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LOCAL TAX: STANGATA DA 26 MILIARDI IN UN’UNICA SOLUZIONE

Per i contribuenti italiani una stangata da 26 miliardi di euro. Per le casse dei Comuni, sempre in affanno, una boccata d’ossigeno di pari importo, con il vantaggio dipoterla “aspirare” in un solo colpo. Due facce della stessa medaglia: quella della cosiddetta “local tax” di cui è fatto un gran parlare nei mesi scorsi ma che, dopo le indiscrezioni emerse a seguito del question time alla Camera tenuto mercoledì scorso dal ministro, Padoan, dovrebbe effettivamente scattare a partire dal 2016, inglobando l’Imu, la Tasi, l’addizionale comunale Irpef e una serie di piccole imposte minori.

Ma a quanto ammonterà, in dettaglio, il salasso? A fare i conti in tasca al “nuovo” balzello è stata la Cgia di Mestre, che ha elencato le principali imposte/tasse comunali e i relativi gettiti che potrebbero essere sostituiti dalla “tassa unica” che i Sindaci saranno chiamati ad applicare.

Ebbene, tra Imu e Tasi (21,1 miliardi di euro), l’addizionale comunale Irpef (4,1 miliardi di euro), l’imposta sulla pubblicità (426 milioni di euro), la tassa sull’occupazione degli spazi e aree pubbliche (218 milioni di euro), l’imposta di soggiorno (105 milioni di euro) e l’imposta di scopo (14 milioni di euro), il gettito totale si aggira appunto sui 26 miliardi.

Ovviamente, fanno notare dalla CGIA, siamo ancora nel campo delle ipotesi. Tuttavia lo scenario che si profila non dovrebbe essere molto lontano da quello disegnato dalla Camera degli Artigiani. “L’eventuale semplificazione della tassazione comunale – segnala il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi – renderebbe certamente più facile pagare le tasse: una richiesta che i cittadini e le imprese invocano da tempo. Ma, oltre a semplificare, bisogna anche ridurne il peso, visto che a partire dal 2011, ultimo anno in cui gli italiani hanno pagato l’Ici, la tassazione su botteghe, piccoli negozi e uffici ha subito un’impennata spaventosa, a causa dell’introduzione dell’Imu e, successivamente, della Tasi”.

In particolare, su botteghe e negozi, fa sapere l’Ufficio studi della Cgia, il gettito complessivo è più che raddoppiato: + 108 per cento. Se nel 2011 ammontava a 796 milioni di euro, nel 2014 ha toccato 1,65 miliardi di euro. Altrettanto pesante è stato l’aggravio fiscale subito dagli uffici: sempre tra il 2011 e il 2014, il gettito incassato dai Comuni è salito del 105 per cento; se 4 anni fa i Comuni avevano incassato 533 milioni di euro, nel 2014 hanno riscosso poco più di un miliardo di euro. I laboratori, invece, hanno visto aumentare il peso fiscale dell’81 per cento: se con l’Ici i primi cittadini avevano incassato 229 milioni di euro, nel 2014 hanno “alleggerito” le tasche degli imprenditori di 414 milioni di euro. Sui capannoni, infine, l’incremento del prelievo è stato del 66 per cento: a fronte di 3,3 miliardi di euro riscossi dai Sindaci nel 2011, tre anni dopo il gettito complessivo è salito a 5,5 miliardi di euro.

 

SE IL CONIUGE È ASSENTE AL ROGITO PERDE IL SUO 50% DI BONUS PRIMA CASA

[A cura di: Nunziata Masiello e Filomena Scarano (FiscoOggi)
– Agenzia delle Entrate
]

 

È legittima la revoca, per la metà, dell’agevolazione
fiscale “prima casa” se, al momento del rogito, era presente solo uno dei due
coniugi che ha acquistato il bene in comunione legale. Le dichiarazioni
prescritte dalla norma agevolativa devono essere rese al notaio da entrambi i
coniugi acquirenti e l’eventuale dichiarazione integrativa deve essere redatta
con le stesse formalità giuridiche del precedente [atto] ed entro i
termini di decadenza
”.

È quanto ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza
1988 del 4 febbraio 2015.

 

VICENDA PROCESSUALE

L’Amministrazione finanziaria aveva notificato un avviso di
liquidazione con il quale era stata revocata, per la metà, l’agevolazione
fiscale per l’acquisto della prima casa. Detta agevolazione era stata così
riconosciuta nei confronti del solo coniuge, che aveva acquistato l’immobile in
regime di comunione legale, presente al momento del rogito.

Il ricorso proposto dal notaio rogante veniva rigettato, sia
in primo sia in secondo grado.

In particolare, i giudici d’appello ritenevano che le
dichiarazioni, prescritte alle lettere b) e c) della norma
agevolativa, dovevano esser rese da entrambi i coniugi in seno all’atto e che
eventuali omissioni potevano esser integrate con un altro atto redatto con le
stesse formalità di quello precedente, entro il termine di decadenza.

Il notaio, pertanto, ricorreva per la cassazione della
sentenza, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1, comma
4, e nota II-bis, della tariffa allegata al Dpr 131/1986, e dell’articolo 16
del Dl 155/2003, in relazione all’articolo 360 del codice di procedura civile,
comma 1, n. 3. Nello specifico, lamentava che la Ctr non avesse ritenuto che,
in caso d’acquisto di un fabbricato da parte di un soggetto coniugato, in
regime di comunione legale dei beni, le dichiarazioni prescritte dalla legge
riguardavano non solo il coniuge intervenuto nell’atto ma, anche, quello non
intervenuto.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

La Corte di cassazione, confermando quanto statuito dalla
Commissione di secondo grado, ha riconosciuto l’agevolazione solo in favore del
coniuge presente al momento del rogito.

