingiusta) tassazione su base catastale/patrimoniale e creare un sistema che preveda la tassazione degli immobili esclusivamente per il reddito che essi producono e per i servizi – certi, verificabili, quantificabili – che ricevono, a beneficio sia dei loro proprietari sia dei loro utilizzatori. Con effetti positivi (anche in termini di riduzione della spesa pubblica e di eliminazione degli sprechi) per l’intera collettività.


CASE IN AFFITTO

Ecco un raffronto della tassazione locale del 2011 con quella del 2014.


Contratto libero (4 + 4) 

Città: Roma 

Immobile: A2 con rendita catastale di 1.000 euro 

Anno 2011: aliquota Ici 7 per mille 

Anno 2014: aliquota Imu: 10,6 per mille; aliquota Tasi: 0,8 per mille

Importo 2011: 735 euro 

Importo 2014: 1.889 euro 

Variazione importo: + 1.154 euro 

Variazione percentuale: +157%


Contratto agevolato (3 + 2) 

Città: Roma 

Immobile: A2 con rendita catastale di 1.000 euro 

Anno 2011: aliquota Ici 4,6 per mille 

Anno 2014: aliquota Imu: 10,6 per mille; aliquota Tasi: 0,8 per mille

Importo 2011: 483 euro 

Importo 2014: 1.889 euro 

Variazione importo: + 1.406 euro 

Variazione percentuale: +291%


ATTENZIONE: La tassazione – su base puramente patrimoniale – si aggiunge a quella che colpisce il reddito da locazione. È sconcertante notare come dall’aggravio fiscale sugli immobili non siano stati risparmiati, in ossequio alla funzione sociale che essi tradizionalmente svolgono, neppure gli immobili dati in affitto, neanche nel caso in cui la locazione sia a canone calmierato, attraverso i cosiddetti contratti “concordati”.


UNITÀ NON ABITATIVA 

Si è preso in esame a titolo esemplificativo il caso di un immobile situato a Roma. Aliquota Imu: 10,6 per mille; aliquota Tasi: 0,8 per mille.

Le imposte, statali e locali (ben sette), raggiungano un livello tale da erodere – come accade nel caso di un immobile di Roma preso ad esempio, fino all’80% del canone di locazione. Percentuale che arriva a sfiorare il 100% se alle tasse si aggiungono le spese (di manutenzione, assicurative ecc.) alle quali il proprietario-locatore deve comunque far fronte (senza considerare il rischio morosità). Tale spropositato livello di tassazione è dovuto, a livello locale, all’introduzione dell’Imu e della Tasi, e, a livello statale (non essendo applicabile la cedolare secca) a una imposizione IRPEF che di fatto colpisce persino le spese, essendo queste considerate – come deduzione fiscale – nella irrisoria misura forfetaria del 5% a partire dal 2013 (rispetto alla quota del 15%, frutto di una precedente diminuzione dell’originaria misura del 25%).



ABITAZIONE SFITTA 

Nella fattispecie l’immobile si trova ancora una volta a Roma. È di categoria A2, situato nello stesso Comune in cui si trova l’abitazione principale. Rendita catastale: 1.000 euro; aliquota Imu: 10,6 per mille; aliquota Tasi: 0,8 per mille.

In questo caso, occorre evidenziare il carico fiscale, inspiegabilmente punitivo, cui è soggetto un appartamento destinato alla locazione, ma per il quale il proprietario non riesce a trovare un inquilino. Le imposte dovute per un immobile di questo tipo – che non produce alcun reddito e che è, anzi, fonte di spese (condominiali, di manutenzione, assicurative ecc.) – sono ben cinque: 

* Irpef; 

* addizionale regionale Irpef; 

* addizionale comunale Irpef; 

* Imu; 

* Tasi. 

Per un appartamento medio di Roma, con rendita catastale di 1.000 euro, la somma delle 5 imposte dovute varia tra 2.094 e 2.238 euro, in funzione dello scaglione di reddito Irpef in cui si colloca il contribuente-proprietario. Somme che il contribuente in questione deve necessariamente trarre dai propri risparmi ovvero da eventuali redditi derivanti da altra fonte (lavoro, pensione ecc.). 

