La Corte di cassazione, con sentenza n.17145 del 26 agosto 2015, ha stabilito che l’apertura di un varco nel muro perimetrale per esigenze del singolo condomino è consentita, quale uso più intenso del bene comune.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., Sent. 26.8.2015,
n. 17145
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A.- Ricorso principale.
(Omissis) lamentano:
a) con il primo motivo di ricorso la violazione e falsa applicazione del R.D. n. 1165 del 1938, art. 214, degli artt. 1102 e 1120 c.c., e dell’art.7 del Regolamento condominiale della società Cooperativa edilizia (Omissis), quest’ultimo anche in relazione ai canoni ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c., (art. 360 c.p.c., n.3).
Secondo i ricorrenti, la Corte distrettuale, nel ritenere che l’opera realizzata dagli appellanti, non solo aveva determinato la trasformazione di un locale cantina in garage ma aveva inciso su una cosa comune in contrasto con la previsione di cui al R.D. n. 1165 del 1938, art. 214, e all’art. 7 del Regolamento condominiale, non avrebbe tenuto conto che, nel caso in esame, non era stata effettuata alcuna innovazione o modifica della cosa comune, posto che l’apertura nel muro era preesistente corrispondente ad una finestra la quale era stata ampliata per consentire l’apposizione di una porta basculante.
Piuttosto, la Corte distrettuale avrebbe tenuto conto che il caso in esame integrava gli estremi dell’ipotesi prevista dall’art. 1102 c.c. – e così come è stato affermato dalla stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione – l’apertura di un varco nel muro perimetrale per esigenze del singolo condomino è consentita, quale uso più intenso del bene comune, con eccezione del caso in cui tale varco metta in comunicazione l’appartamento – del condomino con altra unità immobiliare attigua, pur di proprietà del medesimo, ricompresa in un diverso edificio condominiale, poichè in questo caso il collegamento tra unità abitative determina la creazione di una servitù a carico di fondazioni e struttura del fabbricato.
Pertanto, concludono i ricorrenti, dica la Corte di Cassazione: se può ritenersi innovazione, ovvero modificazione della cosa comune vietata dal R.D. n. 1165 del 1938, art. 214, e dell’art. 7 del Regolamento condominiale della Cooperativa edilizia (Omissis) l’apertura di una porta garage in sostituzione ed in ampliamento di una preesistente finestra, nel muro perimetrale di un edificio condominiale al servizio dell’unità di proprietà esclusiva di singolo condomino, facente parte dello stesso edificio. Se può il predetto art. 7, corrispondente sostanzialmente al testo dell’art. 1120 c.c. , interpretarsi nel senso di vietare un siffatto intervento.
b) Con il secondo motivo, l’omessa motivazione contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c. , n. 5). Secondo i ricorrenti la Corte distrettuale non avrebbe minimamente considerato il profilo dell’effettiva alterazione della cosa comune in conseguenza dell’intervento de quo, nel senso della limitazione del pari uso degli altri condomini e della prosecuzione dell’esercizio dell’uso del muro stesso.
c) Con il terzo motivo la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione al R.D. n. 1165 del 1938, art. 214, e all’art. 17 del Regolamento condominiale della Società Cooperativa edilizia (Omissis). ( art. 360 c.p.c., n. 3). Secondo i ricorrenti la Corte distrettuale non avrebbe tenuto conto che gli attori, per conseguire la condanna dei convenuti al ripristino, avrebbero dovuto dimostrare che l’intervento di cui si dice recava pregiudizio all’uso del muro comune e che gli attori non avevano offerto alcuna prova del proprio assunto.
Pertanto, concludono i ricorrenti, dica la corte di Cassazione: se può essere disposta la rimessione in pristino della parte comune modificata da un singolo condomino in difetto di prova circa un concreto pregiudizio per l’uso della cosa medesima da parte degli altri condomini, sicchè il condomino che lamenta che la modificazione della parte comune dell’edificio ad opera di altro condomino lede il proprio diritto a farne pari uso, è tenuto a dare prova di tale pregiudizio.
1.1.- I motivi appena indicati, per evidenti ragioni di ordine logico e per economia di trattazione e di motivazione, possono essere esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione ed interdipendenza riguardando tutti – o direttamente o indirettamente per gli effetti riflessi e conseguenti – la questione (sia pure sotto profili diversi) di verificare se nell’ipotesi l’intervento edilizio effettuato dai coniugi M. sul muro condominiale integrava gli estremi di una modifica rientrante nella previsione di cui al R.D. n. 1165 del 1938, art. 214, oppure integrava gli estremi di un uso più proficuo della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 c.c. , e art. 1120 c.c.. E tutti e tre i motivi sono infondati.
