[A cura di: ing. Fabrizio Mario Vinardi – consigliere segretario Ordine degli Ingegneri della Provincia di Torino] Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci: soffitto e solaio non sono sinonimi. Ma il primo dei malcapitati condòmini della vicenda che esporremo disse proprio: “È crollato il soffitto del vicino!”.
Facciamo un po’ di chiarezza terminologica: tecnicamente per soffitto si intende la “superficie che delimita superiormente il vano di ogni ambiente coperto, applicato sulla superficie inferiore del solai” (non a caso se il rivestimento è staccato dal solaio e appeso tramite idonea struttura, si parla di “controsoffitto”); al contrario, il solaio è una “struttura piana orizzontale in legno, acciaio, calcestruzzo armato o laterizi, che forma la copertura e, soprattutto, il sostegno dei piani intermedi degli edifici”.
Quindi, un soffitto tradizionale costituito dal classico rivestimento d’intonaco, non è tecnicamente soggetto a “crollo”, ma semmai a “distacco” o “sfondellamento”.
Nel caso che stiamo per analizzare, tratto da un’esperienza reale, analizzeremo le conseguenze di avere un vicino moroso e contemporaneamente un altro vicino che affida una ristrutturazione ad una “impresa improvvisata”.
In una bella palazzina risalente agli anni ’30, un condomino, ahimè, non stava onorando le rate del mutuo immobiliare utilizzato per acquistare il proprio appartamento e, come di consueto, ciò era sfociato in un pignoramento e successiva procedura giudiziaria, al fine di vendere l’immobile all’asta.
Il Tribunale, come di prassi, aveva nominato un perito estimatore, affinché – presa visione dell’appartamento – effettuasse le varie attività di due diligence e, soprattutto, stabilisse il prezzo da porre a base d’asta. Senonché, al momento di tentare l’accesso all’immobile, un bel cartello con esposta un’ordinanza sindacale di “inagibilità e sgombero temporaneo del fabbricato” pose il nostro perito di fronte ad un caso veramente singolare.
Qualche ricerca presso l’Ufficio tecnico comunale ed ecco la causa: i lavori di ristrutturazione interna di un altro appartamento avevano causato il crollo parziale della soletta, con dissesto tanto in questa specifica unità immobiliare (dove si erano aperte voragini nel pavimento, ormai impraticabile), quanto in quello del piano sottostante (dove erano crollate le macerie), fortunatamente senza causare lesioni agli occupanti o agli inesperti lavoratori.
Un sopralluogo congiunto con i tecnici comunali permise di appurare la consistenza delle lesioni strutturali e, di comune accordo con l’amministratore condominiale, si decise che il consolidamento avrebbe verosimilmente interessato l’intero stabile, anche se ciò poteva essere confermato solo dopo verifiche più puntuali da parte di uno specialista in strutture. L’amministratore incaricò, quindi, un ingegnere strutturista, che confermò la prima impressione e iniziò a predisporre un progetto di consolidamento.
La situazione di inagibilità dell’intero fabbricato chiaramente azzerava la appetibilità commerciale dello specifico appartamento: pertanto, di concerto col Giudice, si decise di sospendere temporaneamente la procedura esecutiva, piuttosto che tentare di vendere all’asta un immobile per una cifra modesta, essendo l’alloggio inagibile.
E qui la faccenda inizia davvero a complicarsi: da un lato, i malcapitati proprietari volevano che il condomino responsabile, sia pur indirettamente, del dissesto si facesse carico dei costi, oltre a rimborsarli per il disagio di essere costretti a vivere fuori casa; dall’altro, il condomino che stava subendo l’esecuzione era comprensibilmente già sul lastrico e non poteva partecipare pro-quota neppure alle spese di progettazione del consolidamento, figuriamoci poi alla conseguente direzione lavori, opere edilizie e collaudo statico.
I lavori, pertanto, proseguirono a rilento, con l’assemblea condominiale che alfine si fece carico tanto dei lavori sulle parti comuni, quanto delle opere minime indispensabili nell’u.i. pignorata.
Il Perito Stimatore, dal canto suo, aveva depositato una relazione interlocutoria per indicare che non vi era una reale appetibilità commerciale dell’immobile (stante l’ordinanza di inagibilità), oltre a successive relazioni integrative. In quella finale vi era la valutazione da porre a base d’asta, in cui si diceva che – come da accordi intercorsi con il direttore dei lavori – la stima teneva conto del fatto che “le opere di consolidamento riguarderanno unicamente la creazione di nuove solette (prive di massetto, pavimenti, impianti nel sottofondo e tramezzi), fermo restando che l’alloggio manterrà la medesima pianta per quanto concerne il perimetro esterno (si presenterà, quindi, come un open space con una soletta al grezzo)” e, pertanto, venivano utilizzato per comparazione i valori unitari massimi per la specifica zona, decurtati del costo di costruzione delle tramezzature interne, dei rivestimenti e degli impianti, oltre ad un ulteriore decurtazione per tener conto che l’unità immobiliare non potrà essere immediatamente abitata/locata, ma sarà necessario procedere ai citati lavori e, alfine, accatastare l’appartamento. Insomma, un bell’esercizio di estimo immobiliare…
Alla fine, tutto tornò alla normalità, ma sulla vicenda vale la pena fermarsi un attimo a riflettere: