Nella mattinata di sabato scorso, l’ultima sessione di CondominioItalia Expo ha ospitato anche le celebrazioni per il 35esimo anniversario della rivista Italia Casa, nel cui ambito sono stati premiati i vincitori dei concorsi letterari promossi da Il Condominio Editrice. Il primo di questi – “Saggio breve di diritto condominiale” – era rivolto agli avvocati, e verteva sulla redazione di elaborati che offrissero una panoramica giuridica sulla materia condominiale, così come innovata dalla legge 220/2012, mediante il commento di un articolo della riforma del condominio oppure di una sentenza di merito pronunciata dopo la sua entrata in vigore.
Il concorso è stato vinto dall’avvocato di Biella Andrea Marostica, con il saggio dal titolo “L’art. 1117 c.c.: essenza del condominio edilizio tra principi consolidati e novità inutili”, che ha conseguito l’eccellente punteggio di 100/100.
Di seguito, il testo completo dell’elaborato e la sua valutazione.
L’ELABORATO
L’essenza del condominio negli edifici
L’art. 1117 apre il capo del codice civile dedicato al condominio negli edifici. Gli articoli successivi si occupano degli svariati aspetti della materia condominiale – dalle innovazioni alle spese, dall’amministratore all’assemblea, dal regolamento alle tabelle millesimali -, ma è nella disposizione in commento che viene individuata l’essenza dell’istituto. Non si intende soffermarsi sulla natura giuridica del condominio – non può essere questo il luogo per affrontare una questione tanto dibattuta e suscettibile di condurre a ricostruzioni antitetiche -, bensì su alcuni aspetti specifici che riguardano il dettato dell’art. 1117 c.c. e che costituiscono i binari lungo i quali muove l’indagine circa la natura comune o meno delle cose situate nell’edificio. La comprensione dell’essenza dell’istituto presuppone infatti la comprensione dei rapporti tra le cose che negli edifici sono presenti e delle ragioni, fattuali e giuridiche, di tali rapporti.
Si tratterà dunque: del collegamento funzionale, sostanziale e materiale tra cosa di proprietà comune e cose di proprietà esclusiva; della destinazione particolare della cosa e dei suoi effetti secondo la giurisprudenza e loro critica; della cosiddetta presunzione di condominialità; dell’incidenza della riforma del condominio sull’art. 1117 c.c.
Il collegamento funzionale, sostanziale e materiale
L’art. 1117 c.c. elenca le cose che, se non risulta il contrario dal titolo, sono di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari situate nell’edificio.
Ma il silenzio del titolo non è l’unica condizione per l’appartenenza di una cosa alla proprietà comune dei proprietari esclusivi. Ve ne è un’altra, che precede l’indagine sul titolo: l’essere la cosa che si ritiene comune al servizio di tutte le singole proprietà solitarie (nelle parole della giurisprudenza, il collegamento funzionale, sostanziale e materiale tra la cosa e le singole unità immobiliari).
Si coglie qui la differenza più rilevante tra la comunione ed il condominio. Mentre la comunione ha ad oggetto una cosa che esprime una utilità finale, oggetto del condominio è una cosa fornita di utilità funzionale. I comunisti utilizzano la cosa senza altro fine che goderne. I condòmini la utilizzano al fine di godere non di quella, ma della propria porzione in proprietà esclusiva. Le cose comuni di cui all’art. 1117 c.c., dal tetto alle scale, dal portone di ingresso agli impianti, sono dunque intimamente connesse alle unità immobiliari, di modo che l’utilizzo o il migliore utilizzo o la stessa esistenza di queste ultime dipende ed è reso possibile dalle prime.
Questa è la ragione per la quale il legislatore, nel definire nell’articolo in commento il regime legale del condominio edilizio, si preoccupa di sancire la proprietà comune delle cose funzionalmente collegate alle unità immobiliari. L’eventuale titolo contrario espressione dell’autonomia privata opera dunque una scissione tra destinazione oggettiva e conseguente regime giuridico della cosa, facendo in modo che una cosa, che pure è oggettivamente destinata al servizio di tutte le unità, appartenga non a tutti i proprietari delle stesse, ma soltanto ad uno o ad alcuni di essi.