Come ha avuto modo di chiarire la Corte distrettuale, non vi era dubbio che l’intervento edilizio operato dagli appellati aveva inciso sulla cosa comune dato che (….) risultava che gli stessi avevano realizzato dei lavori di apertura garage ampliando una finestra esistente per consentire l’accesso carrabile ai locali (….) siti al piano terreno dello stesso stabile. Ora, è di tutta evidenza, e non era necessario esplicitarlo ulteriormente, che l’opera descritta integrava, – comunque, gli estremi di una modifica del muro comune, posto che in conseguenza di quella trasformazione il muro di cui si dice, non presentava lo stesso aspetto che aveva al momento della sua realizzazione e considerato pure che la funzione e la struttura di una porta è diversa da quelli di una finestra. D’altra parte, i ricorrenti non indicano, neppure, le ragioni per le quali nel caso in esame l’opera realizzata non integrava gli estremi di una modifica, essendo insufficiente affermare che la trasformazione da finestra in porta non aveva alterato la destinazione e la funzione del muro comune, perchè la modifica può riguardare, e nel caso in esame ha riguardato, gli elementi strutturali ed esteriori del muro, indipendente dai riflessi che la modifica di cui si dice abbia potuto avere sulla destinazione e sulla funzione del bene di che trattasi.
Accertata l’avvenuta modifica del bene condominiale, correttamente la Corte distrettuale ha ritenuto che quella modifica era in contrasto con la previsione di cui al D.R. n. 1165 del 1938, art. 214, nonchè con l’art. 7 del Regolamento condominiale laddove si afferma che i condomini non possono apportare innovazioni, nè modificazioni alle cose comuni, anche se dirette al miglioramento e all’uso più comodo ed al maggior rendimento di esse, se non previa deliberazione dell’assemblea dei condomini (…). Si tratta, come è evidente di una normativa speciale rispetto a quella che disciplina la comunione nonchè il condominio ( artt. 1102 e 1120 c.c. ) e come tale prevale su quest’ultima e, comunque, non è sovrapponile alla prima. Pertanto, inconferente è il richiamo operato dai ricorrenti all’orientamento espresso in varie occasioni da questa Corte secondo il quale l’apertura di un varco nel muro perimetrale per esigenze del singolo condomino è consentita, quale uso più intenso del bene comune, dato che attiene ad una normativa, quella di cui agli artt. 1102 e 1120 c.c. , derogata dalla normativa speciale di cui al R.D. n. 1165 del 1938 .
1.1. a) Ciò posto è di tutta evidenzia che la Corte distrettuale non ha mancato:
a) di chiarire che la modifica del muro condominiale risultava dalla perizia giurata, nonchè dall’interrogatorio dello stesso perito Ing. (Omissis); b) di specificare che anche i muri di mera tamponatura, come i ricorrenti ritengono fosse il muro condominiale di cui si dice, erano da considerare muri maestri in quanto, come già affermato da questa Corte in più occasioni, determinano la consistenza volumetrica dell’edificio unitariamente considerato, proteggono dagli agenti termici ed atmosferici e ne delineano la sagoma architettonica; c) di rilevare che l’intervento edilizio di che trattasi non aveva rispettato le prescrizioni di cui al R.D. n. 1165 del 1938, art. 214, nonchè dell’art. 7 del Regolamento condominiale.
1.1. b) A sua volta, la Corte distrettuale non ha omesso di considerare, nè ha violato, le prescrizioni di cui all’art. 2697 c.c. , in tema di onere della prova, posto che il ripristino del muro condominiale, così come era esistente al momento dell’intervento edilizio effettuato dai convenuti, non era relazionato nè relazionabile all’esistenza di un pregiudizio all’uso del muro comune, ma alla semplice esistenza di una modifica del muro condominiale oggetto della presente controversia. Pertanto, gli attori avevano l’onere, così come è stato assolto, di dimostrare che l’intervento edilizio effettuato dai convenuti era stato realizzato senza le dovute autorizzazioni previste dalla normativa di cui al R.D. n. 1165 del 1938, artt. 58 e 214, nonchè dell’art. 7 del Regolamento condominiale approvato dal Ministero del LLPP. 2.- Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano la motivazione contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c. , n. 5).
Secondo i ricorrenti, l’affermazione della Corte distrettuale secondo la quale la delibera condominale del 4 febbraio 1974 sarebbe irrilevante perchè assunta in epoca in cui il Condominio non era ancora venuto ad esistenza essendo sorto solo a seguito dell’atto pubblico di assegnazione del 22 maggio 1992 e, pur ipotizzando un condominio di gestione, lo stesso avrebbe dovuto essere limitato alla gestione relativa all’uso e al godimento delle cose comuni, ma privo della competenza di concedere autorizzazione ai soci a modifiche e/od innovazioni degli immobili inerenti il fabbricato sociale, non avrebbe considerato che l’apertura in questione costituiva proprio un’estrinsecazione dell’uso di una parte comune.