In particolare, ha osservato che, per il godimento
dell’agevolazione “prima casa”, “occorre che l’acquirente dichiari in seno
all’atto di acquisto di non essere titolare esclusivo o in comunione con il
coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso ed abitazione di altra casa di
abitazione nel territorio del comune in cui è situato l’immobile da acquistare,
e di non averne in precedenza, fruito, neppure pro quota, in riferimento
all’intero territorio nazionale: la circostanza che l’acquisto dell’immobile si
attui per effetto del regime di comunione legale non costituisce, in assenza di
specifiche disposizioni in tal senso, eccezione alla regola anzidetta
”.

La Corte ha altresì precisato che tale conclusione non
contrasta con la precedente giurisprudenza di legittimità (Cassazione
14237/2000 e 15426/2009) citata dal ricorrente. I principi in essa espressi,
infatti, sono da riferirsi a un diverso requisito della normativa di
riferimento: residenza anagrafica nel comune ove è situato l’immobile.

Al riguardo, si ricorda che ai sensi dell’articolo 1, nota
II-bis, della tariffa, parte prima, allegata al Dpr 131/1986, per fruire
dell’agevolazione è richiesto, tra l’altro, anche il requisito della residenza
nel comune ove è situata l’abitazione da acquistare. Su tale aspetto, è emersa
la problematica (diversa da quella oggetto della sentenza odierna) relativa
alla spettanza o meno dell’agevolazione nell’ipotesi di acquisto di immobile a
uso abitativo da parte di coniugi in regime di comunione legale, con
particolare riferimento al caso in cui solo uno dei coniugi soddisfi il
requisito della residenza anagrafica.

L’Amministrazione finanziaria, con la circolare 38/2005, ha
precisato che, ai fini fiscali, l’acquisto di un immobile da parte di un
coniuge che si trovi in regime di comunione legale “comporta l’applicazione
nella misura del 50 per cento dell’agevolazione prima casa qualora l’altro
coniuge non sia in possesso dei requisiti necessari per fruire del predetto
regime di favore
” e non l’esclusione dei benefici per intero.

Tale interpretazione è conforme al tenore letterale della
norma agevolativa, che subordina la fruizione del beneficio in argomento alla
presenza di condizioni personali del richiedente, quale, in particolare, la
residenza anagrafica del singolo e non la residenza familiare.

La giurisprudenza di legittimità ha, invece, affermato con
molteplici pronunce – anche più recenti rispetto a quelle citate dal notaio
ricorrente – la fruibilità per intero del beneficio “prima casa” anche
nell’ipotesi in cui uno dei coniugi non soddisfi il requisito della residenza
anagrafica (cfr Cassazione 3931/2014, 16355/2013, 16356/2013,
15426/2009, 13085/2003 e 14237/2000).

Tuttavia la Corte, nel caso della sentenza in commento, ha
osservato che i precedenti richiamati si riferiscono ad altra fattispecie, e,
quindi, non costituiscono, per così dire, “precedente”.

Altra questione sollevata dal contribuente, su cui la
suprema Corte si è espressa, afferisce al caso in cui un coniuge, in regime di
comunione legale, acquisti un fabbricato con richiesta delle agevolazioni
fiscali con atto pubblico, senza che nel medesimo intervenga la moglie e alla
necessità che, per la dichiarazione integrativa di quest’ultima, sia necessario
atto pubblico o sia, invece, sufficiente una scrittura privata autenticata.

Sul punto, si ricorda che il possesso delle condizioni
soggettive, di cui alla nota II-bis dell’articolo 1 della tariffa, parte prima,
del Tur, deve essere dichiarato, a pena di decadenza, nell’atto di
compravendita, fatta salva la possibilità in capo al contribuente –
riconosciuta dalla prassi amministrativa (risoluzione 110/2006) – di chiedere
successivamente l’agevolazione con atto integrativo avente la stessa forma
dell’atto precedente.

La Cassazione, confermando la posizione espressa
dall’Amministrazione, ha affermato che è priva d’effetto la dichiarazione
integrativa resa dal coniuge assente al momento della compravendita: “tale
atto avrebbe dovuto essere redatto – e non lo era stato – con le stesse
formalità giuridiche del precedente ed entro i termini di decadenza
”.

 

TETTO, GRONDAIE E PLUVIALI: LA GIURISPRUDENZA DIVISA SULLA RIPARTIZIONE DELLE SPESE

[A cura di: Rodolfo Cusano – pres. onorario Acap]

 

In un condominio il proprietario del lastrico solare si è
opposto alla ripartizione delle spese ex art. 1126 c.c. sostenendo che esso
riguarda solo i lastrici solari. Per cui si chiede: come si ripartiscono le
spese per la ricostruzione – riparazione del tetto, delle grondaie e delle
pluviali?

Le spese per la manutenzione, la
riparazione e la ricostruzione del tetto, e dei manufatti che lo compongono e
lo sostengono, nonché dei suoi accessori (es. gronde e pluviali), sono
sopportate da tutti i condòmini, in proporzione alle rispettive quote
millesimali, salva diversa previsione del regolamento di condominio (art. 1123,
1° co., c.c.).

Nel caso cui l’edificio abbia più tetti o
si componga di più corpi di fabbrica, strutturalmente e funzionalmente
autonomi, e le opere di riparazione riguardino taluno soltanto di questi tetti,
le spese relative sono sopportate, ai sensi dell’art. 1123, ult. co., c.c.,
sempre in base ai millesimi di proprietà, dai soli condòmini le cui unità
immobiliari siano coperte dal tetto da riparare e si trovino nella proiezione
verso il basso dei suoi lati. Analogo criterio opera nell’ipotesi in cui il
tetto copra una parte soltanto dell’edificio.

Può aversi l’ipotesi, poi, che il tetto, pur avendo funzione
di copertura dei piani sottostanti, sia di proprietà esclusiva o in uso
esclusivo di un condòmino: in tal caso, la spesa relativa alla sua manutenzione
va ripartita in base all’art. 1126 c.c., sì da gravare per 1/3 sul
titolare esclusivo del diritto di proprietà e per i restanti 2/3 sui condòmini
delle unità immobiliari a cui il tetto serva, in proporzione del piano o della
porzione di piano di ciascuno di essi.

