Indipendentemente che il divieto di tenere in condominio animali d’affezione fosse contenuto in un regolamento assembleare oppure contrattuale, il relativo articolo deve essere invalidato, soccombendo alle disposizioni della legge del condominio (220/2012) è quanto sentenziato dal Tribunale di Cagliari. Ecco le motivazioni.
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TRIBUNALE DI CAGLIARI
Sez. II civ., ord. 22.7.2016
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ORDINANZA
Si premette che, con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., K.J., assumendo di essere proprietario, in virtù di atto di compravendita del 25 settembre 2007, dell’immobile, ad uso civile abitazione, e del giardino di 70 mq., sito in …, ricompreso nelle più ampio condominio denominato …, e di essere proprietario di un cane di piccola taglia, ha chiesto che, in via principale, venisse dichiarato nullo e/o venisse annullato e/o venisse comunque dichiarato privo di efficacia l’art. 7 del regolamento del condominio, che vietava di tenere animali domestici, e che per l’effetto venisse consentito al proprio cane l’accesso al condominio, evidenziando la nullità sopravvenuta della predetta disposizione per effetto della modifica dell’art. 1138, ultimo comma, c.c., intervenuta con l’art. 16 L. n. 220/2012, a mente del quale le norme del regolamento non potevano vietare di possedere e detenere animali domestici, e dell’art. 155 disp. att. c.c., a mente del quale le disposizioni contrarie avrebbero cessato di aver effetto.
(omissis)
Ciò premesso, il ricorso è fondato e deve pertanto trovare accoglimento.
Deve infatti ritenersi che la disposizione di cui all’art. 7 del regolamento del condominio oggi impugnato sia affetta da nullità sopravvenuta, conseguente all’introduzione, con la L. n. 220/2012, del disposto di cui all’art. 1138, u.c., cod. civ., a mente del quale “le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici”.
La predetta disposizione, infatti, deve reputarsi applicabile, contrariamente a quanto sostenuto dal condominio resistente, a tutte le disposizioni con essa contrastanti, indipendentemente dalla natura dell’atto che le contiene (regolamento contrattuale ovvero assembleare) e indipendentemente dal momento dell’introduzione di quest’ultimo (primo o dopo la novella del 2012).
E deve contestualmente affermarsi come l’eventuale norma regolamentare difforme da tale precetto sia inficiata da nullità, siccome contraria ai principi di ordine pubblico, ravvisabili, per un verso, nell’essersi indirettamente consolidata, nel diritto vivente e a livello di legislazione nazionale, la necessità di valorizzare il rapporto uomo-animale e, per altro verso, nell’affermazione di quest’ultimo principio anche a livello europeo.
(omissis)
Quanto alla legislazione interna, vanno richiamati la L. 14 agosto 1991, n.281 (legge-quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo), con la quale è stata prevista la condanna degli atti di crudeltà, maltrattamenti e abbandono degli animali, al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale (art. 1), la L. 189/2004, che ha introdotto nel codice penale i nuovi delitti di “animalicidio” e di maltrattamento di animali, di cui agli artt. 544 bis e ss. c.p., e l’art. 31 Legge 120/2010 (nuovo Codice della Strada) e il successivo Decreto Ministeriale attuativo 9 ottobre 2012 n.217, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.289 del 12.12.2012, che ha disposto l’obbligo di fermarsi a soccorrere l’animale ferito in caso di incidente.
A livello europeo, infine, vanno richiamati la Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, firmata a Strasburgo il 13.11.1987 e ratificata ed eseguita in Italia con la Legge 201/2010, nella quale è sancito l’obbligo morale dell’uomo “di rispettare tutte le creature viventi” e l’importanza degli animali da compagnia e il loro valore per la società per il contributo da essi fornito alla qualità della vita, e il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, ratificato dalla Legge 130/2008, il quale, all’articolo 13, stabilisce che l’Unione e gli Stati membri “tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti”.
Alla luce di quanto detto, non può condividersi l’orientamento che vorrebbe limitare l’ambito applicativo dell’introdotto divieto ai soli regolamenti successivi all’entrata in vigore della norma o ai soli regolamenti assembleari, essendo stati con la novella del 2012 sostanzialmente codificati, anche in ambito condominiale, i principi già operanti nel diritto vivente e nella legislazione nazionale e internazionale, frutto dell’evoluzione, nella coscienza sociale, della rinnovata considerazione del rapporto uomo-animale, assurto, secondo quanto da qualcuno sostenuto e da questo giudice condiviso, a espressione dei più generali diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost..
Ma se così è (e in questo senso si ritiene di dover procedere nell’interpretazione della norma), non vi è chi non veda come il divieto scolpito dall’ultimo comma dell’art. 1138 c.c. costituisca espressione dei principi di ordine pubblico, dalla cui violazione discende necessariamente la nullità insanabile della statuizione ad esso contraria.
E del resto dal mero inquadramento geografico della norma non può trarsi alcun elemento idoneo a restringerne la portata ai soli casi di regolamento c.d. assembleare.
Se è vero che le disposizioni contenute nei commi precedenti dell’art. 1138 c.c. dettano regole in ordine ai casi in cui l’adozione del regolamento diviene obbligatoria e al quorum necessario per la sua approvazione, riferendosi evidentemente al c.d. regolamento assembleare, è altresì vero che nessuna indicazione in merito alla natura del regolamento è contenuta nella rubrica della norma, denominata genericamente “regolamento di condominio”, e neppure nello stesso ultimo comma, quello contenente il divieto, nel quale è citato il “regolamento” senza alcun’altra specificazione.
Se dunque nessun indizio può trarsi dall’esame lessicale dell’art. 1138 c.c. e della norma contenente il divieto, appare riduttivo far discendere una qualsiasi conseguenza dal fatto che quest’ultima sia stata “fisicamente” inserita in una disposizione che regola anche le ipotesi di regolamento c.d. assembleare, non soltanto perché la sua stessa ratio conduce a risultati differenti, come si è visto sopra, ma anche perché le stesse conseguenze della sua violazione, specificamente previste dall’art. 155 disp. att. c.c. (a mente del quale “cessano di avere effetto le disposizioni del regolamento di condominio che siano contrarie alle norme richiamate nell’ultimo comma dell’articolo 1138 del codice”), sanciscono definitivamente la correttezza della tesi della nullità del regolamento contrario al divieto, costituendo l’inefficacia mera conseguenza di un’invalidità e non invalidità essa stessa.
Può dunque fondatamente sostenersi come la norma in esame non sia strettamente connessa alle ipotesi di regolamento assembleare, secondo quanto asserito dal condominio, ma costituisca precetto generale, valevole per qualsiasi regolamento, indipendentemente dalla fonte della sua adozione.
Per quanto detto, la domanda proposta deve trovare accoglimento e deve, per l’effetto, dichiararsi la nullità dell’art. 7 del regolamento del condominio ….
(omissis)
Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico del condominio.
P.Q.M.
Dichiara la nullità dell’art. 7 del regolamento del condominio …; rigetta le domande proposte dal condominio …; condanna il condominio … alla rifusione, in favore di K.J., delle spese del giudizio che liquida in complessivi euro 2.430, oltre accessori di legge.