2.1.- Il motivo rimane assorbito dal primo motivo posto che si è già escluso che l’intervento edilizio effettuato dai convenuti sul muro condominiale integrasse gli estremi di un uso del bene comune trattandosi di una modifica dello stesso.
3.- I ricorrenti lamentano ancora:
a) Con il quinto motivo, la violazione e falsa applicazione del D.R. n. 1165 del 1938, art. 214, e dell’art. 17 del Regolamento condominiale della Cooperativa E., dell’art. 1120 c.p.c., e art. 1136 c.p.c., comma 5. Secondo i ricorrenti, la Corte distrettuale non avrebbe tenuto conto che la delibera del 4 febbraio 1974, benchè intervenuta prima della costituzione del Condominio non avrebbe potuto dirsi incompatibile con al volontà dei soci assegnatali, per come manifestato nell’atto di assegnazione o, comunque, dalla stessa superato soddisfacendo in tutto e per tutto il prescritto requisito della maggioranza richiesta dalla predetta norma e dal regolamento condominiale, essendo stata assunta all’unanimità e non impugnata. Il superamento della delibera di cui si dice, sempre secondo i ricorrenti, comporterebbe ancora una volta una falsa applicazione del R.D. n. 1165 del 1938, art. 214, e dell’art. 17 del Regolamento condominiale.
Pertanto, concludono i ricorrenti, dica la Corte di Cassazione: se in materia edilizia popolare ed economica ove i soci di una cooperativa, prima dell’assegnazione, deliberano all’unanimità di autorizzare la modificazione di una parte comune, e con il successivo atto di assegnazione richiamano le norme del R.D. n. 1165 del 1938 , e del regolamento condominiale richiedenti, per le modificazioni della cosa comune, le maggioranze previste dall’art. 1136 c.c. , comma 5, la modificazione intervenuta secondo le modalità della prima deliberazione deve ritenersi vietata dal R.D. n. 1165 del 1938 , e dal regolamento condominale, riproducesti il combinato disposto dell’art. 1120 c.c. , e art. 1136 c.c. , comma 5.
b) Con il sesto motivo, l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio ( art. 360 c.p.c. , n. 5). Secondo i ricorrenti, la Corte distrettuale, avendo negato rilevanza alla decisione assunta il 4 febbraio 1974, non considerando che la stessa rispettava in tutto e per tutto i limiti imposti dal R.D. n. 1165 del 1938, art. 214, e dell’art. 17 del Regolamento condominiale più volte richiamato avrebbe comportato anche una palese omissione di motivazione in ordine all’effettiva volontà dei condomini fra i quali la stessa (Omissis) e il suo dante causa M..
3.1- La Corte rileva l’infondatezza di queste censure che, per evidenti ragioni di ordine logico e per economia di trattazione e di motivazione, possono essere esaminate congiuntamente per la loro stretta connessione ed interdipendenza riguardando entrambi, direttamente o indirettamente, la questione (sia pure sotto profili diversi) di verificare se la delibera del 4 febbraio 1974 avrebbe dovuto considerarsi superata dalle previsioni di cui all’art. 3 dell’atto pubblico di assegnazione del 22 maggio 1992.
In verità e a ben vedere con questi motivi, i ricorrenti ripropongono corrispondenti motivi di appello che sono stati esaminati e delibati correttamente dalla Corte distrettuale. Anche, in questa sede, non può che condividersi l’affermazione della Corte di appello, perchè corretta sotto il profilo logico e, soprattutto, sotto il profilo giuridico, nonchè ampiamente motivata, e cioè, quella secondo cui la delibera del 4 febbraio 1974 non poteva farsi rientrare nella disciplina condominiale perchè, comunque, non era stata richiamata nè dell’atto di assegnazione del 22 maggio 1992, nè dal Regolamento condominiale. Nè può considerarsi sufficiente, come sostengono i ricorrenti, la circostanza che quella delibera era stata adottata all’unanimità dei soci perchè non solo quell’atto, ai sensi della normativa di cui al RD. n. 1165 del 1938, non poteva essere assunto, dai soci, nel tempo in cui è stato assunto, ma è soprattutto perchè non è stato ratificato, e/o comunque riconosciuto, nè direttamente nè indirettamente, dai successivi atti.