OPERE SU PARTI COMUNI DEL CONDOMINIO: IL CONDOMINO ESCLUSO DALL’ISTITUTO DELL’ACCESSIONE

[A cura di: avv. Chiara Magnani – Ass. Foro Nazionale]


Con la sentenza n. 4901 dell’11/03/2015 la Corte di Cassazione esclude che il condomino, che abbia realizzato opere seppur ingenti e di valore sul bene comune, possa richiedere la restituzione delle somme spese per materiali e manodopera, così come previsto dall’ istituto dell’accessione. 

Nel caso in esame, infatti, il singolo condomino richiedeva al Condominio, avendo il medesimo costruito sul terreno di proprietà comune un impianto sportivo, il pagamento delle somme sostenute per l’edificazione dell’opera ai sensi e per gli effetti dell’art. 936 c.c. Il Tribunale di Milano e la Corte di Appello rigettavano le domande dell’attore rilevando l’inapplicabilità dell’istituto dell’accessione, escludendo il diritto dell’attore all’ indennizzo di cui all’art. 936 c.c, per essere – il medesimo – condomino dello stabile, e pertanto comproprietario del bene sul quale era stato realizzato l’impianto sportivo. I giudicanti escludevano, pertanto, l’operatività dell’art. 936 c.c. per non essere l’attore/appellante soggetto terzo rispetto al bene oggetto di intervento.

L’istituto dell’accessione prevede, infatti, che in caso di opere fatte da un terzo con materiali propri, questi possa richiedere al proprietario del fondo il valore dei materiali e manodopera, oppure l’aumento di valore recato al fondo. È consolidato l’orientamento della Cassazione in forza del quale le norme sull’accessione retrocedono a favore di quelle sulla comunione in caso di interventi realizzati dal condomino sulla cosa comune, posto che è escluso, in questi casi, che il comproprietario del fondo – proprio perché soggetto non estraneo al fondo medesimo – possa richiedere l’indennizzo di cui all’art. 936 c.c.

Nel caso in esame, inoltre, non solo il ricorrente è condomino dello stabile – condizione che di per sé esclude in capo al medesimo la qualità di terzo rispetto al bene oggetto di intervento essendone al contrario, comproprietario – ma bensì anche titolare di un contratto di affitto stipulato con l’originario proprietario, in forza del quale il condomino si era obbligato a costruire sul terreno due piscine ovvero di un impianto per lo svolgimento di qualsiasi attività sportiva sul terreno con costi a carico dell’affittuario.

La Corte, pertanto, rigettava il ricorso per essere il ricorrente privo della qualità di terzo rispetto al bene sul quale aveva costruito l’impianto sotto il duplice profilo sia dello status di condomino sia di parte del contratto di affitto: circostanze che rendono inapplicabili le norme sull’accessione così come invece invocate dal condomino ricorrente.  

CRONACA FLASH

Gli svaligiano l’alloggio 

e lo chiudono in bagno

In provincia di Lucca, un uomo, dopo essere rientrato a tarda sera nella propria abitazione, ha scoperto due ladri che vi avevano fatto irruzione per svaligiarla. I due malviventi, dopo avergli strappato l’orologio dal polso, lo hanno rinchiuso nel bagno. Poi sono scappati portando via anche due vassoi d’argento e un cellulare. Riuscito a liberarsi, il malcapitato padrone di casa ha subito avvertito i carabinieri, ma i banditi avevano già fatto perdere le proprie tracce.


Chiama i carabinieri,

ma ha droga in casa

Aveva chiamato i Carabinieri per denunciare un furto in casa. I militari, una volta arrivati nell’appartamento per fare il sopralluogo, sono stati incuriositi da un forte odore di erba. A quel punto, è cominciato un controllo approfondito dell’abitazione che ha permesso di trovare e sequestrare 4 piantine di marijuana più 15 rami in essiccazione dal peso complessivo di 20 grammi e 6,2 grammi di hashish, suddivisi in dosi pronte per lo spaccio. Così l’uomo, un agente assicuratore 40enne residente in provincia di Rimini, è stato arrestato. 



Incendio nell’alloggio

A morire è un cane

I fumi dell’incendio sono stati fatali e per lui non c’è stato nulla da fare. È il caso della morte per asfissia di un cagnolino, che ha perso la vita a causa di un rogo divampato al primo piano di un appartamento sito nel quartiere napoletano di Posillipo. Il cane si trovava proprio nella stanza in cui è scattata la scintilla che ha generato le fiamme. Intervenuti per sedare le fiamme, i vigili del fuoco hanno dichiarato inagibili due camere: quella interessata dall’incendio e quella di un appartamento al piano superiore. 