La destinazione particolare ed i suoi effetti
Il profilo della destinazione della cosa è preso in esame dalla giurisprudenza quando, in un principio tralatizio ricorrente nelle massime, afferma che la destinazione particolare vince la presunzione legale alla stessa stregua del titolo contrario.
Si pongono a questo punto due questioni. La prima: che cosa si debba intendere per destinazione particolare ed in quale senso tale destinazione superi l’appartenenza della cosa in comune. La seconda: se si possa davvero parlare di presunzione.
Quanto al primo aspetto, per destinazione particolare della cosa la giurisprudenza intende l’esistenza del collegamento funzionale di cui sopra non tra la cosa e tutte le unità immobiliari, ma tra essa e soltanto alcune di quelle.
Il richiamato principio in base al quale tale situazione esplicherebbe lo stesso effetto del titolo contrario – ovvero, sottrarre la cosa alla proprietà comune per riservarla alla proprietà esclusiva di quel proprietario o di quei proprietari delle unità al cui servizio essa è posta – continua ad avere seguito nelle pronunce di legittimità, nonostante già nel 1993 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ne abbiano evidenziato l’inesattezza logico-giuridica.
Giova dapprima chiarire i termini della questione per poi analizzare la posizione della Corte nella sua composizione più autorevole.
La cosiddetta presunzione di condominialità (rectius, l’appartenenza della cosa in comune; si veda infra) si basa sulla esistenza del collegamento funzionale tra la cosa e le unità immobiliari. L’esistenza di tale collegamento ne è condizione necessaria.
Il titolo contrario opera in una situazione nella quale la cosa è effettivamente funzionalmente collegata alle unità; l’effetto del titolo è impedire la conseguenza legale di tale collegamento, cioè l’appartenenza della cosa in comune.
La destinazione particolare, invece, esclude a priori che la cosa sia funzionalmente collegata alle unità immobiliari, proprio in quanto è destinata a servirne una in particolare.
Titolo e destinazione, dunque, non possono essere equiparati. Il primo esclude un effetto che, in sua assenza e data la situazione materiale, si produrrebbe. La seconda consiste essa stessa in una situazione materiale che impedisce la produzione dell’effetto.
Detto altrimenti, nelle parole delle Sezioni Unite citate: “una cosa non può proprio rientrare nel novero di quelle comuni se serva per le sue caratteristiche strutturali soltanto all’uso e al godimento di una parte dell’immobile oggetto di un autonomo diritto di proprietà”.
Ancora: “è solo dal titolo contrario che una cosa comune può risultare di proprietà singola, in quanto la destinazione particolare esclude già all’origine che il bene rientri nella categoria delle cose comuni, e che ad esso possa quindi riferirsi la norma dell’art. 1117 del codice civile”.
In completa adesione alla pronuncia citata e concludendo sul punto, si evidenzia come la destinazione particolare non vince la presunzione legale alla stessa stregua del titolo contrario, bensì impedisce a priori l’applicazione dell’art. 1117 c.c.
La cosiddetta presunzione di condominialità
Ci si chiede ora se sia davvero possibile, a proposito del meccanismo previsto dal 1117 c.c., parlare di presunzione.
È ancora la pronuncia citata a fare chiarezza, osservando che l’art. 1117 c.c., quando stabilisce che “sono oggetto di proprietà comune (…), se il contrario non risulta dal titolo”, le cose in esso elencate, non ha sancito una presunzione legale di comunione delle stesse, ma ha disposto che detti beni sono comuni a meno che non risultino di proprietà esclusiva in base a un titolo contrario. Questo risulta non solo dalla chiara lettera della norma, che non accenna affatto ad una presunzione, ma anche dalla considerazione che nel codice si parla esplicitamente di presunzione ogni qual volta con riguardo ad altre situazioni si è voluto richiamare questo mezzo probatorio (si vedano gli artt. 880, 881 e 899 c.c.). D’altra parte, se con la disposizione dell’art. 1117 c.c. si fosse effettivamente prevista una presunzione, si sarebbe ammessa la prova contraria – cioè la prova della proprietà esclusiva – con l’uso di qualsiasi mezzo e non soltanto con il titolo.