Non possiamo non ricordare che recentemente la Cassazione,
con sentenza n. 27154 depositata il 22 dicembre 2014, ha operato un vero e
proprio cambio di indirizzo in ordine al riparto delle spese di riparazione
degli elementi considerati accessori del tetto. Infatti, la S.C.,
pronunciandosi sull’impugnativa da parte di alcuni condòmini della delibera
condominiale che aveva stabilito in ordine alla spesa per la manutenzione delle
gronde, la ripartizione secondo il criterio di cui all’art. 1126 c.c., anziché
in base a quello di cui all’art. 1125, 3° comma, c.c. ha stabilito che le
grondaie, così come i doccioni e i canali di scarico delle acque meteoriche del
tetto di uno stabile condominiale, svolgendo una funzione necessaria all’uso
comune sono parti comuni dell’edificio ai sensi dell’art. 1117 c.c. e pertanto
le spese necessarie per la loro riparazione, manutenzione o sostituzione vanno
ripartite tra tutti i condòmini.

“A prescindere dal fatto che la copertura del fabbricato sia
costituita da tetto a falda o da lastrico solare di proprietà esclusiva, ha
spiegato, infatti, la Corte, l’esistenza delle gronde “rimane indispensabile
per raccogliere e smaltire le acque piovane, poiché le stesse convogliano le
acque meteoriche dalla sommità dell’edificio fino a terra o a scarichi fognari
e svolgono quindi funzione che prescinde dal regime proprietario del terrazzo
di copertura, salva anche la facoltà di un uso più intenso che, compatibilmente
con il disposto del’art. 1102 c.c., possa farne il proprietario del terrazzo
stesso per suoi usi”.

Pertanto, ha concluso la S.C. accogliendo il ricorso e
cassando la sentenza della Corte d’Appello di Napoli, “la proprietà esclusiva
del lastrico o terrazzo dal quale provengano le acque che si immettono nei
canali non muta questo regime, giacché l’art. 1126 c.c. disciplina soltanto le
riparazioni o ricostruzioni del lastrico propriamente inteso e non di altre
parti dell’immobile, la cui esistenza è, per esso, indipendente da quella del
lastrico, salvo che altrimenti risulti espressamente dal titolo”.

Sul punto
esiste un contrasto di giurisprudenza che speriamo venga colmato al più presto
con la rimessione della questione alle Sezioni Unite della Cassazione.

 

CONFEDILIZIA: CONTESTA IL NUOVO ISEE: “PENALIZZA I PICCOLI PROPRIETARI IMMOBILIARI”

 

[A cura di: Corrado Sforza Fogliani – presidente
Confedilizia]

 

Il nuovo Isee – in vigore dal primo gennaio 2015 –
costituisce di fatto una nuova tassazione della casa, falsa e surrettizia, a
danno soprattutto dei piccoli proprietari, e cioè della stragrande maggioranza.
Infatti il calcolo del valore degli immobili deve ora essere effettuato sulla
base del loro valore quale definito ai fini Imu. Ciò comporta automaticamente
l’esclusione dalle prestazioni sociali agevolate di un alto numero di
proprietari di casa, che a tali prestazioni avevano invece diritto sulla base
del precedente indicatore, fondato sull’imponibile Ici. Come noto, infatti, ai
fini dell’Imu il valore delle abitazioni è stato elevato del 60% per effetto
dell’aumento – del tutto slegato dalla realtà e finalizzato solo ad acquisire
maggior gettito – dei moltiplicatori catastali. Insomma, con il nuovo Isee – ha
rilevato la Confedilizia, inascoltata dalla maggioranza tutta – numerosi
proprietari di casa, pur non avendo visto accresciuto il proprio tenore di
vita, che si è al contrario ridotto per far fronte alla pesante tassazione
costituita dall’Imu, perdono automaticamente il diritto ad usufruire di
prestazioni di natura sociale e assistenziale quali, ad esempio: assegni
familiari; assegni di maternità; riduzione delle rette degli asili nido;
riduzione del costo delle mense scolastiche; riduzione delle rette delle case
di cura per anziani; agevolazioni per utenze gas, telefono, elettricità;
esenzione per le prestazioni sanitarie; riduzione delle tasse universitarie.
Con l’effetto di accrescere la discriminazione nei confronti dell’investimento
immobiliare già insita nella componente patrimoniale dell’Isee.

CRONACA FLASH

Getta armi da finestra,

fermato dai carabinieri

Un ragazzo di 22 anni è stato arrestato dai carabinieri di Cosenza e posto ai domiciliari, con l’accusa di detenzione illegale di armi e munizioni. Nel corso di una perquisizione a casa del giovane, i militari lo hanno placcato mentre tentava di disfarsi di due pistole gettandole dalla finestra. I carabinieri hanno poi recuperato una pistola calibro 6,35, una calibro 9 con matricola abrasa e munizioni varie.


Droga e banconote false

nell’alloggio: arrestato

In provincia di Catanzaro i carabinieri hanno tratto in arresto e messo a domiciliari un uomo di 51 anni per detenzione illecita di droga a fini di spaccio e possesso di denaro falso. Durante la perquisizione effettuata dai militari, sono stati rinvenuti 80 grammi di marijuana, una banconota da 100 euro risultata contraffatta e un bilancino di precisione, prontamente sequestrati. 


Coltiva marija in casa

Cane poliziotto lo scopre 

La Guarda di Finanza di Ravenna ha arrestato un uomo di 43 anni che aveva creato un sistema ad hoc per la coltivazione di marijuana in casa. L’impianto era costituito da tubi in pvc perforati per ospitare le piantine di canapa indiana, con un temporizzatore di irrigazione e riciclo delle acque, sistemi di aerazione della camera buia e di illuminazione per creare l’effetto sole. I militari sono arrivati all’uomo grazie al fiuto di un labrador dell’unità cinofila di Ravenna, che lo ha puntato mentre passeggiava con un amico. 


Uccisa a martellate

per lite condominiale

Una lite condominiale sfociata in tragedia. È accaduto in provincia di Caserta. La vittima è una donna di 59 anni, una professoressa delle scuole superiori. L’uomo, di 51 anni, la ha presa a martellate togliendole così la vita. L’aggressore è stato poi fermato dalla polizia con l’accusa di omicidio.