Anziani rapinati in casa

È caccia alla banda

Le forze dell’ordine sono sulle tracce di una banda di malviventi che ha terrorizzato una coppia di anziani in provincia di Cuneo. Quattro rapinatori hanno fatto irruzione nella casa dei coniugi, hanno li hanno malmenati e si sono fatti consegnare oggetti in oro e contanti. Soltanto dopo la fuga dei banditi gli anziani sono riusciti a dare l’allarme e poi sono stati trasportati in ospedale. 


Animali abbandonati in casa

Proprietaria denunciata 

Maltrattamenti nei confronti degli animali (tre cani e quattro gatti) che teneva in casa. È questa l’accusa della quale dovrà rispondere una donna di 58 anni, residente in provincia di Perugia. I carabinieri, entrati nell’alloggio della donna insieme a tecnici dell’Asl, vigili del fuoco e polizia municipale, si sono trovati di fronte a condizioni igieniche definite disastrose. Pare infatti che la proprietaria di casa fosse da giorni lontana dalla cittadina umbra, e che avesse abbandonando a se stessi i cani e i gatti. Gli animali sono stati affidati a strutture idonee. La donna è stata denunciata. 

UN PREGIO DELLA RIFORMA DEL CONDOMINIO? HA RESO OGGETTIVI I CASI DI REVOCA DELL’AMMINISTRATORE

[A cura di: avv.Nunzio Costa – pres. Acap]


Spesso ci concentriamo sulle classiche responsabilità dell’amministratore: la tenuta dei conti, dei registri e la trasparenza nella contabilità, dimenticando le ipotesi più gravi, ossia quelle che possono portare alla sua revoca, ovvero anche a qualcosa d’altro. Mi riferisco a quelle ipotesi di revoca, non tassative, ma ormai codificate, che il legislatore ha voluto inserire nel codice a titolo esemplificativo e non esaustivo.

Tuttavia quelle ipotesi recate dall’art. 1129 c.c. altro non sono che la codificazione di un processo di stratificazione giuridica durata circa 70 anni. Orbene nella inerzia del Legislatore, incapace di modificare gli istituti giuridici all’evoluzione sociale, la Giurisprudenza ha interpretato le leggi esistenti, tentando di adeguarli alle mutate realtà sociali. Sicché nel 2012, quando si è trattato di infilare la tanto agognata riforma tra una legislatura in declino ed una nuova appena nascente, i tecnici della produzione normativa hanno fatto l’unica cosa plausibile: hanno raccolto nella novella tutti i principi giurisprudenziali pacifici ed ormai sedimentati ed acquisiti.

Questa scelta reca sensibili conseguenze, prima delle quali la immodificabilità delle cause di revoca. Ai sensi dell’art. 101 della Costituzione, il giudice è soggetto soltanto alle legge. È una norma di garanzia a tutela della indipendenza della Magistratura e significa che alcun potere dello Stato può gerarchicamente sovrapporsi al singolo magistrato che in quel momento sta affrontando il caso che gli è stato sottoposto. Nemmeno lo stesso capo dell’ufficio giudiziario in cui lavora. Ma è anche una norma a tutela del cittadino, che ha diritto a vedere trattato il suo caso secondo le norme esistenti al tempo del giudizio, con l’impossibilità da parte del magistrato di riferirsi a principi ed argomentazioni equitative o diverse dalla legge applicabile.

Quindi, prima della riforma potevamo portare alla attenzione del magistrato un caso di revoca e far decidere allo stesso se l’amministratore avesse o meno commesso quelle gravi irregolarità paventate dal Legislatore. Questi avrebbe deciso in base al concetto di gravità espresso dal comune sentire ed alle interpretazioni giurisprudenziali nel frattempo stratificate. In ogni caso, trattandosi di un Paese, il nostro, in cui la singola sentenza vale solo tra le parti che la hanno stimolata, le sentenze stesse non sono mai obbligatorie per il magistrato decidente, che nel caso di specie potrebbe ritenere quella “grave irregolarità, non tanto grave” perché, per esempio, l’amministratore nelle more ha sanato la situazione, ovvero non si trova più in condizione di irregolarità.