Per quanto detto, appare più corretto parlare di natura comune, di appartenenza della cosa in comune, affermandola od escludendola, piuttosto che di presunzione di condominialità.
Ciò chiarito, sulla base di quanto sopra è possibile distinguere le seguenti ipotesi:
1) in presenza di destinazione particolare, l’applicabilità dell’art. 1117 c.c. è esclusa, dunque la cosa non ha natura comune ma appartiene al proprietario o ai proprietari delle unità alle quali la stessa è asservita;
2) in assenza di destinazione particolare, l’art. 1117 c.c. può trovare applicazione ed occorre guardare al titolo;
2.a) in presenza di titolo contrario, la cosa non ha natura comune ma appartiene ai soggetti individuati dal titolo;
2.b) nel silenzio del titolo, la cosa ha natura comune.
Dal punto di vista logico-sistematico, dalle ipotesi di cui sopra ne sfugge una: quella in cui vi sia destinazione particolare e un titolo che affermi la natura comune della cosa. Facendo applicazione dei principi generali e a mente della diversa utilità espressa dalla cosa oggetto di comunione e da quella oggetto di condominio, si deve concludere che in quest’ultima ipotesi la cosa è sì di proprietà comune dei proprietari solitari, ma il diritto di questi su di essa deve essere qualificato come comunione. Infatti la cosa non è legata alle proprietà solitarie da alcun collegamento funzionale – il quale è a priori escluso dalla destinazione particolare, si veda supra – e non esprime quella utilità strumentale al godimento delle parti di proprietà esclusive tipica e fondante il diritto di condominio.
La riforma, tra superfluità ed irrazionalità
Accennando, da ultimo, alle novità introdotte al testo dell’art. 1117 c.c. dalla cosiddetta riforma del condominio, autorevole dottrina le definisce inutili. Si tratta, in effetti, di mere aggiunte, tratte dalle massime della giurisprudenza di legittimità, ad un elenco pacificamente ritenuto esemplificativo, non tassativo.
Non si può dunque dissentire dall’inutilità dell’intervento, anche in considerazione del fatto che prevedere positivamente ciò che in via interpretativa è già pacificamente accertato, senza alcuna altra ragione che l’aggiornamento di un elenco, peraltro di natura esemplificativa e non tassativa, come già ricordato, non solo è superfluo, ma può persino risultare dannoso.
Valga un esempio per tutti: l’introduzione, tra le parti comuni dell’edificio, delle travi portanti. Se da un lato nessuno poteva dubitare che tale elemento appartenesse in comune a tutti i proprietari esclusivi già prima della riforma, sulla base della sua evidente destinazione oggettiva – pertanto la novella legislativa non introduce qui alcun novum -, dall’altro, oggi che le travi portanti sono espressamente qualificate parti comuni, qualcuno potrebbe ritenere che le travi perimetrali non lo siano. Non si tratta di un trastullo, ma delle possibili conseguenze delle infelici tecniche redazionali del legislatore.
In conclusione, intorno alla riforma non vi è stato un dibattito culturale ampio e meditato, il che ha portato il legislatore a preferire un’operazione di restyling alla ricerca di una soluzione dei veri problemi di fondo.
LA VALUTAZIONE
Il saggio esamina la nuova formulazione dell’art. 1117 c.c. in chiave fortemente critica, ma sempre avvalendosi di coerenti riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, oltre che di personali (e persuasive) argomentazioni logiche, in particolare là dove mette in discussione la cosiddetta “presunzione di condominialità”, principio, di elaborazione dottrinale, spesso acriticamente adottato per la regolazione, bonaria o giudiziale, di casi di specie.
Il contenuto del saggio è perfettamente attinente alle tematiche oggetto del concorso e del tutto pertinenti risultano le citazioni dottrinali e giurisprudenziali di supporto: punti 50.
La tesi sostenuta è inoltre illustrata con argomentazioni logiche, scorrevoli e di agevole comprensione anche per lettori non operatori del diritto: punti: 30.
Le modalità espressive sono del tutto corrette, ed in particolare apprezzabili per l’assenza di inutili tecnicismi: punti: 20.