Come correttamente ha evidenziato la Corte distrettuale: appare evidente, non facendosi richiamo nel detto atto pubblico in alcun modo alla precedente deliberazione del 4 febbraio 1974 che tale deliberazione non possa più farsi rientrare nelle disciplina condominiale dal momento che deve ritenersi che con tale atto del 22 maggio 1992 i soci assegnatali, in assenza, comunque, di alcun richiamo al contenuto della precedente deliberazione abbiano inteso disciplinare ex novo i rapporti inerenti i singoli alloggi acquistati e le parti comuni del fabbricato, prescindendo, cioè, dalla citata deliberazione. La stessa Corte specifica, ancora, che tale atto (la delibera del 4 febbraio 1974) non era stato richiamato neppure nel Regolamento condominiale approvato dal Ministero dei LLPP prodotto in primo grado dagli appellanti (e non contestato dalla difesa della controparte nè sotto il profilo del contenuto normativo, nè sotto il profilo dell’intervenuta approvazione dello stessa da parte del Ministero dei lavori Pubblici). E, di più, la Corte distrettuale non ha mancato, neppure, di osservare che gli stessi appellati per contrastare l’assunto della controparte nella parte in cui ha sostenuto che la deliberazione del 4 febbraio 1974 era stata adottata anteriormente al sorgere del condominio, hanno sostenuto, ma, infondatamente, che per il previo consenso della maggioranza di cui al R.D. n. 1165 del 1938, art. 214, non sarebbe necessaria una formale delibera, così riconoscendo in sostanza che l’iniziativa edilizia dagli stessi assunta nell’anno 1995 richiedeva il consenso di cui alla detta norma.
E, comunque, i soci assegnatali delle cooperative edilizie a contributo statale, ancorchè abbiano dichiarato di consentire a determinate modificazioni o varianti da apportare allo stabile, ai relativi accessori o servizi o alla consistenza e destinazione di parti comuni, non sono senz’altro vincolati, in forza del detto consenso, a riconoscere e rispettare la nuova situazione determinatasi in seguito all’esecuzione di tali varianti, ed a sottostare alle correlative conseguenze di carattere patrimoniale, qualora le varianti stesse siano state illegittimamente attuate senza il preventivo consenso del ministero dei LL PP e dell’istituto mutuante; a meno che non siano essi stessi direttamente partecipi e corresponsabili di siffatto illegittimo operato.
4.- Con il settimo motivo i ricorrenti lamentano l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio (art. 360 c.p.c. , n. 5) Secondo i ricorrenti la Corte distrettuale non avrebbe potuto da un lato riconoscere che il ripristino competeva, in forza delle norme più volte richiamate esclusivamente al competente Ministero e, immediatamente, dopo, in base alle stesse norme richiamate dall’atto di assegnazione, accogliere la pretesa del condomino, in assenza di iniziative della stessa autorità preposta.
4.1.- Il motivo è infondato per le ragioni di cui si dirà.
Intanto, correttamente la Corte di merito ha chiarito che il Ministero competente ha la facoltà di reagire alla violazione e di chiedere la rimozione parziale o totale delle modifiche o delle innovazioni apportate al bene condominiale, nonchè il ripristino quo ante all’intervento edilizio. Così come correttamente la Corte ha chiarito che, ai sensi del R.D. n. 1165 del 1983, art. 58, comma 2, al condomino non è data la facoltà di invocare la violazione dell’art. 214, u.c., del RD più volte citato, appartenendo la relativa legittimazione al Ministero competente il quale ha la mera facoltà di ordinare la rimozione parziale o totale o costruzioni siano pregiudizievoli al decoro e alla stabilità degli edifici ovvero agli interessi dell’Ente mutuante o dei singoli osci.
Pertanto, nessun errore la Corte ha commesso con riferimento all’applicazione della normativa di cui all’art. 214, e per richiamo al R.D. n. 1165 del 1938, art. 239.
4.1. a) A sua volta in base al R.D. 28 aprile 1938, n. 1165, art. 131, la speciale commissione di vigilanza per l’edilizia popolare ed economica decide “su tutte le controversie attinenti alla prenotazione ed assegnazione degli alloggi, alla posizione e qualità di socio od aspirante socio nonchè sulle controversie tra socio e socio ovvero tra socio e cooperativa in quanto riguardano rapporti sociali”. Nella specie, invece, la controversia: a) pendeva non tra M. e la Cooperativa E., della quale asserisce essere socio, ma tra M., da un lato, ed i coniugi (Omissis) dall’altro b) avente ad oggetto la utilizzazione dei beni condominiali e quindi un rapporto relativo al godimento dei servizi comuni e non il rapporto sociale. In questi termini, pertanto, la Corte distrettuale sarebbe stata onerata ad offrire idonea motivazione solo se avesse ritenuto (e non riguarda il caso in esame) M. privi di legittimazione attiva.
(Omissis)
In definitiva, va rigettato il ricorso principale e dichiarato assorbito il ricorso incidentale. In ragione del principio della soccombenza ex art. 91 c.p.c. , i ricorrenti principali vanno, condannati al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che verranno liquidate con il dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale, condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese giudiziali del presente giudizio di cassazione che liquida in Euro. 1700,00 di cui Euro. 200,00 per esborsi oltre spese generali ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 30 aprile 2015.