Ebbene, se dobbiamo prendere quanto c’è di buono dalla Riforma, questa è una cosa dalla quale attingere a piene mani. L’avere codificato le ipotesi di grave irregolarità significa avere oggettivizzato la causa di revoca e la conseguente responsabilità dell’amministratore: il giudice non avrà più la possibilità di valutare il grado di colpa dell’amministratore, né il grado di sanzione e quindi la sua responsabilità. Dovrà semplicemente applicare la legge, verificare se il comportamento tenuto rientra tra quelli codificati, se è stato realmente commesso e, se la risposta è in entrambi i casi positiva, dovrà applicare necessariamente la sanzione legalmente prevista, anche nell’ipotesi, probabile, in cui l’amministratore, in corso di giudizio, abbia tentato di mitigare la sua colpa con un intervento urgente.

Per rendere chiaro il concetto facciamo un esempio: condominio in condizioni di sicurezza precaria. Il condomino chiede conto all’amministratore e chiede la convocazione di una assemblea. In ogni caso l’amministratore si dimostra inerte. Il condomino aziona la revoca. A questo punto l’amministratore tenta di riparare alla sua colpa ed ordina un intervento urgente postumo alla notifica, di ripristino delle condizioni di sicurezza. Al momento della discussione innanzi al Collegio la situazione è modificata e ripristinata. Orbene tale atteggiamento tenuto dall’amministratore non fa altro che confermare l’esistenza della causa di responsabilità che ha determinato la richiesta di revoca e quindi l’applicazione della sanzione unica possibile.

Altra conseguenza derivante dalla codificazione di alcune ipotesi di revoca è la valorizzazione delle situazioni di grave irregolarità, con la conseguente ineluttabilità nella applicazione della sanzione: il giudice dovrà sempre e solo verificare se si sia verificata una delle ipotesi previste, anche se tale ipotesi si sia avverata nelle more del giudizio di revoca, ovvero nelle more siano emersi nuovi profili di irregolarità.

Ancora una volta, l’esempio aiuta nella comprensione: Il condomino chiede la documentazione contabile e non la ottiene; non potendo rilevare nulla opta per altri e diversi motivi di revoca. Nelle more del giudizio emerge che l’amministratore ha effettuato pagamenti senza usare il conto corrente specifico del condominio, ma effettuando il pagamento con bonifico per contanti presso la banca dell’appaltatore. Ebbene tale ipotesi contravviene il 1129 comma 7, secondo cui: “L’amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio”. Tuttavia si tratta di una causa di revoca che il condomino non aveva portato alla attenzione del magistrato. Ebbene, il codice ha valorizzato le cause di revoca, indicando anche un procedimento molto snello, ossia quello del ricorso al Collegio, privo di eccessive formalità, dimostrando di porre maggiore attenzione alla sussistenza della grave irregolarità piuttosto che al principio della domanda. Pertanto, se nel corso del giudizio, si ravvisassero nuove e diverse cause di irregolarità e le stesse venissero contestate all’amministratore, il giudice dovrebbe comunque valutarle e l’amministratore non potrebbe sottrarsi al contraddittorio.

Compravendita immobiliare on line: il notaio non ha responsabilità sulle imposte non versate

In caso di registrazione notarile di compravendita di immobili, è il notaio a versare, ma il cliente a pagare. In ogni caso ricade sulle parti che hanno stipulato il contratto e non sul professionista rogante la responsabilità per l’eventuale mancata corresponsione delle imposte.
È quanto disposto dalla sesta sezione civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza 5016 dello scorso 12 marzo. 
Come sintetizza l’Agenzia delle Entrate per mezzo del suo organo ufficiale di informazione, “la notificazione di un avviso di liquidazione per l’integrazione dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale, relativa ad una compravendita registrata telematicamente dal notaio rogante, che in tale veste abbia provveduto all’autoliquidazione e al relativo versamento, vale solo a costituirlo responsabile dell’imposta, tenuto all’integrazione del versamento, e non anche ad incidere sul principio di cui all’art. 57 del DPR n. 131/1986, in base al quale i soggetti obbligati al pagamento dell’imposta restano le parti sostanziali dell’atto di compravendita.

ACQUIRENTE DI IMMOBILE, PERDITA DEI BENEFICI FISCALI E CAUSE DI FORZA MAGGIORE

[A cura di: Annalisa Lo Parco (FiscoOggi) – Agenzia delle Entrate]


In tema di agevolazioni fiscali previste dall’articolo 5 della legge 168/1982, i benefici in favore dell’acquirente dell’immobile inserito in un piano di recupero di iniziativa pubblica o privata convenzionato possono essere conservati, a condizione che il contribuente realizzi i lavori entro il termine triennale di decadenza previsto per l’esercizio del potere di accertamento dell’ufficio.