Furti in alloggi: manette

anche per donna incinta

Una piccola banda, apparentemente insospettabile, si aggirava in una cittadina della provincia di Napoli per compiere una serie di furti in appartamenti. Due donne, di cui una in stato interessante, sono state arrestate dalla polizia. Gli agenti hanno recuperato anche alcuni monili in oro e argento, il cui valore è in corso di quantificazione. I poliziotti stanno indagando anche su altri furti commessi in zona.

CONDOMINIO: IL DECORO ARCHITETTONICO COME “PARTE COMUNE IMMATERIALE”

[A cura di: avv. Roberto Negro – Centro Studi APPC]


Si segnala, in quanto meritevole almeno di un breve esame della stessa, la sentenza della Corte Cass. Civ., Sex. II, n. 20985 del 6 ottobre 2014. Detta pronuncia faceva riferimento a  una fattispecie di installazione di impianto/i di condizionamento apposto/i nella facciata esterna di un condominio. La Suprema Corte ha ritenuto che il regime di disciplina dell’innovazioni ai sensi dell’art. 1120 cod. civ. fa sì che sia irrilevante una eventuale autorizzazione alle opere, nella specie condizionatori, in facciata esterna condominiale, da parte della autorità amministrativa, in quanto il rapporto tra condomino o condòmini esecutore/i dell’opera/e, non può incidere negativamente sulle posizioni soggettive degli altri condòmini. 

Ed infatti, una volta accertato il fatto che “il fabbricato aveva struttura e linee architettoniche residenziali ed era inserito in ambito paesaggistico protetto”, si poteva ritenere corretta l’applicazione dell’art. 1120 cod. civ. ritenendo costituire innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale e pertanto vietata non solo quella che alteri le linee architettoniche dell’edificio stesso, ma anche quella che, in ogni caso, viene a riverberarsi in maniera negativa “sull’aspetto estetico ed armonico dell’edificio condominiale”. 

Su tale premessa, aggiunge la Corte che i rapporti tra esecutore delle opere e la pubblica autorità non possono incidere negativamente “sulle posizioni soggettive”, degli altri condòmini, ai sensi dell’art. 1120 cod. civ. comma 2, essendo imprescindibile e necessaria la preservazione del “decoro architettonico” dell’edificio. 

La sentenza qui brevemente commentata indica l’importante principio per cui l’opera del condomino non può riverberarsi negativamente sull’insieme “dell’armonico aspetto dello stabile”. In definitiva, pare la Corte abbia ritenuto come una sorta di bene condominiale l’insieme architettonico di un edificio condominiale, applicando in maniera estesa i principi dell’art. 1120 c.c., nonché dell’art. 1102 c.c. Il decoro architettonico di un edificio è da salvaguardare pertanto come “bene primario” e viene così ad essere una sorta di parte comune “immateriale” dell’edificio condominiale; tale principio pare anche compatibile con una funzione di natura sociale della proprietà privata, ai sensi anche della normativa costituzionale in materia, e tenuto conto del generale principio di conservazione delle entità immobiliari in condominio nel loro profilo paesaggistico ed estetico e al fine di un corretto inserimento dell’edificio in condominio nell’ambiente e nella texture di tipo economico, paesaggistico e sociale in cui il condominio viene ad essere inserito.



LA DISDETTA DEL CONTRATTO DI LOCAZIONE: NORME, GIURISPRUDENZA E CASI PARTICOLARI

[A cura di: Paolo Ciri – delegato Uppi]


Si fa presto a dire “disdetto il contratto”. Prima di pensare di aver sciolto ogni legame sarà bene esaminare una serie di dettagli.

Ad esempio: da quando vale la disdetta del contratto di locazione o affitto? Dal giorno di spedizione o dal giorno di ricezione? La disdetta (atto unilaterale recettizio) ha valore dal momento in cui chi la riceve ne ha conoscenza, cioè da quando legge la lettera. L’articolo 1334 del Codice Civile, infatti, recita: “Gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati”. 

D’altra parte, la raccomandata, per il disposto dell’art. 1335 del Codice Civile, si presume letta il giorno stesso in cui è stata ritirata, benché si possa dare (ma è difficile) prova contraria. Va da sé che quando la disdetta viene data e ricevuta per “raccomandata a mano” la conoscenza è immediata, alla firma. Vi è poi la eventualità che la raccomandata non venga ritirata. In questo caso si ha per letta al giorno di compiuta giacenza, il trentesimo giorno dopo l’arrivo. Con lo svantaggio, per il soggetto che la ha ricevuta, di non conoscere nemmeno cosa ci fosse scritto. In merito vedasi Cassazione Civile n. 1188/2014,, n. 16327/2007, n. 6527/2003, n. 2847/1997.


LA DECORRENZA

Supponiamo, per esempio, che il termine di preavviso sia quello di legge, sei mesi. Dal giorno di ricezione, o di compiuta giacenza della raccomandata, passeranno sei mesi e poi il contratto sarà sciolto, sempre che la disdetta sia data validamente. Però, salvo diversa pattuizione, gli affitti si “acquistano” (e si pagano) a periodi mensili. Percui, se il sesto mese dalla ricezione scade oltre il termine mensile del contratto si dovrà pagare anche una ulteriore mensilità. Ad esempio, un contratto che decorre dal primo marzo e la cui disdetta arriva il giorno 6 giugno comporterà, nei fatti, il pagamento di sette mesi di preavviso: da giugno a dicembre compresi, perché i sei mesi decorrono dal 1° luglio, il “primo del mese” successivo alla ricezione. 


