Confermata la condanna per “violenza privata” a carico di un condomino che, deciso a difendere la propria proprietà “invasa” dallo spazzacamino chiamato dalla vicina, gli ha tolto la scala impedendogli di venire giù per oltre 40 minuti, sino all’arrivo delle forze dell’ordine. Di seguito la sentenza della cassazione dalla quale si evincono gli estremi della vicenda.
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CORTE DI CASSAZIONE
Sez. V pen., sent. n. 23391/2017
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RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Firenze ha, con la sentenza impugnata, confermato quella emessa dal locale Tribunale, che aveva condannato A.C. per il reato di cui all’art. 610 cod. pen..
Secondo quanto accertato in sentenza, l’imputato rimosse, con violenza, dalla facciata condominiale dello stabile in cui abitava la scala che ivi era stata appoggiata per consentire a T.M. di salire sul tetto e ripulire un camino e un comignolo serventi l’abitazione della condomina Q.L.. In tal modo impedì a T.M. di scendere dal tetto, ove l’uomo rimase per circa 40 minuti, fino all’arrivo della polizia.
2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato lamentando la violazione dell’art. 393 cod. pen., nonché l’illogicità della motivazione con cui è stato escluso l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Deduce che illegittimamente la Corte d’appello ha affermato l’irrilevanza dei motivi che avevano indotto l’imputato a tenere la condotta che gli è contestata, posto che l’art. 393 cod. pen. si caratterizza proprio per l’intenzione dell’agente di difendere un proprio diritto (sussistente o meno, vero o semplicemente opinato). In ogni caso la pretesa di A.C. era, in astratto, “ragionevole e verosimile” posto che si trattava della sua abitazione e suo era il tetto su cui – non autorizzato – era salito T.M..
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile per un duplice ordine di motivi.
1. Innanzitutto, perché la qualificazione del reato non è stata contestata in appello. La Corte di Cassazione, a seguito della presentazione di motivo dell’imputato non enunciato in appello, può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto, ma solo entro i limiti in cui esso sia stato storicamente ricostruito dai giudici di merito (Cass., n. 6578 del 25/1/2013). Nella specie, la valutazione della tesi difensiva – incentrata sull’invasione della proprietà dell’imputato da parte di T.M. – presuppone l’accertamento che il muro su cui fu apposta la scala e il tetto su cui era salito T.M. fossero di proprietà esclusiva di A.C.; il che non è dato desumere dalla sentenza d’appello.
2. Di poi, va considerato che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si differenzia da quello di cui all’art. 610 cod. pen., che contiene egualmente l’elemento della violenza o della minaccia alla persona, non nella materialità del fatto che può essere identica in entrambe le fattispecie, bensì nell’elemento intenzionale. Nel reato di ragion fattasi l’agente deve essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli competa giuridicamente, pur non richiedendosi che tale pretesa sia realmente fondata, ma bastando che di ciò egli abbia ragionevole opinione. Il reato di violenza privata, invece, che tutela la libertà morale, è titolo generico e sussidiario rispetto al reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (compreso tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia) e rispetto ad altre ipotesi delittuose che contengono come elemento essenziale la violenza alle persone. Esso si risolve nell’uso della violenza – fisica o morale – per costringere taluno ad un comportamento commissivo od omissivo ed, atteso il suo carattere generico e sussidiario, resta escluso, in base al principio di specialità, allorché la violenza sia stata usata per uno dei fini particolari previsti per la “ragion fattasi” (Cass., n. 10534 del 22/3/1988). Alla luce di tale insegnamento giurisprudenziale il ricorso si appalesa manifestamente infondato, posto che non è dato comprendere – nella specie – quale fosse la relazione tra il diritto vantato dall’imputato e la condotta da questi tenuta, né il ricorrente lo spiega. Se il diritto vantato da A.C. era quello di proprietà, allora sarebbe stata comprensibile un’attività diretta ad impedire a T.M. di salire sul tetto, non già ad impedirgli di scendere, costringendolo, con grave pericolo per la sua incolumità personale, a rimanere laddove – secondo l’impostazione difensiva – non aveva diritto di salire, né di stare. Sebbene non sia proprio corretta l’affermazione contenuta in sentenza, secondo cui “non assume alcuna rilevanza il fatto che l’imputato ritenesse di dover difendere un proprio diritto”, il tenore complessiva della decisione rende palese che la Corte di merito ha escluso la ricorrenza del delitto di ragion fattasi per il motivo che nessun diritto dell’imputato era stato posto in pericolo (T.M. era pacificamente salito sul tetto, su richiesta di una condomina, in pieno giorno, per effettuare lavori di pulizia, e non già per attentare alla proprietà altrui. Circostanza di cui A.C. era ben consapevole).
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ravvisandosi profili di colpa nella proposizione del ricorso, al versamento di una somma a favore della Cassa delle ammende che, in ragione dei motivi dedotti, si stima equo determinare in euro 2.000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000 a favore della Cassa delle ammende.
Motivazione semplificata.