[A cura di: Romina Morrone – FiscoOggi, Agenzia delle Entrate] L’ufficio può rideterminare il valore della piscina abusiva, venduta allo stato grezzo e non accatastata sulla base del comune apprezzamento commerciale e, quindi, riliquidare le imposte di registro e ipo-catastali.
Lo ha chiarito la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 2189 del 30 gennaio 2018.
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza con la quale la Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna aveva annullato gli avvisi di rettifica e liquidazione emessi a carico dei coniugi venditori, coobbligati in solido con gli acquirenti per imposte di registro e ipo-catastali (2011), riguardo due vendite relative a un compendio immobiliare in Bologna.
In particolare, per la prima cessione avente a oggetto villa e annessa piscina, il recupero delle imposte era dovuto al fatto che l’acquirente del diritto di usufrutto su parti dell’immobile, all’atto della stipula, aveva chiesto l’applicazione della valutazione automatica secondo il criterio del prezzo-valore. Istanza rimasta senza seguito, avendo l’ufficio riscontrato l’assenza dei requisiti normativi previsti (ex articolo 52, comma 4 e 5, Tur, ed ex articolo 1, comma 497, legge 266/2005), poiché la piscina, allo stato grezzo e in corso di costruzione con Dia (denuncia di inizio attività edilizia) scaduta, era priva di rendita e non era stata censita al catasto.
Di conseguenza, l’ufficio aveva individuato la base imponibile nel valore venale in comune commercio della piscina (cosiddetto valore normale) in quanto, non essendo stata presentata alcuna domanda di variazione catastale della consistenza iniziale dell’immobile, comprensivo anche della sua pertinenza, l’accatastamento esistente non era più conforme allo stato dei fatti.
Il giudice di secondo grado, invece, in riforma della sentenza della Commissione provinciale, aveva accolto l’appello dei contribuenti ritenendo applicabile il prezzo valore. In particolare, aveva ritenuto che la piscina non dovesse essere accatastata, in quanto non ancora idonea all’uso (era stata ceduta allo stato grezzo) e, soprattutto, poiché sprovvista del titolo autorizzatorio (la Dia, infatti, risultava scaduta prima della data di cessione), configurava un abuso edilizio.
Di diverso avviso la Corte di Cassazione, che ha accolto il motivo di ricorso dell’Agenzia e ha affermato che “Il carattere illecito dell’eventuale abuso edilizio, in tesi generale, non può tradursi in una ragione di trattamento di favore per il privato…” (cfr. Cassazione, ordinanza 2189/2018).
È noto che, in materia di imposta di registro, la base imponibile per la tassazione di atti traslativi (o costitutivi) di diritti reali è costituita dal valore del bene o del diritto al momento della stipula dell’atto (articolo 41, Tur) e, in particolare, per gli atti che hanno a oggetto beni immobili o diritti reali immobiliari, dal loro valore venale in comune commercio (articolo 51, comma 2, Tur, cosiddetto “criterio del valore venale”).
È altresì noto che non sono sottoposti a rettifica il valore o il corrispettivo di immobili:
Il limite posto al potere di accertamento del Fisco trova la sua giustificazione nella presunzione di corrispondenza del valore dichiarato, in applicazione dei criteri tabellari previsti dalla norma, rispetto a quello venale; presunzione che non opera nel caso in cui gli immobili non siano forniti di valore catastale e, inoltre, quando la situazione di fatto, anche a causa dell’azione del possessore, sia mutata rispetto a quella considerata ai fini dell’attribuzione della rendita.
In tali fattispecie, infatti, l’ordinamento dispone che si provveda, su denuncia del privato o anche d’ufficio, alla variazione dell’iscrizione in catasto che, non più corrispondente allo stato effettivo e priva del suo valore presuntivo, rende inapplicabile il limite al potere di accertamento dell’ufficio, fondato proprio su quella presunzione.
Nella fattispecie esaminata, quindi, la Corte ha ritenuto legittimo l’esercizio del potere dell’ufficio, tenendo conto che non vi era stato adeguamento del valore catastale del complesso venduto e che nessuna delle giustificazioni dei contribuenti superava tale omissione. Non rilevava, infatti, la circostanza che la piscina era stata venduta allo stato grezzo poiché la consistenza del complesso immobiliare era variata ed era di certo maggiore dopo la sua realizzazione, rispetto al precedente stato dei fatti.
A tale riguardo, la Corte ha richiamato il principio generale dettato dall’articolo 2645-bis del codice civile, applicabile anche in materia fiscale, secondo il quale “si intende esistente l’edificio nel quale sia stato eseguito il rustico” (cfr. Cassazione, 29158/2011 e 18211/2016).
E neppure poteva essere invocato il mancato completamento, al momento della stipula dell’atto, per giustificare l’eventuale accatastamento solo in un momento successivo alla stessa stipula e a iniziativa degli acquirenti. Una volta presentata la Dia (che, ex articolo 23, comma 2, Dpr 380/2001, ha durata triennale), infatti, gli alienanti avevano termine di 30 giorni per accatastare la piscina; termine che, nella fattispecie, l’ufficio aveva verificato essere scaduto infruttuosamente prima del rogito notarile. Quindi la piscina era abusiva.
Al riguardo la Corte ha affermato che il carattere illecito dell’abuso edilizio, precludendo la variazione catastale e comportando il dovere della riduzione in pristino, non può tradursi in una ragione di trattamento di favore per il privato (cfr. Cassazione, 11325/2001 e 2189/2018).
Di conseguenza, nel caso di abusi edilizi non sanati correttamente, l’ufficio, che non è vincolato dal limite posto dall’articolo 52, comma 4, Tur, ben può provvedere alla valutazione dell’immobile ex articolo 51 Tur, sulla base del valore venale in comune commercio. E riliquidare anche le ipo-catastali (rispettivamente, nella misura del 2% e dell’1%) sulla base di tale valutazione.