In occasione del dibattito che ha animato l’approvazione della Legge di Bilancio per il 2020, le associazione della proprietà immobiliare, così come i sindacati degli inquilini hanno sovente fatto riferimento alla cedolare secca. Ma qual è la storia di quest’imposta sostitutiva? L’ha ripercorsa Gaetano Corallo per conto di FiscoOggi: l’organo d’informazione dell’Agenzia delle Entrate.
Innanzitutto, ricordiamo che l’articolo 1, comma 6, del Bilancio 2020 (legge n. 160/2019) riduce dal 15 al 10% l’aliquota dell’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle relative addizionali, dell’imposta di registro e di quella di bollo per la tassazione diretta e indiretta del reddito derivante da contratti di locazione di unità immobiliari urbane a canone concordato nei comuni ad alta densità abitativa.
L’imposta in commento, la cedolare secca, è stata introdotta nel nostro ordinamento dal decreto legislativo n. 23/2011 e rappresenta un regime di tassazione facoltativo che si sostanzia nel pagamento di un’imposta sostitutiva – pari al 21% del canone di locazione annuo stabilito dalle parti – dell’Irpef e delle addizionali. Non sono dovuti il Registro e il Bollo, ordinariamente dovuti per registrazioni, risoluzioni e proroghe dei contratti di locazione.
Il decreto istitutivo, inoltre, ha previsto anche un’aliquota ridotta al 19% per i contratti a canone concordato, vale a dire quelli stipulati secondo le disposizioni di cui agli articoli 2, comma 3 e 8 della legge n. 431/1998, relativi ad abitazioni ubicate nei comuni ad alta densità abitativa, di cui all’articolo 1, comma 1, lettere a) e b), del Dl n. 551/1988, e negli altri comuni ad alta tensione abitativa individuati dal Cipe.
Per contratti di locazione a canone concordato si intendono quei contratti in cui le parti definiscono le condizioni contrattuali sulla base di appositi accordi definiti in sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e quelle dei conduttori maggiormente rappresentative. I criteri generali, cui devono attenersi gli accordi locali, sono definiti con apposito decreto del ministro dei Lavori pubblici, adottato in concerto con il ministro delle Finanze. Nel medesimo decreto sono individuati anche i contratti tipo che le parti possono utilizzare in funzione delle diverse esigenze abitative, (decreto interministeriale 16 gennaio 2017 – ministero Infrastrutture e Trasporti).
In particolare, per quanto riguarda la durata dei contratti a canone concordato, la legge prevede che non possono avere una durata inferiore ai tre anni e, alla prima scadenza del contratto, ove le parti non concordino sul rinnovo dello stesso, questo è prorogato di diritto per due anni, fatta salva la facoltà di disdetta da parte del locatore nei casi espressamente consentiti dalla legge.
Tuttavia, l’aliquota ridotta è riconosciuta a condizione che tali contratti abbiano a oggetto immobili situati nei comuni di Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Venezia e nei comuni confinanti con gli stessi; negli altri comuni capoluogo di provincia e nei comuni considerati ad alta tensione abitativa, individuati nella delibera Cipe 30 maggio 1985, non compresi nelle lettere precedenti.
Più in generale il Comitato interministeriale per la programmazione economica, su proposta del ministro dei Lavori pubblici, d’intesa con i ministri dell’Interno e di Grazia e Giustizia, provvede, ogni ventiquattro mesi, all’aggiornamento dell’elenco dei comuni. L’ultima delibera in materia risale al 13 novembre 2003.
Al fine di incentivare l’utilizzo di tale tipologia contrattuale, per effetto del decreto legge n. 102/2013, l’aliquota del 19% è stata ridotta al 15%, in relazione ai contratti a canone concordato, relativi ad abitazioni ubicate nei comuni ad alta densità abitativa, stipulati nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2013.
Successivamente, con il “decreto casa” (Dl n. 47/2014), l’aliquota in commento veniva ulteriormente ridotta al 10% in relazione ai contratti a canone concordato stipulati nei comuni ad alta densità abitativa, nel corso del quadriennio 2014 – 2017.
In sede di conversione del decreto legge, inoltre, l’applicazione dell’aliquota agevolata veniva estesa anche ai contratti di locazione aventi a oggetto immobili situati nei comuni per i quali fosse stato deliberato, nei cinque anni precedenti la data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto (27 maggio 2014), lo stato di emergenza dovuto a eventi naturali o connessi con l’attività dell’uomo che, in ragione della loro intensità ed estensione, avrebbero dovuto essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante periodi di tempo limitati e predefiniti.
Più tardi, la legge n. 205/2017 (il Bilancio 2018), modificando il “decreto casa” ha ulteriormente prorogato il periodo di validità dell’aliquota ridotta al 10%, di ulteriori due anni, fino al 2019.
Pertanto, in prossimità della scadenza del periodo di proroga (31 dicembre 2019), il legislatore è intervenuto nuovamente con la legge di bilancio 2020, modificando l’articolo 3, comma 2, del Dlgs n. 23/2011, al fine di rendere permanente la riduzione al 10% dell’aliquota agevolata.
Inoltre, in virtù del rinvio effettuato dall’articolo 9 del “decreto casa” alle disposizioni in materia di cedolare secca, la stessa l’aliquota continuerà ad applicarsi anche ai contratti di locazione relativi a immobili situati nei comuni per i quali sia stato deliberato, nei cinque anni precedenti la data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto (27 maggio 2014), lo stato di emergenza dovuto a eventi calamitosi.
Ricordiamo che l’articolo 3-bis del “decreto crescita” (il Dl n. 34/2019) ha disposto l’abrogazione dell’obbligo della comunicazione della proroga della cedolare secca e della relativa sanzione previsti all’articolo 3, comma 3 del Dlgs n. 23/2011.