[A cura di: avv. Lorenzo Cottignoli – presidente LAIC, Lega Amministratori Immobiliari Condominiali] Cogliendo spunto dal ricorso proposto da un condomino che si opponeva alla demolizione della veranda costruita sul proprio terrazzo in un condominio romano, il Supremo Collegio, con l’Ordinanza n. 22156 del 12.9.2018, ritorna sulle definizioni di aspetto e decoro architettonico e fornisce così occasione per ripercorrere l’orientamento giurisprudenziale in materia.
Nel caso in esame, il concetto di aspetto architettonico viene introdotto dalla qualificazione dell’opera in questione come sopraelevazione, il che impone di applicare la norma di cui all’art. 1127 c.c.. Invero, detta disposizione, al comma 3, vieta l’intervento che “pregiudica l’aspetto architettonico dell’edificio”. La Suprema Corte richiama, pertanto, nell’analisi del caso in punto di diritto, la distinzione tra tale concetto e quello di decoro architettonico, la cui “alterazione” è vietata dall’art. 1120 co. 4 c.c., in tema di innovazioni.
Tale differenziazione non appare scolastica: essa tuttavia non appartiene alla più risalente giurisprudenza, la quale sovrapponeva i due concetti. Con sentenza n. 2267/1980, ad esempio, la stessa Corte di legittimità affermava che “la sopraelevazione è illegittima quando pregiudica il decoro dell’edificio”. Solo successivamente, le due definizioni vengono chiaramente differenziate, seppur spesso se ne riconosca la complementarietà.
Ne troviamo un esempio non recente nella sentenza n. 8861/1987, nella quale si afferma che “il codice civile, in materia di condominio di edifici, nel riferirsi, quanto alla sopraelevazione, all’aspetto architettonico dell’edificio e, quanto alle innovazioni, al decoro architettonico dello stesso, adotta nozioni di diversa portata”. Con una certa nitidezza si distingue tra i due concetti, così definendo “per aspetto architettonico la caratteristica principale insita nello stile architettonico dell’edificio, sicché l’adozione, nella parte sopraelevata, di uno stile diverso da quello della parte preesistente dell’edificio comporta normalmente un mutamento peggiorativo dell’aspetto architettonico complessivo (percepibile da qualunque osservatore)” e chiarendo altresì come si denoti, invece, “per decoro architettonico, una qualità positiva dell’edificio, derivante dal complesso delle caratteristiche architettoniche, principali e secondarie” discendendo da tali asserzioni come “una modifica strutturale di una parte anche di modesta consistenza dell’edificio o un’aggiunta quantitativa diversa dalla sopraelevazione, pur non incidendo normalmente sull’aspetto architettonico, può comportare il venir meno di altre caratteristiche influenti sull’estetica dell’edificio, e così sul detto decoro architettonico, incorendo nel divieto ex art. 1120 c.c.”.
Se da un lato, pertanto, come ben ricorda Cass. 17350/2016, “la nozione dell’aspetto … coinvolge una serie di valutazioni connesse alla compatibilità con lo stile architettonico dell’edificio, diversamente il decoro dell’immobile, come richiamato dall’art. 1120 c.c., si esprime nell’omogeneità delle linee e delle strutture architettoniche, ossia nell’armonia estetica dell’edificio”, i due concetti, invero, appaiono caratterizzati da una netta complementarietà ed inscindibilità al punto che la “valutazione di continuità stilistica” in ordine al primo si risolve nella “verifica del rispetto delle direttive architettoniche impresse dal progettista” correlata al secondo.
Nel caso esaminato, in particolare, dalla pronuncia n. 10048/2013, il Supremo Collegio censura la pronuncia della Corte distrettuale che, incoerentemente, statuisce come legittima una sopraelevazione che, pur alterando il decoro architettonico dell’edificio, ne rispetta “senz’altro” l’aspetto (“stile architettonico”). La Corte di Cassazione, riformando tale pronuncia, chiarisce come “è vero che i due concetti esprimono due fenomeni diversi, ma in qualche modo, come in questo caso, l’uno non può prescindere dall’altro”.
Ben si comprende, dunque, come la Suprema Corte abbia potuto statuire, nell’Ordinanza summenzionata in commento che, a tutela dell’aspetto architettonico, la sopraelevazione dovrà “rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore”. Al requisito della percettibilità del quisque de populo che passi per la via, si aggiunge, tuttavia, quello della esistenza di un danno economico effettivamente valutabile (dal giudice di merito).
Insegna, infine, il Supremo Collegio come non rilevi, invece, che “l’edificio abbia un particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di disarmonia. Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti modifiche”. Unico limite a tale statuizione deve rinvenirsi in una condizione di compromissione tale per cui “per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, [l’edificio] non si presenti in uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni ulteriore intervento”.