L’INDIRIZZO

Un problema a parte è quello della corretta individuazione dell’indirizzo del destinatario (domicilio contrattuale, legale o elettivo che sia). È bene individuarlo con precisione e correttezza nel contratto, ed individuare anche le alternative per il caso esso venga a mutare: questa è una possibilità offerta dall’articolo 141 del Codice di Procedura Civile. Ad esempio, molto spesso non si riesce a scrivere né a notificare all’inquilino che ha lasciato l’immobile locato, non conoscendone il domicilio attuale. In mancanza di specifiche clausole si rischia di scrivere ad un indirizzo non più valido, né giuridicamente né di fatto. Vedasi in proposito Cassazione Civile 10751/1991 o 6471/1987 o 17040/2003  o, infine,   2642/2013.


IL PERIODO

Per quanto riguarda il potere di dare validamente disdetta di un contratto di locazione o affitto “alla fine del periodo”, premettiamo che per “periodo” si intende il “gruppo” di anni per i quali ci si impegna. Ad esempio, il quadriennio nei contratti liberi, il primo triennio ed i successivi bienni per i concordati, la durata di sei anni ed i successivi gruppi di sei per i contratti commerciali (e 9 per gli alberghi). Questi tempi non si possono “limitare” nella vigenza della legge 392/79 (art. 79) mentre per quanto è ora regolamentato dalla 431/98 vale l’articolo 13 comma 3 che vieta di “derogare i limiti”, quindi, a rigore, anche di allungarli. Però la prassi e la giurisprudenza lo interpretano nel senso che la deroga è vietata se comprime i tempi, è tollerata se li espande, a beneficio dell’inquilino che si assicura il godimento per un periodo più lungo. Vero pure che queste logiche, in periodi di recessione e deflazioni, andrebbero riparametrate, ma, per ora, abbiamo ancora la mentalità che quelle leggi ispirò. La “allungabilità” della durata dei periodi dei contratti commerciali è confermata dalla disposizione di cui all’articolo 16-duodecies del D.L. 207/2008 convertito in legge 14/2009. Autorizza l’applicazione di una adeguamento Istat superiore al limite del 75% per qui contratti che prevedano periodi più lunghi del minimo di legge. 

Tutto ciò premesso chiariamo che l’inquilino può validamente dare disdetta alla scadenza di ciascun periodo di locazione. 


I GRAVI MOTIVI

In caso di gravi motivi l’inquilino può dare disdetta in ogni momento, ma con un anticipo, rispetto al rilascio, di sei mesi, come per legge. Ovviamente non significa, come volgarmente si dice, che l’inquilino non se ne può andare prima del decorso del sesto mese. Può andarsene, è chiaro, ma deve continuare a pagare i canoni fino alla scadenza del sesto mese dalla conoscenza della disdetta.

Ma quali sono i “gravi motivi”? Già nel 2005 la Cassazione diede una precisa definizione, che ancora oggi resiste, tanto è appropriata: Cassazione Sezione III, sent. n. 15620/ 2005: “I gravi motivi devono collegarsi a fatti estranei alla volontà del conduttore, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto”. Così poi anche Cassazione 5911/2011, 10980/1996, 260/91, 11466/92, 1098/94, 5328/2007, 12291/2014. Un elenco puramente esemplificativo: trasferimento della sede di lavoro, perdita del lavoro, condizioni di salute aggravatesi ed incompatibili con l’alloggio attuale, malattie di parenti stretti che richiedono un trasferimento per l’assistenza ed anche motivi meno tristi, come il fatto che nuove nascite allargano la famiglia e quindi l’alloggio non è più sufficiente. Secondo alcuni vale anche la inidoneità materiale o sanitaria dell’immobile. Ma io direi che qui siamo nel campo della risoluzione per inadempimento, posto che il locatore deve mantenere la cosa locata in stato da servire all’uso convenuto (art. 1575 c.c.).


LE DEROGHE

Contrattualmente, cioè con l’accordo di tutte le parti, si può derogare a questa modalità legale di disdetta da parte dell’inquilino: si può prevedere un termine più breve (ma non invece maggiore) e si può concedere il c.d. “recesso libero”. Cioè la possibilità di dare disdetta senza i gravi motivi. Anzi, a questo punto, senza motivo alcuno. Semplicemente per scelta. Ed è questa la modalità più praticata, nei fatti.

Il proprietario/locatore può dare disdetta solo alla scadenza del secondo periodo di locazione o dei successivi. Può darla anche alla fine del primo periodo, ma solo in casi eccezionali e tassativamente previsti dall’articolo 3 della legge 431/98. È bene utilizzare questa possibilità con cautela e correttezza, perché, in caso contrario, il danno da risarcire all’ex inquilino è, come minimo, 36 volte il canone di locazione. 


CASI PARTICOLARI

A volte la disdetta viene data da uno solo degli inquilini o da uno solo dei proprietari. La disdetta di un solo conduttore è valida se viene seguita dalla accettazione o da fatti concludenti degli altri. Se invece uno degli altri manifesta l’intenzione di proseguire il contratto, stante la obbligazione passiva solidale, la disdetta non è valida. L’altro inquilino (o gli altri) può proseguire il rapporto contrattuale, pagando l’intero canone. Può anche essere prevista la locazione di una parte esclusiva e delle parti comuni. E qui, allora, non saremo in presenza di un pluralità di inquilini, perché ogni contratto avrò un inquilino, probabilmente. Oppure può essere prevista la parziarietà della obbligazione del pagamento. Allora se un solo inquilino disdetta, gli altri rimarranno e pagheranno solo la loro quota. Ma questo caso è raro, nella prassi.

Dalla parte di proprietari invece si applica il principio del “consenso presunto e reciproco di ciascuno dei comproprietari all’atto di amministrazione compiuto dal singolo”. Vedasi Cassazione Civile n. 14772/2004,. n. 19929/2008, n. 8996/2005, n. 5077/2010. Ma l’atto di gestione di uno dei comproprietari si presume effettuato col consenso degli altri solo se gli altri non manifestano esplicitamente una volontà contraria. A quel punto, per dirimere la questione, non resta che una “assemblea di comunione”, simile a quella di condominio, ove si vada a votare secondo le proprie quote di proprietà (art. 1105 Codice Civile).