Di conseguenza, detto termine decadenziale entro il quale può essere emesso l’avviso di liquidazione in rettifica, inizia a decorre, al massimo, dalla scadenza del triennio dalla registrazione dell’atto.

Questo il principio di diritto desumibile dall’ordinanza della Cassazione n. 3152 del 17 febbraio 2015.

Nella decisione, peraltro, viene precisato il concetto di “forza maggiore”, intesa come “un’energia esterna, idonea a costituire impedimento forzoso della condotta imposta dalla legge”.


I FATTI DI CAUSA

La vicenda trae origine da un avviso di liquidazione per imposte di registro, ipotecarie e catastali conseguente alla revoca dell’agevolazione ex articolo 5 della legge 168/1982, relativamente a un immobile dichiarato soggetto a piano di recupero. L’ufficio aveva riscontrato che, nonostante fossero decorsi tre anni dalla data di acquisto, la società non aveva effettuato i lavori di recupero immobiliare.

La parte impugnava l’avviso con ricorso accolto dalla Ct di I grado di Bolzano.

In II grado, la Commissione tributaria respingeva l’appello dell’ufficio, evidenziando che le ragioni dedotte dal contribuente apparivano valide sia in considerazione del fatto che il ritardo nell’esecuzione dei lavori appariva pienamente giustificato sia perché il termine decadenziale previsto dall’articolo 76, comma 2, del Dpr 131/1986, presupposto dell’avviso di liquidazione in rettifica emesso dall’Amministrazione finanziaria, non poteva estendersi anche al contribuente ai fini dell’integrazione della sua decadenza dal diritto, dovendosi invece applicare al caso l’ordinario termine decennale di prescrizione, ai sensi dell’articolo 2946 del codice civile.

Contro quest’ultima pronuncia l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione.


IL GIUDIZIO DELLA CASSAZIONE

Fra i motivi di doglianza, l’ufficio denunciava la violazione o falsa applicazione dell’articolo 5 della legge 168/1982 e dell’articolo 76 del Dpr 131/1986, per avere il giudice di merito ritenuto non applicabile, nella specie, il termine di decadenza fissato dall’articolo 76, ma l’articolo 2946 cc, dettato in materia di prescrizione, nonché il vizio di motivazione della sentenza nella parte in cui la Ctr aveva attribuito il carattere di “forza maggiore” alla circostanza che l’attuazione del progetto di recupero va sottoposto al vaglio della Pubblica amministrazione.

I giudici di legittimità, decidendo in camera di consiglio per manifesta fondatezza del ricorso, hanno cassato la sentenza di secondo grado, chiarendo che le agevolazioni tributarie previste dall’articolo 5 della legge 168/1982, in favore dell’acquirente dell’immobile inserito in un piano di recupero di iniziativa pubblica o privata convenzionato, possono essere conservate a condizione che il contribuente realizzi i lavori di restauro entro il termine triennale di decadenza previsto per l’esercizio del potere di accertamento dell’ufficio. “Di conseguenza, deve ritenersi che il detto termine decadenziale dall’azione dell’Ufficio inizi a decorrere dal momento in cui l’intento del contribuente sia rimasto definitivamente ineseguito e quindi – giacché il termine a disposizione del contribuente non potrà essere più ampio di quello in sé previsto per i controlli – al massimo dalla scadenza del triennio dalla registrazione dell’atto (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13703 del 30/05/2013)”.

La Corte suprema ha, inoltre, precisato che i giudici di merito, nel richiamare genericamente la prova fornita dalla parte di “essersi data da fare dall’inizio e senza soluzione di continuità… per raggiungere lo scopo prefisso”, non solo non hanno identificato correttamente il concetto di “causa di forza maggiore” idonea a giustificare la deroga al termine decadenziale di legge, ma non hanno idoneamente argomentato in ordine alle fonti di prova che hanno determinato il proprio convincimento.


OSSERVAZIONI

Ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro e di quelle ipotecarie e catastali in misura fissa, ai sensi dell’articolo 5 della legge 168/1982, è richiesto che, al momento della registrazione, sia dichiarata l’esistenza di due requisiti: uno oggettivo, che consiste nell’inserimento degli immobili nei piani di recupero; uno soggettivo, che consiste nella circostanza che l’acquirente sia uno dei soggetti che attuano il recupero.

La richiesta di agevolazioni, qualora non effettuata nell’atto di acquisto, può essere formulata anche successivamente con un atto integrativo redatto nella stessa forma dell’atto precedente (cfr risoluzione 110/2006). La norma di favore non prevede un termine entro il quale attuare il recupero. Ciò ha generato un contrasto giurisprudenziale.

Una parte minoritaria della giurisprudenza, muovendo dal tenore letterale dell’articolo 5, ha sottolineato come detta disposizione non preveda alcun termine di decadenza per il caso di mancato recupero dell’immobile ed è, quindi, sprovvista di sanzione (Cassazione, sentenza 8480/2009).

Secondo l’orientamento prevalente, invece, la norma, subordinando l’agevolazione fiscale all’esistenza del duplice requisito oggettivo e soggettivo, comporta che il beneficio spetti soltanto quando si realizzano tutti gli elementi che integrano la fattispecie normativa e che l’agevolazione sia correlata all’effettiva attuazione del piano di recupero previsto all’atto del trasferimento dell’immobile (Cassazione, sentenze 11786/2008, 13703/2013).

In particolare, secondo quest’ultima tesi, avallata dall’ordinanza in esame, il contribuente, a pena di decadenza, deve realizzare l’intento dichiarato nell’atto di trasferimento entro il termine triennale previsto per l’esercizio del potere di accertamento dell’ufficio (ex articolo76 del Dpr 131/1986).

In altri termini, il beneficio fiscale richiesto dal contribuente è solo provvisoriamente concesso dalla legge al momento della registrazione dell’atto di trasferimento. Successivamente alla registrazione, la sussistenza dei citati requisiti deve essere accertata dall’ufficio, configurandosi la differenza d’imposta eventualmente recuperata come una specie di imposta complementare (ex articolo 42 del Dpr 131/1986), mentre l’attuazione effettiva del recupero da parte del soggetto che si impegna in tal senso costituisce un evento futuro rispetto alla registrazione.

Ne discende che, ai sensi dell’articolo 2697 del codice civile, è onere del contribuente dimostrare, in seguito alla contestazione dell’ufficio, i fatti che palesino il raggiungimento dello scopo, ovverosia la effettiva realizzazione dell’intento dichiarato nell’atto, perché tale intento rappresenta un elemento costitutivo per il conseguimento del beneficio fiscale richiesto.

Il contribuente che non abbia attuato il recupero entro il predetto termine non perde, tuttavia, il diritto ai benefici, qualora provi che il superamento del termine non è dipeso da fatti a lui imputabili.

Sulla questione, però, la giurisprudenza di legittimità non è unanime.

Secondo un primo orientamento, il contribuente non perde i benefici fiscali nell’ipotesi in cui il superamento del termine è imputabile agli uffici competenti nel rilascio della necessaria documentazione amministrativa, gravando in tal caso sulla parte l’ulteriore onere probatorio di aver operato con adeguata diligenza e tempestività allo scopo di conseguire la certificazione in tempo utile (cfr Cassazione, sentenza 20259/2010).

Nella ordinanza in esame, invece, la Corte suprema ha ribaltato l’orientamento, ritenendo che la causa di forza maggiore idonea a superare il termine decadenziale di legge “non può riposare in una semplice mancanza di negligenza, ma deve invece consistere in un’energia esterna, idonea a costituire impedimento forzoso della condotta imposta dalla legge”. 

CRONACA FLASH DALLA CASA E DAL CONDOMINIO

Strozzata con cavo elettrico

Marito arrestato

In provincia di Vasto, un uomo di 57 anni è stato arrestato per la morte della compagna di 53 anni, per averla strangolata con un cavo elettrico in un appartamento sito in un centro residenziale dove i due abitavano insieme da tempo. Secondo gli investigatori, si tratterebbe di un omicidio passionale. Dopo il fatto, l’uomo ha cercato aiuto tra i vicini che hanno chiamato il 118 e la polizia, ma la donna era ormai morta. 


