Le FAQ pubblicate di recente su sito istituzionale dell’Autorità Garante della Privacy, unitamente a una recente sentenza della Corte di Giustizia Europea (nella causa C-708/18-EU:C:2019:1064) che da ragione al Condominio, permettono di delineare lo stato dell’arte in materia di videosorveglianza.
In particolare, ci vogliamo soffermare sui sistemi installati in ambito condominiale, i quali, come noto, con la legge di riforma del 2013, possono essere autorizzati da delibera assembleare assunta con la maggioranza qualificata ex art. 1136, 2°, c.c. (cfr. art. 1122-ter c.c.; FAQ cit., n. 11).
L’esistenza di una siffatta delibera, però, non è condizione necessaria e sufficiente per poter affermare che la videoripresa condominiale sia lecita.
Va ricordato, infatti, che la videosorveglianza, all’infuori delle rare eccezioni di uso domestico (cfr. art. 2, par. 2, lett. c G.D.P.R.), attua sicuramente un trattamento di dati personali ( art. 4, 1, G.D.P.R.), come tale assoggetto alla cogente normativa di riferimento.
Premesso ciò e premesso, altresì, che il G.D.P.R. non si occupa specificatamente di videosorveglianza, è lo stesso G.D.P.R., agli art. 5 e 6, a delineare gli esatti confini entro i quali un trattamento di dati personali (tra cui la videosorveglianza) possa definirsi lecito.
Il concetto viene ripreso e ribadito dalla decisione della Corte di Giustizia Europea, la quale, se pure emessa, all’epoca dei fatti oggetto di pronuncia, nella vigenza della precedente Direttiva 95/46, risulta comunque attuale, in quanto gli articoli normativi coinvolti (6 e 7 Dir. 95/46) sono stati sostanzialmente trasfusi, con piccole correzioni, nel G.D.P.R. (artt. 5 e 6).
La disputa non è solo teorica, posto che oggetto del contendere davanti ai giudici di Strasburgo è risultata, fra le altre cose, la stessa liceità dell’applicata norma di diritto rumeno (lo Stato europeo di accadimento dei fatti di causa), in rapporto all’interpretazione da darsi ai precisi confini dettai dalla norma (UE) di rango superiore.
Per quanto attiene alle suddette ipotesi (che la Corte ha tenuto a precisare essere tassative e non “dilatabili” dalla normativa nazionale) di liceità del trattamento di videosorveglianza, infatti, vengono in gioco le lettere d (il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell’interessato o di un’altra persona fisica) ed f) (il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l’interessato è un minore) dell’art. 6 G.D.P.R. (che erano sostanzialmente le lettere d ed f dell’art. 7 Dir. 95/46).
Nelle diverse normative nazionali di rispettiva competenza, inoltre, fra le fattispecie di liceità del trattamento viene sempre inclusa quella della sicurezza e protezione dell’incolumità degli individui e dell’integrità dei beni (o del patrimonio).
Senonché, le stesse linee guida (3/2019: https://edpb.europa.eu/edpb_it) dell’ E.D.P.B. (Comitato Europeo per la Protezione dei Dati) enunciano l’insufficienza di un generico riferimento alla finalità di sicurezza, in quanto finalità non rientrante nell’elenco tassativo di cui sopra.
Piuttosto, l’esigenza di tutela del patrimonio privato dall’aggressione altrui (atti di vandalismo, furti in appartamento, ecc.), che sembra essere la vera finalità in ambito condominiale e che solo occasionalmente potrebbe coinvolgere anche la vita/diritto alla salute dell’individuo (lettera d, art. 6 G.D.P.R.), bene può rientrare nell’ampia locuzione di legittimo interesse del titolare (lettera f, art. 6 G.D.P.R.).
Quello del legittimo interesse, però, è strutturalmente una base giuridica debole, in quanto inevitabilmente “costringe” il titolare del trattamento a compiere quel bilanciamento preliminare fra contrapposti diritti, che non sempre risulta agevole alla resa dei conti.
Tale bilanciamento, però, si può osservare, è il cuore del G.D.P.R., che sul principio di “responsabilizzazione” (art. 5, par. 2 G.D.P.R.) fonda tutto il resto.
Così, un sistema di videosorveglianza, che di per se è da considerare un tipo di trattamento potenzialmente assai invasivo e “pericoloso” (per i diritti e le libertà fondamentali delle persone), sarà in concreto lecitamente attuabile in ambito condominiale, con la finalità di sicurezza e di tutela del patrimonio comune, solo come estrema ratio.
Questo non vuol dire che la videosorveglianza non potrà mai essere deliberata, anzi.
Vuol dire che, nel farlo, l’amministratore di condominio, per conto dell’ente da lui gestito, dovrà dare atto dell’iter motivazionale seguito per arrivare alla conclusione che l’utilizzo della videosorveglianza si sia resa in concreto necessaria per perseguire la finalità di sicurezza indicata.
Il concetto di mezzo necessario, però, non va assolutizzato, sostiene la Corte Europea, ma posto in rapporto alle effettive circostanze.
Di regola, pertanto, dovrà essere dato conto:
Detto ciò, la sentenza europea conclude con una assunto che, per quanto ovvio, costituisce in realtà l’orizzonte entro cui muoversi nell’interpretazione del G.D.P.R..
Ovverosia: non esistono regole preconfezionate e riposte a priori, ma il case by case.
Dovrà essere lo stesso titolare del trattamento, cioè (e in caso di contestazione il giudice di merito), in applicazione del principio di responsabilizzazione, in quella necessaria fase preliminare di bilanciamento dei vari diritti in gioco, a stabilire se, in concreto, sia risultato prevalente o meno il proprio diritto (recitius: legittimo interesse) di titolate del trattamento rispetto a quello dell’interessato.
Avv. Valerio Palma – Centro Studi Privacy and Legal Advice