[A cura di: Giuseppe Rigotti (foto) – direttore BM School, www.bmschool.it – info@bmschool.it] Il legame dell’uomo con la casa oggi si accentua sempre più, perché l’abitazione, in virtù delle nuove tecnologie, ha cambiato le proprie funzioni, o meglio, ne aggiunge altre a quelle tradizionali.
Grazie a computer sempre più sofisticati e al web, la casa è destinata sempre più a divenire sia luogo di lavoro che di svago (internet per tutto, per lavoro, per comunicare, per ottenere informazioni in tempo reale, musica, film, e tanto altro). Con la domotica possiamo regolare ogni attimo della nostra giornata, e con l’e-commerce possiamo comprare praticamente tutto restando comodamente seduti a casa, mentre attraverso i social possiamo costruirci un identità virtuale e rimodellare la nostra realtà.
La conseguenza di tutto ciò è che la tecnologia dell’informazione e della comunicazione rende sempre più stretta la simbiosi tra l’uomo e la sua casa, limitandolo nelle sue relazioni interpersonali e nella sua partecipazione sociale. E questa sorta di isolamento sociale ha mutato la natura dei rapporti umani, che diventano utilitaristici più che emozionali, perché le emozioni servono solo per valutare l’altro, identificandolo sulla base di «quello che ha», piuttosto che di «quello che è». È la logica del consumismo applicata agli essere umani.
L’individuo, di fronte agli altri, sta sviluppando un atteggiamento mentale che solo formalmente ha il carattere della riservatezza, del riserbo (cioè mi faccio gli affari miei!) ma quando vediamo persone, e non solo giovani, che camminano per strada ascoltando musica con lo smartphone, con gli occhi che guardano oltre, il messaggio è inequivocabile, significa “io non ci sono!”.
Il risultato dell’isolamento sociale è che spesso non si conoscono neppure superficialmente, ad esempio, quelli che sono i nostri vicini. Capita qualche volta che un cliente chieda all’amministratore: “ma chi abita nell’appartamento a fianco al mio?”.
Tuttavia, l’aspetto più evidente di questo riserbo esteriore non è solo l’indifferenza, ma anche l’avversione, estraneità. L’intera rete delle relazioni umane riposa su una gerarchia estremamente varia di simpatie, indifferenze e avversioni, dalla più transitoria, alla più costante, alla più estrema.
Dispetti tra condòmini, piccoli e grossi screzi, rumori, porte sbattute, sporcizia: il rispetto umano nel condominio pare non esistere proprio, e basta un niente per fare scoppiare una lite.
Poi c’è l’assemblea di condominio: luogo per eccellenza dove i rancori accumulati in un anno esplodono tutti insieme.
Ma oltre agli effetti dell’isolamento sociale, viviamo anche in un mondo generalmente violento, una violenza che osserviamo ogni giorno in televisione e leggiamo sui giornali; una violenza che transita sui media travestita da normalità.
Il condominio è un microcosmo sociale, uno spaccato della società nella quale viviamo, e quindi le conseguenze di questa normalità aberrante sfociano nei conflitti in condominio, che arrivano, nel migliore dei casi, nelle aule dei tribunali, ma spesso rivalità, invidia, gelosia e rancori generano violenza fino agli atti estremi.
È evidente che la relazione con il cliente, per l’amministratore, è così intensa da costituire l’aspetto preponderante del suo lavoro ed anche la causa principale del malessere che spesso lo accompagna.
Uno degli elementi principali su cui si fonda la relazione umana è, paradossalmente, il conflitto: alcuni studiosi ritengono che proprio esso sia la parte essenziale del rapporto tra le persone, che si amano, si odiano, comunicano, creando, risolvendo o mantenendo i conflitti. La rappresentazione più efficace della dinamica di un conflitto, è l’iceberg, la cui parte più piccola, la punta visibile, rappresenta le posizioni delle parti, mentre la parte sommersa, 1000 volte più grande, gli interessi.
Del resto, andar via sbattendo la porta o non parlare più con una persona sono sanzioni abbastanza diffuse nei conflitti interpersonali, ma quando l’interruzione della comunicazione si protrae nel tempo, produce una pericolosa cristallizzazione del conflitto che ne è stata la causa.
A partire dagli anni ’60, è nata e si è affermata una tendenza nuova, con la nascita e lo sviluppo del movimento dell’Alternative Dispute Resolution (ADR), nei Paesi con la tradizione giuridica improntata alla common law e in particolare negli Stati Uniti, con la creazione e la diffusione di strumenti alternativi ai tribunali tradizionali, oggi indicati generalmente con il termine mediazione sociale, che è il metodo di elezione per la risoluzione del conflitto.
La mediazione è una modalità di approccio efficace alla gestione positiva dei conflitti. Il suo obiettivo è quello di condurre le parti in disaccordo ad individuare una soluzione mutualmente accettabile e soddisfacente per entrambe attraverso l’ausilio di un terzo neutro, il mediatore. Proprio la dimensione dell’imparzialità della terza parte, del mediatore, è stata oggetto di molti studi. Tradizionalmente, si ritiene che l’efficacia dell’intervento di una parte esterna nella ricerca di una soluzione costruttiva dipenda in buona misura dalla sua imparzialità.
Su questo punto, l’imparzialità appunto, risiede, parere di chi scrive, il limite della mediazione sociale quale competenza dell’amministratore immobiliare per la risoluzione dei conflitti.
L’amministratore, nell’affrontare una disputa tra condòmini, tra condòmini e fornitore, tra impresa e condominio, è neutrale? Oppure, conoscendo la storia che ha portato al conflitto, influenzerà inevitabilmente la soluzione che le parti troveranno?
Nella micro-conflittualità nei condomini, la mediazione di parte dell’amministratore non può assumere posizioni di forza e quindi deve ben guardarsi dall’imporre soluzioni; per questo, difficilmente è accettato come terzo neutrale dalle parti.
Potrà, tuttalpiù, convocare le parti in conflitto ed invitarle, dopo aver spiegato loro l’importanza del dialogo e del mantenimento del rapporto interpersonale, a rivolgersi ad uno sportello di mediazione o conciliazione.
Per quanto riguarda la conflittualità tra amministratore e cliente, non dobbiamo dimenticare che la professionalità non è fatta solo di saperi ma deve basarsi soprattutto sul saper essere, quella qualità che rappresenta la differenza tra il livello tecnico e il livello professionale: il saper essere è l’ascolto del cliente, tenere in considerazione le sue opinioni, ciò che egli crede sia la cosa giusta.
La capacità di comunicare, di interagire assertivamente con il cliente, si impara e si migliora, come una qualsiasi altra competenza.
Dobbiamo accettare che la gente sia arrabbiata, scontenta, insoddisfatta; abbiamo anche visto che anche il vivere in casa può rappresentare una fonte di disagio, che sempre più spesso genera violenza; però l’amministratore, pur con i suoi limiti, può dare un contributo per farla stare meglio. In altre parole, proviamo a far diventare l’amministratore un «venditore di pace». Le nuove regole non hanno cambiato il lavoro dell’amministratore, hanno solo aumentato la complessità. È l’amministratore che deve cambiare.