QUALI EFFETTI

In conclusione si noti che il momento preciso di validità della disdetta rileva per una serie di adempimenti, non solo nei rapporti proprietario/inquilino: operazioni di riconsegna, registrazione della risoluzione alla Agenzia delle Entrate, eventualmente cessazione della agevolazione Imu sui contratti concordati, disdetta della TAriffa RIfiuti, disdetta delle varie utenze, cambio della residenza, calcolo delle quote condominiali spettanti all’inquilino. 

DA ALLOGGIO A STUDIO: BISOGNA MODIFICARE LE TABELLE MILLESIMALI DEL CONDOMINIO?

[A cura di: avv. Rodolfo Cusano – pres. onorario Acap]

 

Nel fabbricato condominiale un avvocato ha trasformato la
sua abitazione in studio professionale. È tenuto alla modifica delle tabelle
millesimali a sua cura e sue spese? L’assemblea può costringerlo a ciò? Il
quesito, specifico, chiama in causa principi di portata generale.

Il vecchio testo dell’art. 69 Disp. Att. prevedeva che i
valori proporzionali dei vari piani o porzioni di piano possono essere riveduti
o modificati, anche nell’interesse di un solo condomino, nei seguenti casi:

* quando risulta che sono conseguenza di un errore;

* quando, per le mutate condizioni di una parte
dell’edificio, in conseguenza della sopraelevazione di nuovi piani, di
espropriazione parziale o di innovazioni di vasta portata, è notevolmente
alterato il rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di
piano.

Per cui, trattandosi di non rilevante modifica, si riteneva
che la semplice trasformazione da abitazione a studio non comportasse l’obbligo
della modifica delle tabelle millesimali.

A seguito della riforma del condominio, il nuovo testo
dell’articolo in esame specifica, ora, che:

1. i valori proporzionali delle singole unità immobiliari
espressi nella tabella millesimale possono essere rettificati o modificati
all’unanimità;

2. nei casi di seguito indicati, però, la revisione o la
modifica dei millesimi può essere deliberata dall’assemblea, anche nell’interesse
di un solo condomino, con il voto favorevole del 50% + 1 degli intervenuti, in
rappresentanza di almeno la metà del valore dell’edificio; ciò è possibile:

a) quando risulta che sono conseguenza di un errore;

b) quando, per le mutate condizioni di
una parte dell’edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di
superfici, di modificazione delle destinazioni d’uso o di incremento o
diminuzione delle unità immobiliari, è alterato per più di 1/5 il valore
proporzionale dell’unità immobiliare anche di un solo condomino (in tal caso,
peraltro, il relativo costo è sopportato da chi ha dato luogo alla variazione);

Quindi, a seguito della riforma, il più generico riferimento
alla notevole alterazione è stato sostituito con il superamento dell’incremento
o diminuzione del valore proporzionale dell’appartamento per più di un quinto.
Per cui da oggi in poi occorrerà stabilire il valore dell’immobile e poi
decidere in base ai prezzi in comune commercio se la modifica ha dato oppure no
luogo ad un incremento di almeno il 20 per cento del prezzo dell’immobile. Ciò
può accadere ad esempio nel caso in cui il fabbricato sia ubicato in un luogo
molto centrale della città ed in una posizione favorevole alla nuova
destinazione: in genere ai piani bassi. Diciamo che sul punto è meglio però
dotarsi di una perizia tecnica di stima.

Non comporta modifiche della tabella millesimale, invece, il
frazionamento di un’unità immobiliare in più unità. In tale evenienza, infatti,
non si verifica alcuna delle condizioni previste dall’articolo 69 disp. att.
c.c., perché la somma delle nuove quote risulta uguale a quella precedente, per
cui si può procedere con una semplice operazione matematica al fine di
aggiornare le tabelle millesimali alle mutate condizioni dell’edificio.

 

 

RISTRUTTURAZIONI ED EFFICIENZA: COME OPERANO LE DETRAZIONI FISCALI IN CONDOMINIO

[A cura di: Andrea Cartosio – ist. naz. Tributaristi


 Questa disamina è tratta dal terzo capitolo delle guide fiscali realizzate per Italia Casa e Quotidianodelcondominio.it da Andrea Cartosio, tributarista in Ovada. La trattazione riguarda la materia delle detrazioni fiscali in condominio per i lavori di ristrutturazione ed efficienza energetica. La legge di stabilità 2015 (legge n. 190 del 23 dicembre 2014) di fatto non ha stravolto il precedente impianto normativo, poiché ha concesso nuovamente la proroga (al 31 dicembre 2015) della detrazione fiscale Irpef del 50%, con un tetto massimo di spesa per unità immobiliare pari a 96.000 euro. Inoltre, sono state prorogate le detrazioni per l’acquisto di mobili e grandi elettrodomestici, prevedendo una detraibilità di spese documentate (dal 6 giugno 2013 al 31 dicembre 2015), calcolata su un massimo di 10.000 euro.

Confermate anche le detrazioni del 65% per interventi antisismici in zone dove tale pericolo risulta rilevante. In aggiunta, la legge di stabilità 2015 ha previsto che dal 1° gennaio 2016 la detrazione relativa a lavori di ristrutturazione tornerà alla misura ordinaria del 36% con il limite di 48.000 euro per unità immobiliare, salvo ulteriore proroga.

Ecco le detrazioni in essere dal 1° gennaio 2015.


Ristrutturazione edilizia

Come già detto, queste detrazioni godono di uno sgravio fiscale Irpef (imposta sul reddito delle persone fisiche) nella misura del 50%, con un limite di spesa pari a 96.000 euro per unità immobiliare. Qualora gli interventi di ristrutturazione edilizia siano realizzati su fabbricati adoperati ad uso promiscuo anche per l’attività di impresa, la succitata detrazione verrà ridotta nella misura del 50%. Nulla viene modificato in materia condominiale, poiché farà sempre fede la data del bonifico con cui l’amministratore ha effettuato il pagamento.