Colto da infarto in casa 

E il cane lo azzanna

Scena macabra quella che si sono trovati di fronte i vigili del fuoco e i sanitari del 118 accorsi in un appartamento di Genova: un uomo di 41 anni, sofferente di cuore da tempo, era deceduto nella sua abitazione per via di un malore. E il cane che abitava con lui, spinto probabilmente dalla fame, ha preso a morsi il corpo esanime dell’uomo da ben quattro giorni. A chiamare i soccorritori, il padre dell’uomo, che non sentiva il figlio ormai da giorni. All’arrivo di medici e pompieri, la tragica scoperta. 


64 enne morta in casa

Trovata nella doccia

Una donna di 64 anni è stata trovata deceduta nel suo appartamento a Brescia. Dai primi accertamenti risulterebbe morta per cause naturali. Da giorni i vicini di casa non avevano più sue notizie; l’ultima persona a vederla era stata il barista, il quale insospettito, ha deciso di chiamare i vigili del fuoco e i carabinieri: la 64enne, infatti, non rispondeva più al telefono. Il corpo senza vita della donna è stato trovato nella doccia. La causa del decesso sarà stabilita dall’autopsia. 


“Ho ferito mia moglie”,

anziano si costituisce

In provincia di Novara, una lite casalinga si è trasformata in tragedia: una donna di 81 anni è stata accoltellata dal marito, di due anni più vecchio, ed è ricoverata in gravissime condizioni all’ospedale. L’uomo ha colpito la donna al collo ed al torace. Poi ha chiamato i soccorsi e le forze dell’ordine, e si è costituito.


Spara col fucile ai ladri 

Ferisce la vicina di casa

In provincia di Alessandria una donna è stata ferita al volto da alcuni colpi di fucile a pallini sparati dal vicino di casa, il quale aveva sorpreso i ladri nella sua villa. L’uomo, che detiene regolarmente il porto d’armi, era in paese con la moglie ed è rientrato subito a casa quando sul cellulare è comparso il messaggio che era scattato l’allarme. Quindi, ha imbracciato il fucile e ha fatto fuoco verso i ladri, in fuga su un’auto, ma ha colpito la donna, uscita in strada a vedere quanto stava accadendo. La vicina, per fortuna, guarirà in pochi giorni.


Gli svaligiano l’alloggio 

e lo chiudono in bagno

In provincia di Lucca, un uomo, dopo essere rientrato a tarda sera nella propria abitazione, ha scoperto due ladri che avevano fatto irruzione per svaligiare l’alloggio. I due malviventi, dopo avergli strappato l’orologio dal polso, lo hanno rinchiuso nel bagno. Poi sono scappati portando via anche due vassoi d’argento e un cellulare. Riuscito a liberarsi, il malcapitato padrone di casa ha subito avvertito i carabinieri, ma i banditi avevano già fatto perdere le proprie tracce.

CONTRATTI DI LOCAZIONE: IL DEPOSITO CAUZIONALE TRA DISCIPLINA GIURIDICA E PRASSI

[A cura di: Paolo Ciri – delegato Uppi Spoleto]


L’argomento della cauzione merita di essere riesaminato, alla luce della recente sentenza della Cassazione (3882 del 25/2/2015), la quale, per altro, conferma un orientamento già noto. 

Andiamo per ordine. Per deposito cauzionale intendiamo quella somma che l’inquilino può consegnare al proprietario all’atto della firma del contratto di locazione o affitto. Spesso è chiamato anche “deposito”, “cauzione” o, impropriamente, “caparra”. 

Vediamone anche la funzione giuridica, la quale si può ricavare da una costante giurisprudenza della suprema corte (Cassazione 9442/2010, 14655/2002, 4725/1989):“La funzione del deposito cauzionale è quella di garantire il proprietario del corretto adempimento di tutte le obbligazioni, legali e convenzionali, assunte dal e gravanti sul conduttore”.

Di solito il deposito è un multiplo del canone, ma ciò non è assolutamente necessario, può essere una cifra liberamente determinata, nei limiti sotto illustrati. 

Il proprietario può non richiederlo, ma se lo pretende non può averlo in misura superiore al triplo del canone. Ciò è stabilito dall’art 11 della Legge 392/78, sopravvissuto alle abrogazioni della legge 431/98. L’inquilino che eventualmente abbia versato un deposito di misura superiore potrà richiedere indietro la differenza in qualunque momento. 

