[A cura di: Mariasole Ivaldi – FiscoOggi – Agenzia delle Entrate]
In presenza di attività fiscalmente rilevanti svolte nel territorio dello Stato, in mancanza di registrazione all’Aire, i redditi ovunque prodotti vanno dichiarati e tassati in Italia
In materia di imposte dirette, le persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente si considerano, in applicazione del criterio formale dettato dall’articolo 2, comma 2, del Dpr 917/1986 (Tuir), in ogni caso residenti e, pertanto, soggetti passivi Irpef in Italia; con la conseguenza che, essendo l’iscrizione indicata preclusiva di ogni ulteriore accertamento, il trasferimento della residenza all’estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano.
Questo il principio ribadito dalla Corte di cassazione che, con l’ordinanza n. 16634 del 25 giugno 2018, si allinea ai propri precedenti sul tema.
Il contenzioso scaturisce dall’impugnazione degli avvisi di accertamento sintetico con i quali l’ufficio, rilevata l’omessa presentazione della dichiarazione relativamente ai periodi d’imposta 2007 e 2008, imputava al contribuente maggiori redditi, ai sensi dell’articolo 38 del Dpr 600/1973, derivanti da investimenti patrimoniali e dalla disponibilità di autovetture.
Il ricorrente affermava di aver trasferito, sin dal mese di maggio 2006, la residenza anagrafica e il domicilio fiscale a Londra – città nella quale svolgeva la propria attività di amministratore di società, provvedendo al pagamento delle relative imposte – e di aver regolarizzato la propria posizione mediante iscrizione all’Aire soltanto nel 2014 “per mera dimenticanza”.
Entrambe le commissioni tributarie di merito ritenevano le argomentazioni del contribuente meritevoli di accoglimento.
In particolare, nel rigettare l’appello dell’Agenzia delle entrate, la Ctr di Bari rilevava come la tardiva iscrizione all’Aire non fosse sufficiente, ai sensi dell’articolo 2, comma 2, del Tuir, a radicare la residenza fiscale del contribuente nel territorio italiano e a imporre il conseguente obbligo di presentazione del modello Unico, in quanto “l’applicazione di qualsivoglia strumento presuntivo non può avvenire in maniera asettica e automatica…”.
L’ufficio ricorreva per la cassazione della predetta pronuncia con un unico motivo, deducendo la violazione dell’articolo 38 del Dpr 600/1973, per non avere la Ctr considerato l’omessa presentazione della dichiarazione, pur in presenza di attività fiscalmente rilevanti svolte dal contribuente in Italia, in mancanza di iscrizione all’Aire.
Con l’ordinanza in rassegna, la Corte suprema, conformandosi al proprio consolidato orientamento (cfr, tra le altre, Cassazione, 21970/2015), ha riconosciuto la fondatezza del motivo di ricorso proposto dall’amministrazione fiscale.
In particolare, i giudici di legittimità hanno osservato che “le persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente si considerano (…) in ogni caso residenti e, pertanto, soggetti passivi d’imposta, in Italia”. Ne consegue che, essendo la predetta iscrizione preclusiva di ogni ulteriore accertamento, “il trasferimento della residenza all’estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano”.
La distinzione tra residenti e non residenti nel territorio dello Stato assume particolare rilevanza in quanto comporta una differente modalità di calcolo dell’imposta sul reddito delle persone fisiche.
Per i soggetti residenti, invero, la base imponibile è costituita da tutti i redditi posseduti, ovunque prodotti (worldwide principle: principio della tassazione del reddito mondiale), mentre i non residenti sono assoggettati a tassazione in Italia limitatamente ai redditi prodotti nel territorio dello Stato.
L’articolo 2, comma 2, del Tuir, stabilisce i presupposti che ancorano al territorio dello Stato la residenza dei soggetti passivi d’imposta, precisando che si considerano residenti le persone che, alternativamente:
Il primo criterio è di ordine formale e, come affermato dal consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, è “preclusivo di ogni ulteriore accertamento”, nel senso che la sua ricorrenza è di per sé sufficiente a determinare l’acquisizione della residenza a fini fiscali, non trovando in tal caso applicazione i due criteri fattuali previsti in alternativa dalla legge.
Tale conclusione è stata ribadita a più riprese dalla Corte di cassazione; particolarmente illuminante sul punto appare la sentenza 9319/2006, ove si puntualizza che l’iscrizione all’Anagrafe della popolazione residente di un Comune deve ritenersi “dato preclusivo di ogni ulteriore accertamento ai fini della individuazione del soggetto passivo d’imposta, diversamente da quanto avviene ai fini civilistici, ove le risultanze anagrafiche sono invece concordemente considerate idonee unicamente a dar luogo a presunzioni relative, superabili, come tali, dalla prova contraria”.
Pertanto, in materia fiscale, a differenza di quanto avviene ai fini civilistici, “la forma è destinata a prevalere sulla sostanza nell’ipotesi in cui la residenza venga collegata al presupposto anagrafico”.
In conclusione, quindi, la pronuncia in commento ribadisce l’orientamento della Corte suprema secondo cui l’iscrizione anagrafica è elevata a presunzione assoluta di residenza nel territorio dello Stato.