Gli interventi oggetto della detrazione per ristrutturazione edilizia, da intendersi genericamente come lavori di recupero del patrimonio edilizio esistente, sono:

* opere di manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici, nonché interventi mirati al loro restauro, al risanamento conservativo ed alla ristrutturazione edilizia (lavori di cui all’articolo 3, comma 1, lettere a), b), c), d) del D.P.R. 06/06/2001 n. 380;

* eliminazione delle barriere architettoniche;

* interventi di protezione mediante sistemi di allarme, installazione impianti di videosorveglianza, apposizione di inferriate alle finestre, sostituzione o posa di porte blindate per l’accesso alle unità abitative;

* installazione, sostituzione e rafforzamento di cancellate e recinzioni;

* adozione di vetri antisfondamento;

* montaggio di casseforti a muro.

Gli interventi di manutenzione ordinaria sono detraibili unicamente se realizzati su parti comuni condominiali, quindi non sono ammessi al beneficio fiscale se eseguiti nell’ambito di proprietà private. È data possibilità di usufruire della detrazione sulle spese di ristrutturazione inerente i settori sopra elencati a tutti i contribuenti gravati della contribuzione Irpef, ossia dall’imposta sul reddito delle persone fisiche, siano esse residenti o meno nel territorio dello Stato Italiano. Tali agevolazioni spettano a tutti i seguenti titolari di diritti reali di godimento sugli immobili:

* proprietari o nudi proprietari;

* titolari di diritto reale di godimento quale per esempio l’usufrutto;

* locatari e comodatari;

* soci di cooperative divise e indivise;

* imprenditori individuali per i soli immobili non facenti parte di beni strumentali o merce;

* soggetti indicati nell’art. 5 del TUIR;


Interventi ammessi

Tra gli interventi ammessi a fruire della detrazioni fiscale,spiccano i seguenti.

* Manutenzione ordinaria: interventi di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e necessari ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti, purché eseguiti su parti comuni condominiali identificate dall’art. 1117, commi 1,2 e 3, deliberati in assemblea, la cui ripartizione delle spese di norma verrà fatta su base millesimale;

* Manutenzione straordinaria: alcune tipologie dei lavori che seguono sono state fatte confluire in questa categoria d’intervento dal D.L. n. 133/2014, andando a modificare l’impianto normativo già esistente nel Testo Unico ed a titolo esemplificativo rientrano nella manutenzione straordinaria gli interventi appresso elencati:

a) rinnovamento o sostituzione di parti strutturali degli stabili;

b) realizzazione o integrazione di servizi tecnologici, igienico-sanitari;

c) frazionamento o accorpamento di unità immobiliari;

d) installazione ascensori e montascale;

e) sostituzione d’infissi;

f) rifacimento e costruzione di scale e rampe;

g) interventi mirati per il risparmio energetico.

* Risanamento e restauro conservativo: interventi mirati alla conservazione dell’unità immobiliare, come ad esempio:

a) eliminazione situazioni di pericolosità e degrado;

b) adeguamento delle altezze dei locali sottotetto rispetto alle volumetrie in essere;

c) apertura di finestre per areazione di locali.

* Ristrutturazione edilizia: vengono considerati tali gli interventi di maggiore invasività rispetto ai precedenti, che a lavori finiti possono generare un organismo edilizio totalmente o parzialmente diverso dall’originario.


Fruizione dei bonus

Per potere usufruire delle detrazioni fiscali, il singolo cittadino o il condominio, e per quest’ultimo il suo amministratore, dovranno effettuare i pagamenti tramite bonifico bancario o postale recante l’apposito riferimento normativo, come disciplinato dall’articolo 16-bis del D.P.R. n. 917/1986, con le modalità di cui al D.M. 18/02/1998 n° 41. Inoltre dovranno essere indicati il codice fiscale del soggetto interessato alle detrazioni e conseguentemente il codice fiscale/partita IVA della ditta e/o artigiano a cui sono stati affidati i lavori.

In caso di più proprietari di una stessa unità immobiliare oggetto d’intervento, qualora tutti vogliano godere delle detrazioni d’imposta, bisognerà effettuare il bonifico come appena descritto avendo l’accortezza di inserire tutti i codici fiscali dei beneficiari della detrazione. In fase di dichiarazione dei redditi, ciascun contribuente dovrà indicare i dati catastali identificativi dell’unità immobiliare e l’importo della detrazione di propria competenza per quota. Nel caso fosse il conduttore a godere di tali detrazioni, dovranno essere inseriti gli estremi dell’atto che lo lega all’unità immobiliare oggetto d’intervento. 

La documentazione attestante i lavori ammessi alla detrazione d’imposta dovrà essere conservata per tutta la durata di dieci anni. Gli interventi di recupero edilizio e le relative agevolazioni fiscali che godono di un benefit di detrazione pari al 65% non sono cumulabili. In caso si fosse in presenza d’intervento costituito da più lavorazioni rientranti in entrambe le casistiche, il contribuente dovrà scegliere quale beneficio fiscale utilizzare per ciascuna di esse.


Detrazioni in condominio

I condomini che sostengono le spese per gli interventi effettuati su parti comuni condominiali possono godere delle detrazioni fiscali. L’amministratore, come detto in precedenza, dovrà effettuare bonifici dedicati alle ristrutturazioni o alla riqualificazione energetica dal conto corrente condominiale recanti la dicitura analoga a quelli eseguiti dai privati. Inoltre, dovrà necessariamente inserire il codice fiscale proprio e del condominio, nonché la partita Iva dell’impresa. In caso di condomino-amministratore la procedura resta invariata.

Per fare in modo che i condòmini possano portare in detrazione le spese, l’amministratore dovrà rilasciare a ciascuno di essi presenti nell’intestazione del versamento dagli stessi effettuato al condominio per la corresponsione della propria quota, una certificazione dei pagamenti nella quale dovrà essere evidenziata l’unità immobiliare di pertinenza e la cifra effettivamente corrisposta. Per evitare problematiche in fase di certificazione, è buona norma da parte dell’amministratore portare a conoscenza i condòmini di tale esigenza, poiché chi non risulta come nominativo nel pagamento inoltrato al condominio non potrà usufruire delle detrazioni.