È da ricordare che al termine della locazione, al momento della restituzione dell’immobile (delle chiavi), il deposito cauzionale va restituito. Può essere trattenuto se ci sono danni o insoluti, ma solo in presenza di precise condizioni: consenso dell’inquilino, citazione giudiziale per danni o debiti, specifiche ed apposite clausole in contratto. In mancanza ci si trova di fronte ad un credito liquido ed esigibile (da parte dell’inquilino) e ad un credito da accertare (da parte del proprietario) per cui essendo di genere diverso non possono essere compensati. Vedasi l’art. 1243 C.C. o la Cassazione Civile 4725/1989 o, appunto, la recente 3882/2015.

In tema di danni, incidentalmente, ricordiamo che il proprietario è tenuto a tollerare il normale degrado d’uso ( art. 1590 Codice Civile: “il deterioramento o il consumo risultante dall’uso della cosa in conformità del contratto”). Inoltre è interessantissimo e molto logico il concetto introdotto dalla sentenza di Cassazione 6417/1998: se ci sono dei danni (oltre il 1590 C.C.), il conduttore non deve risarcire solo il costo del ripristino, ma anche il valore del canone di locazione per tutto il periodo necessario ad effettuare i lavori. E ciò senza che il proprietario debba provare di aver ricevuto richieste di locazione e di non averle potuto accettare per la indisponibilità dovuta ai lavori. 

Non è possibile trattenere il deposito cauzionale senza corrispondere gli interessi, come spesso si legge nei contratti. Se si inserisce nel contratto questa banale ma illegale furbizia, la clausola si ha per non apposta. Lo stabilisce il sopra citato articolo 11 e lo conferma la Cassazione 979/1995. Peraltro gli interessi da pagare all’inquilino (che è il titolare di quella somma) vanno calcolati al saggio legale. Attualmente lo 0,5 % all’anno. Comunque gli interessi sono dovuti anche se non richiesti.

La legge prevede, poi, che gli interessi legali siano versati all’inquilino ogni anno, eliminando così alla base il problema dell’anatocismo. Ma nella pratica non lo fa praticamente nessuno. Anzi, sono pochi i proprietari che riconoscono gli interessi a fine locazione, limitandosi la maggior parte di loro a restituire quanto avuto. 

Normalmente il deposito cauzionale viene versato al momento della firma. A volte, però, l’inquilino ottiene di versarlo in un momento successivo, o in più rate. Però se poi non lo fa sorge un credito in capo al locatore, ma il contratto resta valido: non può per questo essere sciolto per inadempimento (Tribunale Civile di Brescia, sez. III, 17 febbraio 1992). 

Infine, chi compra un immobile affittato o locato assume ope legis tutti i diritti ed i doveri previsti nel contratto, compreso quello della restituzione del deposito. Per cui alla fine della locazione dovrà dare all’inquilino uscente la somma risultante come deposito dal contratto e, se non già pagati anno per anno, tutti gli interessi. E ciò anche qualora il venditore non abbia consegnato all’acquirente il deposito ricevuto. Per cui, in caso di acquisto di immobile locato o affittato, occorre farsi consegnare il contratto, leggerlo e farsi versare la cauzione che il venditore detiene. Ovviamente poi occorre provvedere alla voltura presso la Agenzia delle Entrate. 

Oltre al deposito cauzionale di somma liquida, vi possono essere altre forme di garanzia: le fideiussioni bancarie, le polizze assicurative, la garanzia del terzo. Senza scendere nel merito del valore giuridico di taluni contratti di questo tipo o nel costo commerciale a volte richiesto, è però il caso di ricordare che in questi casi, se non si è in opzione cedolare, si paga una apposita imposta di registro, che non è lieve: è lo 0,50% del monte canoni del primo periodo. Per esempio, un contratto libero in opzione ordinaria da 500 euro al mese ha una base imponibile di 500 x 48 = 24.000 euro e quindi una imposta, aggiuntiva a quella di registro, di 120 euro. 

Infine, va censurato l’uso ormai invalso tra molti inquilini di non pagare le ultime mensilità, in quanto sono “coperte” dalla cauzione. L’abuso si fonda sulla impossibilità tecnica di ottenere giudizialmente il pagamento delle mensilità insolute prima della conclusione del rapporto locatizio, ormai al termine, in queste fattispecie. Contro questa modalità c’è ben poco da fare. Tanto che alcuni proprietari rinunciano ad esigere il deposito, ritenendo che poi comunque verrà vanificato da questo abuso.