Esempio. A e B sono comproprietari di un’unità immobiliare sita nello stesso condominio ed entrambi vogliono usufruire delle detrazioni fiscali. Il versamento effettuato allo stabile è intestato solo al condominio A, senza che risulti il nominativo del condomino B. In tal caso l’amministratore dovrà rilasciare la certificazione del pagamento, ai fini della detrazione fiscale dell’importo versato, solo al condomino A. È importante che l’amministratore rilasci la certificazione esatta per non incorrere in prima persona in sanzioni e secondariamente per non indurre in errore il condomino al momento della dichiarazione dei redditi.

Novità introdotta dalla legge di stabilità 2015 è l’innalzamento della ritenuta d’acconto operata dalla banca/posta sulle fatture oggetto di pagamento; difatti non risulta più trattenuta la percentuale del 4%, ma dal 1° gennaio 2015 la trattenuta è pari all’8%. Tale ritenuta sarà certificata al fornitore entro il 28 febbraio dell’anno successivo dalla banca/posta, pertanto non dovrà essere inserita dal condominio nel modello della Certificazione Unica.


Vendita bene avente bonus

Talvolta può verificarsi il caso che l’immobile oggetto d’intervento di recupero edilizio sia alienato da parte del proprietario prima che sia trascorso l’intero periodo di fruizione della detrazione fiscale. In tal caso la ratio vuole che il diritto di godimento delle detrazioni non ancora utilizzate venga trasferito in capo al nuovo proprietario, salvo diversa pattuizione ante trasferimento di proprietà. Dunque ne consegue che, qualora il venditore voglia mantenere la possibilità di usufruire di tali detrazioni, al momento dell’atto dovrà specificarlo. 

In caso di conduttore o locatore che durante la locazione abbia sostenuto spese per il recupero edilizio, potrà continuare a conservare tale diritto anche se non più vigente il rapporto locativo. In caso di decesso del titolare della detrazione il diritto viene trasferito all’erede.


Iva su lavori detraibili

Un’ulteriore agevolazione è stata concessa al contribuente da parte dell’amministrazione finanziaria, ovvero è stata confermata l’applicabilità dell’Iva ridotta al 10%, nei limiti di cui all’articolo 7, comma 1, lettera b) della Legge n. 488/1999 per quel che concerne le cessioni di beni significativi, negli interventi citati nel D.M. del 29 dicembre 1999, atti al godimento delle detrazioni fiscali ovvero:

* sostituzione di infissi;

* interventi mirati alla sicurezza, allarmi, videocitofoni ecc…;

* installazione nuove caldaie;

* sanitari e rubinetteria da bagni;

* installazione ascensori o montacarichi;

* apparecchiature di condizionamento per il riciclo dell’aria.

ALLOGGIO IN CONDOMINIO: PARTI COMUNI NON POSSONO ESSERE ESCLUSE DA COMPRAVENDITA

[A cura di: avv. Paolo Ribero]


Nuovamente la Corte di Cassazione è stata chiamata a ribadire un principio – ormai consolidato – secondo cui l’art. 1117 C.C. non contiene un’elencazione tassativa ma solo esemplificativa delle cose comuni, essendo tali, salvo risulti diversamente dal titolo, anche quelle aventi un’oggettiva e concreta destinazione al servizio della cosa comune di tutte o di una parte soltanto delle unità immobiliari di proprietà individuale.

Con la sentenza n. 1680, depositata il 29 gennaio 2015, la Suprema Corte ha ribaltato una decisione della Corte di Appello di Palermo relativa alla possibilità di escludere nell’atto di compravendita di un appartamento la proprietà di alcune parti comuni. Il caso sottoposto alla Corte riguardava l’acquisto effettuato da un ottico di un locale al piano terra e di locali al piano superiore collegati dal dante causa con una scala interna in modo che i clienti non dovessero usufruire della scala condominiale: nell’atto d’acquisto veniva previsto che l’unità immobiliare compravenduta non avrebbe avuto accesso alla scala condominiale (accesso che era stato impedito con la costruzione di un muro).

La vertenza ha oggetto la nullità di detta clausola. 

Il Tribunale accertava la nullità della clausola ed il diritto dell’attore a ripristinare l’accesso al proprio immobile dal corridoio comune. Tale decisione veniva riformata dalla Corte d’Appello che riteneva che il titolo d’acquisto non includeva il corridoio e questo non era annoverato tra le parti comuni dall’art. 1117 c.c.

La Suprema Corte ha ravvisato errori nella decisione della Corte d’Appello ribadendo con la sentenza in esame (n. 1680/2015) che la giurisprudenza della Cassazione “ha chiarito già da tempo che l’art. 1117 c.c. non stabilisce una presunzione legale di comunione per le cose in esso indicate nei n. 1, 2 e 3, ma dispone che detti beni sono comuni a meno che non risultino di proprietà esclusiva in base a un titolo; e che il criterio d’individuazione delle cose comuni dettato da tale norma non opera con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari (Cass. S.U. n. 7449/93)”.

Da tale premessa è derivata l’affermazione che la clausola, contenuta in un contratto di vendita di un appartamento sito in un edificio in condominio, con cui sia esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune parti comuni dell’edificio stesso, “deve ritenersi nulla poiché con essa si intende attuare rinuncia di un condomino alle parti comuni, vietata dal capoverso dell’art. 1118 c.c. (Cass. N. 3309/77, Cass. 6036/95)”.

Si sostiene inoltre che se si considerasse valida la vendita che escluda un diritto condominiale, si inciderebbe sulle quote millesimali, in violazione del I comma dell’art. 1118. È pacifico in dottrina e giurisprudenza (Cass. 561/70) che in materia di determinazione del valore dei piani o delle porzioni di piano, da cui dipende la proporzione nei diritti e negli obblighi dei condòmini, l’assemblea dei condòmini non dispone di alcun potere. E pertanto ciò che non può disporre l’assemblea condominiale non può nemmeno essere realizzato da un singolo condomino, il quale, quindi, non può alienare la propria unità immobiliare separatamente dai diritti sulle cose comuni.